tag:blogger.com,1999:blog-35869555268072223772024-03-14T10:14:21.031+01:00Mediazione Familiare Sistemica 1Rivista di mediazione familiare sistemica N.1 - 2001 Semestrale www.mediazione-familiare.itMediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comBlogger34125tag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-50204086182463388242007-04-06T19:40:00.000+01:002008-12-09T00:02:39.126+01:00IL PROCESSO VERSO LA RICONCILIAZIONE<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjzfx3JUYgaEldV6GmboSzQrWcmraIBXLhNZyLg_5ppY5avTMMS7wXTERxbuI0bx5weroKxFzUj039kUvSrA3ZSFbIAftJcBw7fDNSYhbW_bD7SQC71RNfv1X-2oqKxVncJVvI3i3D3sxQ/s1600-h/1.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjzfx3JUYgaEldV6GmboSzQrWcmraIBXLhNZyLg_5ppY5avTMMS7wXTERxbuI0bx5weroKxFzUj039kUvSrA3ZSFbIAftJcBw7fDNSYhbW_bD7SQC71RNfv1X-2oqKxVncJVvI3i3D3sxQ/s320/1.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050409767385098658" border="0" /></a></span><span style="font-size:100%;"><strong>Carlos E. Sluzki</strong></span><span style="font-size:100%;"><span style="font-family: arial;"><br />Professore, Scuola di Politica Pubblica e Istituto per l'Analisi e la Soluzione del Conflitto, George Mason University, Fairfax, VA U.S.A.; Professore di Psichiatria e Scienze del Comportamento, George Washington University Medical School, Washington DC, U.S.A. </span><a style="font-family: arial;" href="mailto:csluzki@gmu.edu">csluzki@gmu.edu</a><span style="font-family: arial;">.<br /><br /></span></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Il tortuoso sentiero “tra vendetta e perdono” (Minow, 1999), tra scontri a somma zero e collaborazioni a somma non-zero (Axelrod, 1984), può essere lastricato di buone intenzioni ma è in realtà pieno di innumerevoli ostacoli.<br />Per cominciare, tale processo di trasformazione è lento e frustrante, un ritmo che può scontrarsi con le pressanti speranze e necessità delle parti coinvolte, accrescendo così lo scambio di accuse di cattiva volontà nei confronti dell’altra parte e il fallimento del processo. Nei fatti, studi sul tempo reale stimato della ripresa socioeconomica successiva ad una guerra, indicano che questa “solitamente richiede minimo due decadi di intenso sforzo” (Kreimer et al., 2000, p.67).<br />In secondo luogo, mentre la minaccia di un rinnovato conflitto può essere più o meno presente in momenti differenti, il suo progresso è fortemente instabile. L’evoluzione di un conflitto è estremamente sensibile, se non dipendente, da variabili provenienti da fonti molteplici. Queste possono essere relazionali – originate dai cambiamenti nella “spirale delle prospettive reciproche” (Laing, Phillipson and Lee, 1966) delle parti, nei termini della percezione che ciascuno ha dell’altro, percezione dell’altrui percezione di queste, eccetera. Possono essere variabili derivate da fenomeni contestuali – fattori sopra- o extra-relazionali, siano essi “atti divini”, come un periodo di siccità nella regione, o il fallimento economico di un potenziale alleato (o, in una coppia in conflitto, la malattia di uno dei figli)1. Possono dipendere da vicissitudini interne alle parti, come il bisogno di un dato governo di galvanizzare l’opinione pubblica in modo da distrarre la popolazione dalle incongruenze interne – ne è un esempio il progetto “out-of-the-blue” della sfortunata guerra della Falkland nel 1982, ad opera della giunta militare al potere in Argentina, quando la loro popolarità era in declino, mentre l’economia del paese andava in pezzi. Terzo, la complessa natura dei sistemi umani e politici ci assicura che ci saranno alcune aree o settori specifici in cui il cambiamento, l’evoluzione e il progresso sono più praticabili che in altri, con maggiori o minori possibilità di passare da attività conflittuali ad attività basate sulla collaborazione. Ad esempio, paesi confinanti in conflitto possono essere ciò nonostante capaci di sviluppare una minima cooperazione nelle attività agricole ma non nel settore industriale (e una coppia in conflitto può essere capace di conversare in maniera civile durante la cena ma non di coinvolgersi in un tenero incontro sessuale…o viceversa).</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Dallo scontro all’integrazione: una sequenza di stadi</b><br />Una quarta, forse meno discussa se non riconosciuta, variabile è che il cammino dal conflitto aperto alla collaborazione costruttiva, piuttosto che costituire un tranquillo continuum, è caratterizzato da un insieme di distinti passi intermedi, o stadi, o stazioni. Questi stadi costituiscono una progressione o sequenza evolutiva (sebbene, come menzionato precedentemente, in ogni momento, in qualsiasi scenario complesso, ci possano essere espressioni di stadi differenti). Ogni stadio descrive – o è caratteristico di – uno specifico periodo di una data relazione entro il processo, e quindi misura l’andamento del processo di cambiamento. Dovrebbe anche essere sottolineato che molti di quelli che nella sequenza evolutiva costituiscono passi intermedi, possono divenire, comunque, un traguardo auspicabile entro il processo, e perfino il termine del percorso.<br />I tratti specifici che caratterizzano ciascuna di queste configurazioni sono, naturalmente, dipendenti da come si considera la natura della relazione (stiamo parlando di coppie maritali in conflitto, di vertenze sulla gestione del lavoro, di escalation inter-etnica, di due paesi in guerra?). Dipendono anche dalla natura del conflitto (riguarda responsabilità reciproche, il controllo del territorio, salvare la faccia, questioni finanziarie?), così come dalle innumerevoli variabili contestuali, siano esse culturali o circostanziali.<br />Quando analizziamo le difficoltà di questo percorso, la transizione tra due qualunque di questi passi appare talvolta disgiunta e talvolta tormentosamente complessa. Un acuto esempio di questa asserzione può essere rinvenuto nell’accurato resoconto, fatto dall’interno, dell’irlandese”Good Friday Agreement”, che George Mitchell ha contribuito a definire (Mitchell, 1999).<br />Inoltre, due passi avanti sono talvolta seguiti da uno – o più – passi indietro. Comunque, il semplice fatto che la progressione verso la collaborazione costruttiva abbia luogo un passo alla volta e con un ordine o sequenza prevedibile, indica che siamo in presenza di un processo normativo.<br />Questa presentazione mira a specificare la sequenza di passi distinti, o posizioni, che caratterizzano il lungo cammino da un estremo, il conflitto aperto, all’altro, la piena integrazione, e ad esplorare alcuni dei tratti più salienti di ciascuno di questi stadi. Mentre ognuno di questi stadi è stato abbondantemente descritto fino al punto di divenire conoscenza comune, quello che viene qui proposto come lente è un modello evolutivo che, in virtù della sua natura sequenziale, possa costituire la cornice per il progetto di interventi e processi valutativi. Può inoltre costituire la cornice per comprendere i fallimenti nei processi di riconciliazione: aggirare alcuni di questi passi, nella pianificazione e realizzazione dei processi di pacificazione e riconciliazione, può diminuire la probabilità di successo.<br />Segue la sequenza di stadi:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"> <ol> <li><span style="font-size:100%;">Conflitto: questo stato implica un coinvolgimento attivo in ostilità tese a danneggiare la vita, le possibilità di sussistenza o il benessere dell’altra parte. Ogni parte presume e attribuisce intenti cattivi a qualsiasi azione dell’altra. I principi base per stabilire o mantenere un dialogo sono infranti, e la comunicazione è talvolta realizzata in maniera incerta, tramite i buoni uffici di una terza parte “neutrale”. La narrazione che domina e si ancora a questo stadio – che domina i discorsi di ciascuna parte, così come i loro portavoce o i media che controllano – può essere riassunta nell’affermazione che “L’ostilità è l’unica strada”. I correlati emozionali che dominano i partecipanti sono: esaltazione – il potenziamento dello scontro -, disprezzo – una percezione denigratoria dell’altro contendente -, e ostilità. Le regole della partecipazione a questo stadio sono precisamente quelle di un gioco a somma-zero: “La tua perdita è il mio guadagno”.<br /><br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Coesistenza: sebbene le parti coesistano senza atti aperti di violenza – talvolta fianco a fianco come due paesi confinanti, o famiglie vicine, in una disputa violenta, talvolta a distanza, come una coppia in cui la donna si ripara in un rifugio, in seguito ad un abuso fisico da parte del marito - questo stadio rimane dominato da comportamenti che denotano una presunzione di cattive intenzioni per ogni azione dell’altro. Un esempio recente di tale presunzione riferita all’azione è rappresentato dalle fasi di escalation e de-escalation dell’allarmante scontro tra India e Pakistan per la contesa sul territorio del Kashmir nel giugno 2002, durante il quale si esprimeva l’interpretazione negativa e l’aperta sfiducia circa ciò che altrimenti poteva essere visto come un gesto di conciliazione manifestato da entrambe le parti. La messa in atto dell’ostilità è solo ridotta dalla presenza di una “zona neutrale”, vera o virtuale, fortemente messa sotto pressione, pattugliata o controllata da una potente parte indipendente (come la diplomazia del bastone e della carota messa in atto dagli Stati Uniti per ridurre il rischio di conflagrazione tra India e Pakistan nel 2002, o gli attuali contingenti delle Nazioni Unite a Timor Est o in Kossovo, o un’attiva separazione fisica o la presenza di un terzo membro familiare nel caso di conflitto maritale potenzialmente violento; ciascuno di questi è un esempio di funzioni di mantenimento di pace (Ury, 1999). La narrazione dominante in questo stadio sono le variazione del motto “Noi siamo pronti ad atti ostili, qualora fossero richiesti”. Le emozioni dominanti che sostengono e sono sostenute da questo stadio sono il risentimento – un risentimento caratterizzato dalla ruminazione ripetitiva di vittimizzazioni passate e di vecchi e nuovi rancori -, rabbia – mantenuta viva da quelle ruminazioni e, in uno scenario appropriato, dai media -, e la sfiducia nell’altra parte. Le regole dello scontro tra le parti continuano a seguire i principi di un gioco a somma-zero.<br /><br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Collaborazione: sebbene permanga come sfondo la presunzione di intenzioni negative, lo scenario cambia quando hanno inizio alcune azioni in comune, alcune collaborazioni come la coltivazione condivisa di territori di frontiera confinanti, o la ricostruzione di un ponte, o il ristabilire una strada lungo una linea di frontiera, o anche la condivisione di un fiume, quando donne provenienti dalle due parti lavano i panni, ciascun gruppo usando il margine opposto. La presenza esterna e regolatrice della terza parte diventa meno visibile, e il suo ruolo può divenire quello di testimoniare o verificare il processo, e occasionalmente comportarsi come un governatore cibernetico, per ridurre le deviazioni dai parametri dell’accordo esistente. Il proclama di avvertimento che sottolinea la narrazione che domina questo stadio recita: “L’ostilità è una possibilità cui ricorrere”, e un’ambivalenza più tranquilla comincia a ridurre le nuvole della sfiducia quale emozione dominante. Alcune regole caratteristiche dei giochi a somma-non-zero, possono iniziare ad essere osservate nel processo tra le parti – questo è lo stadio in cui il primo sentore di una società civile (ri) appare.<br /><br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Cooperazione: lo sviluppo di alcune pianificazioni di attività comuni (co-operazione), come il progetto di una diga per facilitare l’irrigazione in entrambi i territori, è accompagnato dal passaggio dall’assunzione dominante verso l’attribuzione di intenti neutrali all’altro (“Loro possono non essere nostri amici, ma non si comportano come nostri nemici. Anche se fanno i loro interessi, questi interessi coincidono con i nostri”). La presenza di una barriera esterna non è più necessaria, e quelle forze vengono avvertite come un ricordo quasi imbarazzante delle passate ostilità – in questo stadio agenzie di soccorso e emergenza, come UNHCR e WFP, completano il loro ritiro dal campo, venendo rimpiazzate dall’auto-aiuto. Infatti il motto soggiacente la narrazione in questo stadio sembra evolvere verso “L’ostilità potrebbe essere uno svantaggio maggiore… per entrambi. La pace è desiderabile”. Il campo relazionale muove verso l’adozione di regole a somma-non-zero di associazione, e le emozioni dominanti sembrano passare dall’ambivalenza alla possibilità di una cauta empatia.<br /><br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Interdipendenza: in questo stadio la materializzazione di obiettivi comuni oscura i sospetti residui di cattive intenzioni, le parti prendono parte a progetti comuni e azioni mirate al bene collettivo. La narrazione dominante rivela un consenso: “Noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. L’ostilità sarebbe certamente assurda”, e la natura costruttiva della relazione è attentamente mantenuta e segnalata una e più volte, in una attiva manifestazione di rituali di ricordo a somma-non-zero. Le emozioni dominanti possono includere l’accettazione del passato e anche il perdono dei precedenti misfatti, con cauta fiducia e aperto attaccamento.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Piena integrazione: in questo stadio finale dello spettro tutte le azioni relazionali si basano su di una implicita assunzione di buone intenzioni attribuite ad ogni azione dell’altro, come su di un attivo coinvolgimento nella pianificazione e attività verso il bene comune (piena somma non zero). Inoltre ci sono strategie/sistemi di gestione del conflitto costruite entro l’infrastruttura relazionale, così che quando sorge un problema, e succede, può essere riformulato, attribuendo intenzioni positive all’altro. In più, ognuno supporta la crescita dell’altro. La narrazione è ispirata al proclama: “Noi siamo uno. L’ostilità non sarà più presa in considerazione”. Le emozioni dominanti sono quelle di solidarietà, fiducia amichevole, e forse amore. Raggiungere questo passo – cosa che capita saltuariamente nelle relazioni interpersonali e ancor più raramente nei sistemi più grandi – comporta un cambiamento di second’ordine (a livello qualitativo) nella relazione.<br /> Come abbiamo già detto, questa sequenza di stadi è proposta come NORMATIVA, e cioè, si può prevedere che la maggior parte delle relazioni conflittuali passi attraverso queste configurazioni. Il processo può rimanere fermo a qualunque stadio, così come peggiorare verso stadi più conflittuali se non viene spinto nella direzione opposta dalle circostanze, migliori interessi, o da chi lo guida. Parimenti importante, esso è SEQUENZIALE, e cioè questi stadi tendono a non essere saltati, ma uno segue l’altro, ed ognuno contiene esperienze che, una volta consolidate, costituiscono le basi del successivo. Ad ogni modo, la “scalata“da uno stadio evolutivo al successivo è dura; il calo è frequente e può portare a cadere all’indietro verso lo stadio precedente. In aggiunta, la ricompensa evolutiva per gli sforzi attivi fatti per il raggiungimento della “cima “appare – come in una qualsiasi scalata di montagna durante l’ascesa – molto lontana. E - cosa che è più scoraggiante per molti partecipanti - non è possibile avere una vista di ampia portata finché non si sono raggiunte le vicinanze della sommità finale</span></li> </ol> <p> </p> <table style="color: rgb(153, 153, 153);" align="center" border="1" cellpadding="3" cellspacing="0" width="90%"> <tbody><tr> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="24%"><span style="font-size:100%;"><b>STADIO</b></span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="43%"><span style="font-size:100%;"><b>NARRAZIONE</b></span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="33%"><span style="font-size:100%;"><b>EMOZIONE</b></span></td> </tr> <tr bg="" style="color: rgb(204, 204, 204);"> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="24%"><span style=";font-size:100%;" >Conflitto</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="43%"><span style=";font-size:100%;" >“L’ostilità è l’unica strada” </span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="33%"><span style=";font-size:100%;" >Disprezzo, ostilità, esaltazione </span></td> </tr> <tr> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="24%"><span style=";font-size:100%;" >Coesistenza</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="43%"><span style=";font-size:100%;" >“Siamo pronti ad atti ostili, qualora fossero richiesti” </span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="33%"><span style=";font-size:100%;" >Risentimento, rabbia </span></td> </tr> <tr bg="" style="color: rgb(204, 204, 204);"> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="24%"><span style=";font-size:100%;" >Collaborazione</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="43%"><span style=";font-size:100%;" >“L’ostilità è una possibilità cui ricorrere” </span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="33%"><span style=";font-size:100%;" >Ambivalenza</span></td> </tr> <tr> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="24%"><span style=";font-size:100%;" >Cooperazione</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="43%"><span style=";font-size:100%;" >“L’ostilità potrebbe essere uno svantaggio maggiore” </span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="33%"><span style=";font-size:100%;" >Cauta empatia </span></td> </tr> <tr bg="" style="color: rgb(204, 204, 204);"> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="24%"><span style=";font-size:100%;" >Interdipendenza</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="43%"><span style=";font-size:100%;" >“Abbiamo bisogno gli uni degli altri”</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="33%"><span style=";font-size:100%;" >Accettazione del passato, cauta fiducia </span></td> </tr> <tr> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="24%"><span style=";font-size:100%;" >Integrazione</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="43%"><span style=";font-size:100%;" >“Noi siamo uno”</span></td> <td style="color: rgb(0, 0, 0);" width="33%"><span style=";font-size:100%;" >Solidarietà, fiducia amichevole</span></td> </tr> </tbody></table><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /><b>Gli stadi come eigen-valori (autovalori)</b><br />È stato detto e dettagliato sopra che ciascuno stadio presenta dei tratti distintivi. Un’altra cosa che è importante sottolineare è che ognuno ha la sua propria inerzia. Più nello specifico, i sistemi complessi non evolvono in maniera lineare, ma per stadi, alternando cambiamenti qualitativi con stadi instabili-ma-stabili (ciò che von Foerster, nel 1976, chiamò eigen valori di un sistema), con processi complessi che tendono a mantenere il sistema operante entro specifiche soglie. Ad ogni modo, nessun sistema instabile-ma-stabile rimane indefinitamente in un dato stadio. Infatti, la natura instabile di qualunque processo complesso può portare a lungo termine ad aumentare le oscillazioni (quantitative), che possono oltrepassare le soglie stabilite. Quando questo accade – in accordo con la nozione di “punti di rovesciamento” di Gladwell (2000) – l’intero sistema passa ad un nuovo, qualitativamente differente, livello di equilibrio, un nuovo eigen-valore, in cui di nuovo il sistema si fonde…fino a nuove oscillazioni che di nuovo lo destabilizzeranno. Questo processo evolutivo di fluttuazioni che, ad un dato momento oltrepassano una soglia, oltre la quale nuovi livelli di base – nuovo valori, nuove regole del gioco – vengono stabiliti, è stato descritto come caratteristico di tutti i sistemi complessi in equilibrio instabile2.<br />Il valore del comprendere questi processi dal conflitto aperto alla riconciliazione in una prospettiva sistemica – e seguendo un’ottica di stadi instabili-stabili - sta nella possibilità di assumere che i cambiamenti qualitativi avvengano seguendo i processi instabili di un dato stadio. Inoltre, le basi dello stadio successivo possono essere poste a qualunque stadio, ma non possono essere imposte, poiché i sistemi complessi seguono queste dinamiche quantitative-qualitative. Allo stesso tempo, variabili contestuali casuali (nel senso di non prevedibili) introducono molteplici perturbazioni che incidono sui futuri processi/azioni del sistema, riducendo la precisione dei tempi con cui questi cambiamenti evolutivi si susseguono.</span> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Confronto ed integrazione come attrattori.</b><br />Ogni estremo della sequenza proposta funziona un “potente attrattore” – i processi vicini alla loro sfera di influenza tendono ad essere tirati nella loro direzione. E, come abbiamo detto precedentemente, mentre gli stadi intermedi possono acquistare stabilità tramite pratiche regolari, questi sono comparativamente instabili. In aggiunta, la scalata verso l’interdipendenza è consumata dal tempo, e il processo è spesso vissuto dalle parti come estremamente lento e poco gratificante, diversamente dagli spostamenti verso il conflitto, che sono potenzialmente più veloci e perciò allettanti nella loro immediata gratificazione. Da ciò il pericolo di un breve giro verso il processo evolutivo e il ragionevole rischio del temuto “pendio scivoloso “.<br />Ad un estremo dello spettro, i fumi del conflitto hanno un effetto intossicante (“Amo l’odore del napalm al mattino. Profuma di…vittoria!”3). “La forza fa la ragione” e “La guerra è contagiosa” (Ury, 1999). Infatti, all’inizio, il conflitto<br />• Riafferma il Sé (“loro ci vedono, quindi esistiamo”)<br />• Espande il Sé (genera un senso di potenza e di legittimità)<br />• Crea affiliazione (promuove un senso di fratellanza: “Il fascio”)<br />• Da senso alla vita (crea una storia di ottimismo e protagonismo)<br />• Crea speranze (apre futuri alternativi)<br />• Promuove gli affari (genera microeconomie, mercato nero, baratto, ricostruzioni)<br />Tuttavia, a lungo andare, se persistente, ha effetti tossici (“L’orrore! L’orrore!”4), poiché esaurisce le risorse e promuove la disperazione, un’esperienza che annulla il processo precedente. Come osserva Mitchell (1999, p. XII), riferendosi all’opinione pubblica irlandese dopo anni di conflitto protratto, “Le persone desiderano fortemente la pace. Sono stanche della guerra, ne hanno abbastanza di ansia e paura. Continuano ad avere delle differenze, ma vogliono accordarsi attraverso un dialogo democratico “.<br />In alternativa, il polo dell’integrazione attrae in quanto migliora:<br />• prevedibilità e prospettive (la pianificazione può essere fatta con un qualche grado di certezza)<br />• civiltà (le regole delle relazioni interpersonali e istituzionali sono garantite dai comportamenti decretati a livello collettivo, e da agenzie che le applicano basandosi sull’accordo collettivo)<br />• benessere personale e relazionale (in contrasto con lo stress esaustivo che origina dalla violenza)<br />Se l’integrazione persiste, tuttavia, il senso di responsabilità verso la collettività, in primo piano durante la crisi, può rischiare di spostarsi sullo sfondo, a meno che una crisi esterna riattivi quel bisogno e quell’esperienza.<br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Alcuni commenti di chiusura sulle narrazioni</b><br />Come abbiamo brevemente indicato, ogni stadio è caratterizzato da un insieme di narrazioni, dato dalle versioni che le persone raccontano della situazione (chi è “il bravo ragazzo e il cattivo ragazzo”, chi il protagonista e l’antagonista, chi quelli con nobili o ignobili intenzioni, la motivazione più profonda e gli intenti nascosti dell’altro, eccetera).<br />E ciascun insieme di storie tenderà a ricostruire (per rendere più solido e ancorato) il rispettivo stadio. Quindi l’intero processo verso la riconciliazione implica - e può anche focalizzarsi centralmente su – un progressivo cambiamento delle narrazioni dominanti, da storie di vittimizzazione a storie di evoluzione e potenziamento. Questo processo di cambiamento delle narrazioni dominanti (e perciò facilitante dei cambiamenti verso stadi più sviluppati) è difficile, perché le narrazioni dominanti risultano radicate nel tempo, ancorate (e ancoranti) nell’identità individuale e collettiva. Per questo motivo il passaggio attraverso i vari stadi verso la collaborazione costruttiva diventa più praticabile quando i cambiamenti vengono realizzati simultaneamente e ancorati ad azioni a livelli multipli – come nei diversi campi economico, educativo, sportivo, artistico, che contribuiscono (anche se con pesi diversi) a costruire una società civile.<br />Il passo successivo nello sviluppo di questo modello, può includere un’ulteriore specificazione dei tratti (“sintomi”) che caratterizzano ciascuno stadio, allo scopo di rendere possibili un’identificazione (“diagnosi”) più accurata del punto di stallo evolutivo in differenti situazioni di malessere o conflitto. Per il momento dovremo contare sulle nostre sante intuizioni per individuare con precisione, con un certo grado di approssimazione, lo stadio specifico in cui un dato processo può essersi bloccato.<br />Il compito di un mediatore/facilitatore/consulente consiste nel destabilizzare e trasformare la storia portata avanti dalle parti a favore di una (storia) “migliore”, e facilitare l’adozione consensuale di questa da parte di tutti i partecipanti.<br />Uno dei cambiamenti desiderabili nella trasformazione delle storie è il passaggio da un atteggiamento passivo ad uno attivo (da persone come recipienti impotenti di atti ricevuti da altri a persone come agenti di cambiamento). Tuttavia – e questa è la ragione per cui lo sottolineamo qui – questo cambiamento può diventare una spada a doppio taglio, in quanto la prematura assunzione di un atteggiamento attivo (cioè di persone come protagoniste attive della loro storia) entro una narrazione precedentemente caratterizzata da una vittimizzazione passiva, può spingere i partecipanti verso una vendetta violenta piuttosto che promuovere la collaborazione costruttiva (in psichiatria clinica, se la passività fisica che accompagna molte depressioni è neutralizzata con farmaci prima che sia cambiato l’umore, aumenta il rischio di suicidio!).<br />A questa discussione si lega un altro importante argomento: le storie vivono nello spazio interpersonale (in aggiunta allo spazio iconico dei simboli e dei rituali). Quindi l’unità minima di analisi non dovrebbe essere l’individuo ma la “rete sociale“come chiave della vita quotidiana nello spazio interpersonale – incluso ma non limitato alla famiglia, gruppi affini, organizzazioni comuni, aggregazioni legata agli stessi interessi – in cui vecchie e nuove storie circolano e vengono ricostruite, riconfermate e ancorate, o cambiate.<br />Inutile dire che molte reti altamente strutturate (come l’esercito, i partiti politici, i gruppi religiosi) possono essere investite di narrazioni che si auto-sostengono e che possono spingere verso il conflitto, e che può essere difficile mettere in dubbio a causa della fitta e omogenea natura della collettività.<br />Forse un umile obiettivo che dovrebbe soddisfarci è quello di raffinare la nostra capacità di destabilizzare le narrazioni esistenti…e sperare per il meglio. Tuttavia, alzando la posta intellettuale in gioco, la questione più stimolante che può guidarci in qualunque situazione in cui siamo impegnati come facilitatori di cambiamento è quali narrazioni che connettono – e quali pratiche che di esse fanno parte – possano essere seminate o sviluppate in accordo, così da divenire dominanti e rimpiazzare le precedenti, dando una gomitata al sistema conflittuale e facendo un passo avanti nel processo verso la riconciliazione. Se tutto va bene, la mappa qui proposta fornirà un’utile punto di orientamento per la pianificazione del percorso completo dal conflitto alla riconciliazione.<br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><strong>Bibliografia</strong></span></p><ul style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Axelrod R. The Evolution of Cooperation.<br /> New York: Basic Books, 1984.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Conrad J. Heart of Darkness.<br /> (Robert Kimbrook, Ed., 3D. Edition), New York-London: Norton, 1988 (pubblicato<br /> per la prima volta nel 1899).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Foerster H. v. “Objects:<br /> Token for (eigen-) behaviors”. Cybernetic Forum 8 (3&4), p. 91-96,<br /> 1976. Anche in H. v. Foester. Observing Systems. Seaside, CA: Intersystems<br /> Publications, 1981. L’originale in francese era incluso come capitolo<br /> in B. Inhelder, R. Garcia e J. Voneche, Eds. Epistemologie Genetique et<br /> Equilibration. Neuchatel: Delachaux et Nistle, 1978.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Gladwell M. The Tipping Point:<br /> How LIttle Thigs Can Make a Big Difference. New York: Little Brown Co.,<br /> 2000.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Kreimer A., Collier P., Scott<br /> C. S. e Arnold M. Uganda: Post-Conflict Reconstruction. Washington, DC:<br /> The Wordl Bank (Country Case Study Series), 2000.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Laing R. D., Phillipson H. e<br /> Lee A. R. Interpersonal Perceptions: A theory and a Method of Research.<br /> London: Tavistock, 1966.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Minow M. Between Vengeance and<br /> Forgivness: Facing History after Genocide and Mass Violence. Boston, Beacon,<br /> 1998.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Mitchell G. J. Making Peace.<br /> Berkeley: University of California Press, 1999. (nuova edizione, 2000).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Prigogine I. e Stengers I. Orders<br /> Out of Chaos: Man’s New Dialogue with Nature. New York: Bantam Books,<br /> 1984.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style="font-size:100%;">Ury W. The Third Side (inizialmente<br /> pubblicato come Getting to Peace). New York, Penguin, 1999 (nuova edizione,<br /> 2000).<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ul><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><strong>Note</strong></span></p><ol style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style=";font-size:100%;" >Come gli scenari di<br /> conflitto variano dall’interpersonale all’intercontinentale,<br /> dalle relazioni tra individui alle relazioni tra gruppi di nazioni, gli<br /> esempi forniti talvolta si riferiscono alla coppia (come nel caso di un<br /> matrimonio in rovina) e talvolta ad entità socio-economiche e etno-politiche<br /> (come paesi in guerra, o dispute tra nazioni).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style=";font-size:100%;" >Prigoyine e Stengers<br /> (1984) affermano l’universalità di questi processi, definendoli<br /> come l’essenza di tutte le dinamiche (co)evolutive. I sistemi complessi,<br /> essi dicono, passano attraverso periodi di stabilità o equilibrio<br /> entro parametri fissati ma evolvono verso fluttuazioni parametriche che<br /> progressivamente spingono il sistema lontano dallo stato di equilibrio<br /> finché, raggiunta una soglia o “punto di biforcazione”,<br /> vengono posti nuovi livelli di base, e il ciclo ripete sé stesso,<br /> ma ad uno stadio evolutivo differente.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style=";font-size:100%;" >Come esclamò allegramente<br /> un comandante militare nel mezzo di una violenta carneficina, nel film<br /> di Francis Ford Coppola “Apocalypse Now” del 1979, la cui sceneggiatura è di<br /> John Milius e Francis Coppola.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span><li><span style=";font-size:100%;" >Espressione mormorata<br /> in disperazione dal consumato, condannato, suicida colonnello Kurtz, sempre<br /> in “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, inspirato alla novella “Cuore<br /> di Tenebra” scritta da Joseph Conrad nel 1988, in cui un personaggio<br /> omonimo mormora queste stesse parole (Conrad, 1988, p. 72). </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;"> </p>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-77990703183717908062007-04-06T21:13:00.001+01:002008-12-09T00:02:38.954+01:00TESTIMONIARE NELLA MEDIAZIONE - Verso un'Etica Estetica della Pratica<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhimPUGCkO23FBsaZT9CGrrjf8f0pA43H_6F35FStkwqBRx-KWdig467zEFa8O31E70G2SeUzfJxQpiKqvsOTgTKb_mCjCc7Qy0t-bQeQq03n-lHuiCbBZCQoiI4t6WB3zIY_XLjfMe0jg/s1600-h/2.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhimPUGCkO23FBsaZT9CGrrjf8f0pA43H_6F35FStkwqBRx-KWdig467zEFa8O31E70G2SeUzfJxQpiKqvsOTgTKb_mCjCc7Qy0t-bQeQq03n-lHuiCbBZCQoiI4t6WB3zIY_XLjfMe0jg/s320/2.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050414053762460082" border="0" /></a><span style="font-size:100%;"><strong>Sara Cobb</strong></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Direttore dell’Istituto per l’Analisi e la Soluzione<br />del Conflitto George Mason University; Fairfax, VA U.S.A. <a href="mailto:scobb@gmu.edu%20">scobb@gmu.edu </a></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i>(noi possiamo) (ri)pensare l’emancipazione nei termini di un’etica estetica in cui l’individuo ha la capacità di reinventare il proprio modo di essere, di rappresentare… una forma di trasfigurazione in cui l’individuo vede sé stesso come un’opera d’arte. (Jabri, p. 592)</i></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Forse il professor Fiss</span><span style="font-size:100%;">2 aveva ragione – la mediazione fornisce alle parti il luogo in cui fuggire lo spazio normativo della legge, in cui il giudizio, attraverso il processo della lite, può “portare una realtà recalcitrante più vicina agli ideali che ci siamo scelti” (Fiss, 1984, p. 1089). Forse, la mediazione, promuovendo un movimento precipitoso (se non ostinato) verso l’accordo, inaridisce il giudizio normativo e anche l’etica, prima di avere la possibilità di crescere verso la sfera pubblica in cui può “raddrizzare” le ingiustizie. Forse la “dispartià di risorse” che preoccupa il professore Fiss può solo essere riconosciuta e riequilibrata nel ambiente formale legale, e quindi, la mediazione funziona come una perfetta (bio)cultura in cui il fungo degli squilibri di potere, prospera, e colonizza le relazioni. Come mediatore, Owen Fiss continua a punzecchiare la mia coscienza; egli siede, simile ad un’arpia, guardando da sopra le mie spalle quando esercito – per le sue ammonizioni, preveggente nel 1984 quando scrisse “Against Settlement”, ci chiama, entro il campo della mediazione, a riflettere sulle strutture normative attraverso cui possiamo valutare la pratica della mediazione. Certamente, la promessa fondamentale (e tecnica</span><span style="font-size:100%;">3) dell’ADR non ha fornito al campo della mediazione nient’altro che una struttura morale pragmatica, che messa alla prova, come è stato fatto da Fiss, si sgonfia</span><span style="font-size:100%;">4.<br />Ma da quando Fiss ha scritto questa ammonizione, ci sono stati sviluppi normativi nella mediazione. Forse il più degno di nota, Bush e Folger nel loro libro The Promise of Mediation (1994), offrono un’alternativa all’ethos dell’accordo – un focus sulla trasformazione nelle relazioni attraverso la promozione di rispetto e riconoscimento. Ma se questo libro è dirompente per il fatto di offrire un’etica alternativa per la pratica, attinge alla teoria psicologica per spiegare la produzione di rispetto e riconoscimento. Il risultato è, a mio parere, che mentre gli autori puntano in una buona direzione e lontano dall’accordo, la nuova teoria normativa inevitabilmente cade all’indietro verso una versione del romanticismo rousseauiano, perché la psicologia, ancorata fermamente all’Illuminismo, cerca di descrivere le relazioni nei termini di fenomeni intrapsichici come il rispetto e il riconoscimento, ma senza fare attenzione alla natura dell’interazione stessa quale processo normativo, noi siamo lasciati con l’intuizione alla pratica etica di base</span><span style="font-size:100%;">5. D’altra parte, la nostra teoria normativa descrive lo stato finale normativo senza aiutarci a comprendere la pragmatica della conversazione che conduce a questo risultato. E senza una descrizione dell’etica basata sul processo, la nostra teoria deve fare affidamento sul processo della mediazione stessa – sulla presunzione che la struttura del processo condurrà inevitabilmente al rispetto e al riconoscimento.<br />Questo scritto tenta di fornire una base normativa per la mediazione che, se tutto va bene, complicherà la nostra comprensione etica di questa pratica. Nello specifico, elaborerò una critica del “riconoscimento”, seguendo Oliver (2000), il che mi permetterà di basarmi sull’etica della “trasformazione relazionale” alla base del modello trasformativo della mediazione, proposto da Bush e Folger. Attingendo da Oliver, argomenterò che il riconoscimento è un concetto, ancorato all’Illuminismo, che paradossalmente diminuisce piuttosto che consentirci di essere presenti agli Altri, richiedendo la loro estraneità. Differenza per poterci costituire come intero.<br />Al posto di questo concetto, offrirò il processo del “testimoniare” quale processo discorsivo attraverso il quale noi costituiamo la soggettività dell’altro e noi stessi nel processo. Inoltre, attingendo a Foucalt (1980) e Jabri (1998), argomenterò che l’etica del testimoniare non è pragmatica in natura, ma piuttosto estetica, perché è l’estetica che ci permette la creazione di un modello normativo per valutare la pratica narrativa. Infine, attingendo all’indagine elogiativa e alla letteratura sulle questioni circolari, fornirò una descrizione di questa etica estetica nei termini della pratica nel discorso, suggerendo che il modo di inchiesta promosso dal mediatore è etico se e quando destabilizza le narrazioni esistenti e apre all’incertezza, mentre, allo stesso tempo, stimola l’elaborazione del rovesciamento nelle traiettorie narrative. Da ultimo, il mio scopo è di elaborare una teoria normativa per la mediazione che è ancorata alla pratica del testimoniare ed evocativa di un’estetica della narrazione. Mentre questo non dissiperà lo spettro della critica che Fiss invoca, potrà fornire alcune formule magiche che possano essere usate per spostare il terreno su cui la discussione ha luogo, contribuendo entrambi alla nostra riflessione collettiva e alla nostra etica della pratica.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><b>Il paradosso del “riconoscimento” come etica della mediazione</b><br />La teoria della soluzione del conflitto in generale, e la teoria della mediazione più nello specifico, si basa sulla nozione che i conflitti diminuiscono e le soluzioni sono create quando le parti giungono a “riconoscere” l’altro, non solo nel senso che loro conoscono l’altro, ma anche nel senso che attivamente segnalano tale conoscenza, lasciando che l’Altro sappia, nel processo, che loro stanno vedendolo o ascoltandolo. Tuttavia, come Oliver (“Beyond Recognition”) sottolinea, il “riconoscimento” è una nozione Hegeliana che è stata costruita contenendo una nozione di relazione umana che porta con sé un’etica problematica e paradossale per la mediazione:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i>…le teorie (del riconoscimento) descrivono il modo in cui noi vediamo noi stessi nella nostra somiglianza allo stesso modo o all’opposto di quelli che sono differenti da noi stessi. Le relazioni con gli altri sono descritte come lotte per il riconoscimento. Ma se partiamo dall’assunzione che le relazioni sono essenzialmente lotte antagonistiche per il riconoscimento, allora non meraviglia pensare a quanti teorici contemporanei impieghino tanta energia cercando di immaginare come queste lotte possano portare a relazioni personali compassionevoli, relazioni sociali etiche, o relazioni politiche democratiche. Sulla base dell’assunzione che le relazioni umane sono essenzialmente simili a guerre, come possiamo immaginarle come pacifiche? (Oliver, 2000, p.31)</i></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">L’autrice mette in dubbio la nozione che “la soggettività sia il risultato del conflitto ostile” (p.31), e rifiuta le teorie associate dell’identità che costruiscono la soggettività come pre-formata, precedente all’impegno, alla conversazione. Inoltre critica la nozione di Taylor che il riconoscimento è “conferito” all’Altro da un soggetto giudicante che ha trovato un “valore” nell’Altro.<br />Questa valutazione è un’attività intellettuale per Taylor, e conduce verso ciò che Oliver chiama “un mercato di scambio (in cui) noi diamo riconoscimento in cambio di qualcosa per noi prezioso” (Oliver, 2000, p.33). Taylor non solo presume un soggetto preformato, ma anche presume, al centro dei processi intersoggettivi, che il giudizio circa il valore dell’Altro non sia di per sé contaminato dal processo dell’impegno intersoggettivo e da tutte le potenti relazioni che sono attivate in quell’incontro. In questo modo l’intersoggettività, secondo la formulazione di Taylor, non produrrà automaticamente né una struttura normativa per la valutazione dell’Altro, né noi potremo contare su di essa per produrre una trasformazione delle relazioni di quelli coinvolti. Fino a che il valore dell’Altro nasce (o meno) dal giudizio intellettuale (la valutazione del valore dell’Altro), i soggetti sono destinati a riprodurre le relazioni di potere e di cultura che mantengono invisibile l’invisibile, naturalizzando il già conosciuto. Questa non è la base per relazioni trasformative, e costituisce una base inadeguata per la struttura normativa proposta da Bush e Folger (1994).<br />La soluzione di Oliver si basa sul lavoro di Judith Butler</span><span style="font-size:100%;">6, la quale assume che gli spazi intersoggettivi sono spazi di performance in cui la soggettività conta sui processi di esclusione e preclusione per pilotare non solo la relazione con l’Altro, ma anche la relazione con sé stesso. Così mentre Butler ci ha aiutato a focalizzarci sul processo attraverso cui la soggettività emerge, questo processo è uno in cui l’oppressione e l’esclusione dell’Altro entro il soggetto e da parte del soggetto può solo riprodurre la paura e l’odio (per sé e l’altro): “la teoria di Butler non può mai portarci fuori da una nozione “noi contro di loro” della relazione tra sé e gli altri, entro la quale noi possiamo solamente ripetere il trauma originale alla portata di mano di altri e reagire con rabbia diretta a noi stessi e agli altri” (p.39). così mentre Butler ci rende capaci di vedere che i soggetti sono formati attraverso la prestazione negli spazi/processi intersoggettivi, l’autrice non ci aiuta a creare un etica per la conversazione o la mediazione del conflitto che possa fuggire la violenza che lei identifica con la nascita della soggettività stessa.<br />Dal momento che sono i soggetti stessi che forniscono sistemi dilatati o contratti (o in fase di espansione o contrazione) per l’esclusione, la soggettività stessa deve essere il luogo per la trasformazione, per l’evoluzione. Una volta che il problema è tracciato fino alla soggettività, siamo costretti (a mio avviso) a tirarci indietro fino a una soluzione che risiede entro gli individui, e, abbastanza sicuramente, Oliver ci offre la nozione di “vigilanza” quale antidoto alla condizione per l’esclusione di Butler per la soggettività e l’intersoggettività. L’autrice sostiene “la vigilanza nell’elaborazione, analisi e interpretazione del processo attraverso cui noi diveniamo quello che siamo, il processo attraverso il quale diveniamo soggetti e altri da noi, vigilanza nell’interpretare la natura dialogica del sé e il nostro investimento negli altri” (p. 39). In qualche modo, se noi ci proviamo sul serio, (la vigilanza), o se siamo attenti, vigili, possiamo sfuggire la forza centrifuga del solipsismo a causa della quale usiamo la condizione dialogica entro cui viviamo per riprodurre i modelli di esclusione nucleo della riproduzione di sé e dell’altro. A mio parere, noi non possiamo basare un’etica per la pratica della mediazione sulla vigilanza. Se la condizione per la soggettività, il campo della sua creazione è l’intersoggettività e il dialogo, allora noi dobbiamo progettare una pratica etica che esista in quello spazio relazionale, e occuparci non dei processi intrapsichici o psicodinamici, ma delle condizioni che regolano la conversazione entro quello spazio relazionale</span><span style="font-size:100%;">7. Nella sezione che segue, argomenterò il fatto che mentre il “riconoscimento” non può fornire le basi per una teoria normativa della pratica della mediazione, la “testimonianza” può, poiché permette di focalizzare l’attenzione sul discorso, sul processo conversazionale che costituisce il campo in cui le relazioni sono costituite e trasformate. Mentre il “riconoscimento” è un concetto che si riferisce ad un’attività cognitiva interna del soggetto, il testimoniare è un verbo, una pratica nell’interazione che si riferisce non agli individui, ma all’interazione stessa.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><b>Testimoniare: un’Etica per la Pratica Trasformativa.</b><br />Le persone giungono alla mediazione per trovare un rimedio, non una soluzione, come Fiss (1984) ha suggerito. Vengono non solo per sistemare una disputa, ma per raccontare la loro storia</span><span style="font-size:100%;">8, per essere ascoltati, per narrare la loro sofferenza e parlare dell’ingiustizia. La mediazione è potenzialmente riparativa, non solo per il problema, ma per la relazione tra le parti e per l’ordine sociale stesso. La storia della vittima che invariabilmente da inizio a una sessione di mediazione (su entrambi o più lati del conflitto) deriva la sua forza e la sua traiettoria, la sua capacità di attaccarsi, dalle ferite che vengono nominate, e le armi che vi sono associate. I conflitti hanno, alla loro base, una storia di sofferenza che, quando viene lasciata apparire, ri-centra l’attenzione sul dolore, l’esclusione, la violenza delle azioni dell’Altro (i). Poiché le storie delle vittime sono sempre una storia di sofferenza, funzionano anche come un lamento di ingiustizia e una richiesta di rimedio.<br />Questa visione della mediazione come insieme di storie di sofferenza rende più profonda la nostra visione del fenomeno della mediazione stessa; la mediazione, come ogni altra “conversazione”, incluse quelle negli ambienti formali legali, è un processo in cui un mondo di significati e un insieme di relazioni associate sono portati avanti attraverso e nel processo del raccontare storie. Fino al punto che ogni setting o conversazione è fonte di liberazione, è così in quanto funzione di quel processo di racconto di storie. Questo processo può contribuire a una nuova conoscenza del sé, nuovi modelli di interazione con gli altri, così come nuovi “inserimenti” istituzionalizzati per sé e l’altro negli ordini sociali e politici. Le storie che abitano e sono lanciate da una sessione di mediazione (o da un qualunque setting in cui la sofferenza viene elaborata) hanno la potenzialità di rendere il familiare strano e lo strano familiare, poiché le persone cominciano a elaborare storie differenti su di sé e l’altro. Storie di violenza</span><span style="font-size:100%;">9 e di violazioni sono, come Girard (1977) ha notato, i posti in cui la storia di vittimizzazione, le sue origini, è costituita. E in questo processo, sia simbolicamente che letteralmente, le persone si raccolgono per dare un senso a chi ha fatto cosa a chi e perché. Mentre egli postula che noi siamo attratti, dal desiderio verso la vittima, al momento in cui escludiamo (o rendiamo abietta) la vittima, io preferisco bypassare la spiegazione per la quale noi ci riuniamo intorno alla vittima, e semplicemente cercare di capire cosa avviene quando le vittime appaiono – in che modo appaiono. In che modo il sistema morale, che conseguentemente emerge per giudicare e stimare la violenza, emerge, e in che modo pone le basi per altri setting sociali? In che modo questo processo da luogo sia alla comunità che alla legge stessa, come Girard sostiene che faccia? In altre parole, preferisco focalizzarmi sugli aspetti pragmatici del come delle storie delle vittime, così da poter tracciare il loro ruolo nella produzione del cambiamento sociale, così come permettere la loro trasformazione. In questo modo, spero di collegare il processo del testimoniare ai processi narrativi che sono critici nel racconto delle storie delle vittime.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><b>Storie di Sofferenza </b><br />Scarry (The Body in Pain, 1985) ha notato che il dolore, proprio perché resiste al linguaggio (le persone trovano difficile rendere il dolore attraverso il linguaggio), spesso si rivela nella forma di una storia di ferite e armi. La sua descrizione del modo in cui i torturati localizzano la loro attenzione /descrizione sull’arma usata per infliggere dolore e sulle ferite che ne sono risultate è istruttiva, poiché fornisce ai mediatori un metodo per ascoltare il dolore. La sofferenza è una storia su di un evento innaturale, una qualche aberrazione, causata per accidente o intenzione, dalla natura o da persone, che porta alla creazione di ferite. Quelle “ferite” possono essere raccontate come perdite finanziare, o separazioni in sospeso dai bambini per via del divorzio, o degradazione ambientale, eccetera; la narrazione crea un legame tra le ferite (il risultato) e le armi (la causa) attraverso le azioni dell’Altro. Mentre gli studi degli oncologi possono essere luoghi in cui l’arma non è una persona, ma piuttosto un tumore</span><span style="font-size:100%;">10, i setting della mediazione sono posti in cui ogni parte accusa l’Altro(i) di aver causato il dolore, di aver inflitto le ferite. Scarry si riferisce a questo linguaggio del dolore, questa costruzione di ferite causate da armi, come al “linguaggio di azione” e infatti, l’azione è interamente localizzata spesso all’esterno di chi parla, nell’Altro. Questo è in particolare il caso negli scenari di conflitto; in cui ogni parte combatte per stabilire e mantenere il ruolo di vittima per sé, e il ruolo di vittimizzatore per l’Altro; le sequenze della trama sono molto spesso lineari, per il fatto che legano un insieme di eventi che portano a risultati senza connettere le proprie azioni alla produzione di questi risultati. In questo modo, le storie di sofferenza si basano sul trame lineari, come opposte a quelle circolari. I temi morali mossi per giudicare le azioni dell’Altro sono usati simultaneamente per definire chi parla come morale, come buono. Da questa prospettiva, le storie di sofferenza non dovrebbero essere viste come resoconti storici di azioni, ma come resoconti politici che mobilitano un’etica per la valutazione delle azioni. Ma anche questa visione politica delle storie di sofferenza è piuttosto una visione strumentale della narrazione, e presuppone una relazione non-problematica tra narrazione e dolore, tra l’esperienza della violazione e il suo racconto.<br />Questa visione della sofferenza (come narrazione politica) è molto diversa dalla prospettiva di quelli che si focalizzano sul trauma, nel fatto che quest’ultima assume che chi racconta la storia possa essere incapace di narrare gli eventi perché a) sono resistenti alla spiegazione – la normale logica della narrazione non può contenere o tenere sotto controllo la violenza estrema (Langer, 1991); o b) sono psicologicamente incapaci di tirare fuori la storia, perché l’hanno rimossa, perché rimane più grande del sé (Felman e Laub, 1992). Emerge un senso molto chiaro in questo corpo di ricerche, per esempio dalle testimonianze dell’Olocausto, che la narrazione non può penetrarle perché, paradossalmente, non può rivelare o materializzare lo stupore, il silenzio, il capovolgimento, che accompagnano la violenza. Per questa ragione, Oliver (2000), seguendo Felmen e Laub (1992), argomenta che è il processo di dare testimonianza, che si riferisce, alternativamente, alla presentazione della conoscenza, credenza, o esperienza personale, che permette alle persone di sviluppare una qualche relazione con la violenza, in modo che possano tenerla sotto controllo attraverso la narrazione di storie e l’analisi. Ed è attraverso il raccontare che si suppone che le persone ritornino dalla violenza, si riprendano, guariscano (Herman, 1997). Vorrei suggerire che questa prospettiva terapeutica offusca la nostra comprensione, perché suppone che il problema circa la narrazione della violenza stia negli effetti psicologici della violenza, piuttosto che nella relazione problematica e paradossale tra la violenza e il linguaggio.<br />Basandoci su quest’ultima teoria, seguendo Scarry, è possibile vedere cosa è veramente unico nella testimonianza. La sua unicità è interamente legata al fatto che nessun’altra persona può testimoniare per qualcun altro:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i>Qual’è il significato della testimonianza, se è l’unicità della performance di una storia che è costituita dal fatto che, come un giuramento, non può essere portata avanti da nessun’altro? (Felmen e Laub, 1992, 205-206).</i></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Oliver nota che è la performance della testimonianza, quale atto di porre lo straordinario nel linguaggio, che la rende unica, straordinaria. Ciò che rende notevole la testimonianza non è la natura degli eventi che vengono legati tra loro, nonostante il fatto che questi possano essere straordinari, ma piuttosto la performance in sé, l’atto, il processo di portare fuori il “silenzio e la cecità, inerenti all’evento”. E dato che è impossibile portare fuori il silenzio/cecità, l’atto di dare testimonianza è l’atto di rendere quest’impossibilità visibile, di metterla in linguaggio, anche se resiste al linguaggio. C’è molto che non può essere detto, e molto che resiste al linguaggio, anche a causa della terribile natura di quegli eventi (Langer, 1991), o, come Butler ha notato, a causa della condizione del linguaggio stesso – il referente non è mai la cosa cui si riferisce – il significante non è mai il significato, la mappa non è il territorio. Oliver si chiede perché è necessario testimoniare l’impossibilità di dare testimonianza, di essere testimoni, e risponde alla propria domanda argomentando che noi abbiamo bisogno di “ascoltare alla performance oltre il significato…” (p. 39), perché qualunque sforzo di testimoniare è uno sforzo di ripetere ciò che non può neanche essere ripetuto o rappresentato. Dunque la performance riguarda meno gli eventi cui si riferisce, e più la persona che parla, chi racconta, perché è nella natura di ciò che essi rendono abietto, ciò che escludono, ciò che lasciano non detto, ciò che formulano come Altro, che noi possiamo conoscerli. Attraverso la testimonianza di loro, ai limiti della soggettività, al margine dell’identità – lì, dove lottano per rendere la realtà intellegibile - è lì che noi possiamo vedere chi sono, con i ostri occhi, e lì che loro possono conoscere sé stessi. Così è lì, nel posto in cui le persone strutturano la loro sofferenza, in cui lottano per tenere sotto controllo l’esperienza, che hanno bisogno di essere testimoni. L’atto di rendere testimonianza, quando la gente testimonia la propria esperienza, apre spazi in cui chi racconta storie può occuparsi della propria dipendenza dall’Altro (escluso), uno spazio in cui possono re-iscrivere sé stessi, nella performance, per via dell’elaborazione con l’Altro. Questo è uno spazio trasformativo, precisamente perché la performance è sempre ai margini dell’ordinario, del quotidiano, dell’aspettato.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i>L’interpretazione configura e riconfigura i modi in cui noi concepiamo noi stessi e gli altri, e in tal modo aggiunge potere trasformativo alla mobilità del significato… (Oliver, 2000, p. 38).</i></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Da questa prospettiva, le storie di vittimizzazione, o sofferenza, poiché emergono nella congiuntura in cui l’Altro (escluso) si rende visibile come “il cuore segreto che batte nel soggetto” (Oliver, p.37), sono esattamente il posto in cui la trasformazione è più possibile, perché la ripetizione implica riassegnazione di significati, forza i limiti dei discorso, del linguaggio, e dell’esperienza del sé-Altro. Ma questo spazio è critico per la trasformazione personale, relazionale e sociale perché è uno spazio liminale in cui il significato viene facilmente distorto, dove i legami tra sé/Altro e tra passato e futuro funzionano come soglie per il divenire, per l’evoluzione.<br />Le storie di sofferenza sono anche abbastanza resistenti alla trasformazione perché la loro natura liminale (in divenire) è stata significativamente ridotta attraverso il ri-raccontare e la prova. Quando le persone raccontano la storia ad amici, familiari, colleghi di lavoro, vicini, questo raccoglie certezze, e crea per sé lo status di “fatto”. Se questo è il caso, non è semplicemente sufficiente testimoniare la storia di sofferenza in modo passivo, ma piuttosto in uno estremamente attivo, non perché l’ascolto è “attivo” (infatti vorrei argomentare che l’ascolto attivo è un modo estremamente passivo che funziona per ridurre il potere trasformativo del linguaggio), ma perché testimoniare la sofferenza richiede un modo di indagine che può richiamare chi racconta la storia indietro al luogo liminale in cui la testimonianza fa uno sforzo rinnovato per mappare il mondo, e nel processo rifà quel mondo da capo. Quale tipo di ascolto, quale modo di indagine potrebbe supportare la trasformazione? Come Oliver si chiede, “Cosa è che rende la ripetizione (ri-significazione) trasformativa?” (p.38) in che modo i professionisti saprebbero la differenza tra un processo trasformativo di narrazione, e uno che semplicemente ricostituisce la preclusione (espulsione dell’Altro) che è divenuta non solo familiare, ma anche necessaria per la produzione del sé legittimo, nel contratto, il deligittimato (immorale) Altro? “Vigilanza” non è un’istruzione che produce un’intuizione profonda della pratica trasformativa; piuttosto, vorrei argomentare che la testimonianza è il processo di elaborare storie di sofferenza in modi che aprono ad una nuova estetica, una che conduce all’emancipazione di che racconta, e del testimone.<br />E, in vero, i testimoni hanno bisogno di essere emancipati attraverso il linguaggio, o perché loro non hanno alcuna storia e devono rivendicano l’esperienza attraverso il suo racconto, o, all’altro capo dello spettro, perché sono totalmente catturati e sedotti da una storia che è stata raccontata e ri-raccontata così che la narrazione fornisce le linee guida che usano per muoversi attraverso la loro vita. Nelle aule di tribunale i testimoni sono fatti provare, così che la loro testimonianza perde ogni relazione con la loro esperienza di violenza. Anche se è così, ci sono alcuni posti, come la testimonianza delle vittime al TRC, in cui l’esperienza oltrepassa il linguaggio – l’Altro appare così inconoscibile, oltre l’estraneo, quando guardiamo i narratori lottare per costituire sé stessi come persone. In altri luoghi, come nelle sessioni di terapia, il processo di risignificazione che le persone compiono è spesso nuovo, fresco, scarsamente organizzato, non controllato, e perfino turbolento. Giocare con il linguaggio stesso non è insolito, quando i narratori sperimentano con l’espulsione/rigetto di sé e dell’Altro. Nella mediazione, tuttavia, è presente poca freschezza; i narratori non sono al margine del linguaggio, ma invece profondamente ancorati nella loro descrizione della loro sofferenza.<br />Quando le parti in conflitto raccontano la loro sofferenza, come ho detto prima, invariabilmente formulano la loro legittimità o deligittimità dell’Altro; realizzano questa performance attraverso la produzione di trame lineari piuttosto che ricorsive, incorniciando sé stessi come vittime dell’Altro, e collocando una fondamento morale, un insieme di temi che marciano al passo con le loro azioni, mentre squalificano le azioni (e l’essere) dell’Altro. Dunque il sistema narrativo di una storia di sofferenza tronca la “realtà” non perché la storia è incompleta (come se la completezza o l’accuratezza potessero fornire una struttura estetica per la valutazione di storie)</span><span style="font-size:100%;">11, ma perché riproduce violenza e conflitto e non rende possibile nuovi modi di conoscere il mondo. Un’estetica della narrazione potrebbe fornire una teoria per valutare storie da ciò che essi creano quando stanno eseguendo, da ciò che tollerano in termini di alterazione, dal modo in cui stimolano l’incertezza, piuttosto che la preclusione. Per funzionare in questo modo, la narrazione deve essere eseguita ai limiti della testimonianza. Dunque, portare una testimonianza è il processo di spingere le narrazioni verso il margine in cui il significato è nato, in cui nuovi modi di conoscere sé e altro sono chiamati fuori. È nel contesto e nel processo della soggettività esecutrice che una nuova relazione tra sé/Altro può essere realizzata; ed è in questo contesto che la narrazione ha la possibilità di emancipare, destabilizzare le “tecnologie del sé”</span><span style="font-size:100%;">12 nel contesto della pratica del testimoniare in cui le narrazioni sono aperte a nuovi significati che, alternativamente, rendono possibili nuove relazioni.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><b>Verso un’Etica estetica per l’Elaborazione delle Narrazioni.</b><br />Noi siamo le storie che raccontiamo. La natura delle storie che raccontiamo è strutturata dal contesto, dalla nostra storia, dall’interazione con gli altri, così che il discorso funziona per disciplinare e regolare la natura di quello che possiamo essere, in ogni momento. La mediazione non costituisce un’eccezione. Avendo ripetuto la loro storia, le persone giungono alla sessione di mediazione raccontando una storia che li mette in una posizione legittima e fornisce la garanzia per le loro richieste/domande. Ed il mediatore “governa” la natura delle storie raccontate, permettendo ai partecipanti di precludere o escludere l’Altro attraverso la sua deligittimazione. I mediatori trattano le storie come se fossero a) strumenti per chiudere il divario tra il reale e l’immaginario, così che fanno domande pensate per aumentare l’abilità narrativa nel rappresentare la realtà; e/o b) resoconti sacri che rappresentano stati interiori, così che non possono essere alterati senza violare la santità della persona che racconta la storia. In entrambi i casi, i mediatori suppongono che la storia rappresenti, piuttosto che una costruire, la realtà</span><span style="font-size:100%;">13. La mediazione come pratica ha ereditato la sua teoria narrativa dai processi legali formali, in cui la testimonianza è una rappresentazione di storia e, quindi, l’accuratezza ne è il punto centrale. Tuttavia, separata dai suoi ormeggi legali, la mediazione ha a lungo supposto che il narratore ha il diritto di raccontare qualunque storia scelga – l’accento è sulla proprietà della storia. Ancorati al modo in cui una data storia rappresenta la realtà, i mediatori contribuiscono alla gravità di quella storia quando lavorano per proteggere la narrazione dal cambiamento, in particolare da qualunque mutamento che loro stessi potrebbero promuovere. Infatti, la stessa etica della mediazione ha come mandato l”imparzialità”</span><span style="font-size:100%;">14; dunque il campo dovrebbe differenziare tra domande che aumentano il modo in cui la storia rappresenta la realtà, attraverso domande che aumentano la sua capacità di mappare eventi storici. Tuttavia, la loro etica impedisce ai mediatori di partecipare al progetto della narrazione, alla formazione del suo contenuto,, della sua moralità, o di alterare la soggettività del narratore. Comunque, come Foucault e altri hanno notato, ogni narrazione e ogni genere narrativo, funzionano per limitare la natura della soggettività che può essere attivata – le nostre storie ci catturano. L’emancipazione richiederebbe alterazioni nel modo in cui la storia è raccontata, così come nel contenuto della storia stessa. In più i mediatori non sono preparati a fare domande che destabilizzino e riformulino la natura della storia narrata. Come risultato, una volta di più, i mediatori riversano il concreto sui sentieri simbolici che le persone percorrono, precisamente perché non mettono alla prova e destabilizzano le narrazioni.<br />Effettivamente contribuiscono ad ancorare e ri-ancorare la relazione sé/altro che attiva e perpetua il conflitto. Malgrado questa forzata disattenzione alla narrazione, i mediatori riescono con regolarità ad alterare la narrazione sotto il livello del loro proprio radar riguardo la loro partecipazione. Le parti riportano</span><span style="font-size:100%;">15 alterazioni nelle loro relazioni con il sé, riportano un senso di essere rispettati dall’Altro, riportano sollievo per aver risolto il problema. Tutti questi cambiamenti richiedono uno spostamento nella natura della storia che viene raccontata, ma la ricerca sulla valutazione nella mediazione deve ancora tracciare questi cambiamenti con regolarità</span><span style="font-size:100%;">16. E senza tracciare queste alterazioni, i mediatori rimangono (comodamente) ciechi alla differenza che fanno, al proprio impatto sulla storia; dunque rimangono incapaci di tenere in conto la loro partecipazione.<br />Se dovessero cominciare a tracciare la loro partecipazione nei termini del modo in cui contribuiscono ad aprire nuove narrazioni, non sarebbero capaci di valutare la propria partecipazione eticamente, in quanto il campo della mediazione non ha linee guida etiche per l’evoluzione o la trasformazione delle narrazioni. E perciò i mediatori sono vincolati dai limiti del loro codice etico dal testimoniare la narrazione in un modo che trasforma il significato e le relazioni. Ma i limiti del codice etico sono solo un problema minore – il problema più grande è che non esiste una teoria normativa nella narrazione che possa essere usata come base per la pratica etica. Come abbiamo discusso precedentemente, questo è legato alternativamente al modo in cui la testimonianza è compresa come rappresentazione di un fatto storico, piuttosto che come atto di portare una testimonianza di ciò che non è visibile o riconoscibile da altri proprio perché riporta una conoscenza unica e personalmente specifica che per definizione non è una conoscenza generale.<br />Qual’è l’etica del testimoniare. Come possono i mediatori partecipare alla creazione di quest’unica conoscenza personale in una maniera che apra le parti a nuovi modi di essere, a nuove e trasformate relazioni. Qual’è una struttura normativa che potremmo usare per dare senso al nostro ruolo di partecipanti nell’evoluzione della narrazione? In che modo potremmo sapere se le narrazioni stiano evolvendo nella giusta direzione? In che modo sapere se la traiettoria del cambiamento sia etica?</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><b>“Trasfigurazione” come preclusione destabilizzante o come la soggettività è cambiata attraverso la riduzione dell’appoggio della narrazione sul rifiuto/squalificazione dell’Altro</b><br />Noi sappiamo dalla ricerca sulla narrazione che l’intervento nella narrazione altera la sua traiettoria e i modelli di interazione associati</span><span style="font-size:100%;">17. Tuttavia nessuna di queste ricerche elenca una cornice etica che i professionisti possano usare per guidare la loro pratica nella trasformazione della narrazione, se non un ampio e generale impegno all’emancipazione (nel caso di White e Epston, 1990, fuggire il potere disciplinante del discorso dominante, e nel caso di Mattingly, 1998, fuggire le storie di incompetenza verso storie di competenza e azione personale). Forse il nostro focus dovrebbe essere non il risultato ma il percorso (come gli epitaffi via email dei miei studenti spesso mi ricordano); questo porterebbe l’attenzione alla direzionalità dell’evoluzione della narrazione, piuttosto che alla sua trasformazione, che implica un cambiamento di second’ordine. Invece, mi piacerebbe avanzare la nozione che la cornice etica dovrebbe essere tale da tracciare /occuparsi della traiettoria dell’evoluzione, non del suo risultato. La pragmatica non è sufficiente; i criteri funzionalisti chiedono la domanda – non è il fatto che il cambiamento avvenga ma la qualità del cambiamento che conta. Inoltre noi abbiamo bisogno di un metodo per valutare la qualità delle storie in costruzione.<br />La valutazione della qualità delle narrazioni richiede l’estetica – una cornice per stimare alcune narrazioni al di sopra di altre. Kristeva (Strangers to Ourselves, 1991) ha notato che il sapere/crescita o l’evoluzione richiede un “lavorare attraverso” (un termine di Oliver, preso in prestito da Butler, Bodies that Matter) il modo in cui la nostra legittimità troppo spesso richiede l’esclusione/preclusione dell’Altro. E questo perpetua il conflitto e la violenza. Tuttavia, in questo desiderio, questa speranza, questa etica implicita, è presente una fiducia nella connessione tra comprensione e trasformazione, come se saper di più sulle nostre narrazioni (condizioni) possa effettivamente rendere possibili cambiamenti nella direzione etica. Questo non è necessariamente sempre il caso. Le persone possono trasfigurare la soggettività (propria ed altrui) senza lavorare attraverso, come venendo a comprendere, il passato. Tuttavia, vorrei argomentare che le alterazioni nella soggettività richiedono uno cambiamento nelle storie stesse, nonostante le persone capiscano o meno i processi funzionali legati alle loro storie. Perciò, di nuovo vorrei dire che una cornice normativa per la mediazione è equivalente a una teoria normativa per valutare la narrazione, non una teoria per valutare cambiamenti nell’atteggiamento o un’aumentata conoscenza.<br />Tuttavia, non c’è tregua nella letteratura sull’estetica del linguaggio/narrazione; all’interno del criticismo letterario, è stato scritto più sulla coerenza, completezza, o anche la presenza della consapevolezza di sé nella narrazione</span><span style="font-size:100%;">18. Ma tutti questi criteri sono statici, per il fatto che parlano alle caratteristiche strutturali/funzionali della narrazione senza connettere tali aspetti ad una teoria della pratica etica. In questo sta la difficoltà: la teoria etica o normativa non si rivolge ai criteri attraverso i quali potremmo valutare l’evoluzione della narrazione</span><span style="font-size:100%;">19, se non da una prospettiva pragmatica e funzionalista; dall’altra parte, il criticismo letterario non offre un’intuizione profonda della pratica etica quando potrebbe concernere l’evoluzione della narrazione.<br />Vivienne Jabri (1998), nel suo eccellente articolo, “Restyling the Subject of Responsability in International Relations”, offre un suggerimento: “...a ripensare l’emancipazione nei termini di un’etica estetica, in cui l’individuo ha la capacità di reinventare il proprio modo di essere, di mettere in atto…una forma di trasfigurazione in cui l’individuo vede sé stesso come un’opera d’arte” (p. 592). “Avere la capacità” richiede di essere posizionati nel discorso, nella narrazione lanciate dal sé e dall’Altro, in modo che l’evoluzione sia possibile. Questo “posizionamento”</span><span style="font-size:100%;">20 è, alternativamente, una funzione dl modo in cui le persone raccontano la storia di sé in relazione agli altri, così che gli aspetti concreti delle storie raccontate su di sé e gli altri costituiscono il sé e l’altro. Il modo in cui questo è realizzato con più frequenza, ricostruisce le storie in cui chi racconta basa la propria soggettività sull’esclusione dell’Altro. Per far accadere questa trasfigurazione, la storia di conflitto deve evolvere nella direzione di NON escludere l’Altro. Ecco le implicazioni per la forma narrativa di questa etica estetica</span><span style="font-size:100%;">21:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><b>A</b> I ruoli dovrebbero non solo elencare le azioni dell’Altro, (il che produce una trama lineare) ma anche costruire le azioni dell’Altro come causate delle azioni del sé, costituendo una logica circolare che comincia a muovere nella direzione di una (mutua) responsabilità interiorizzata;</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>B</b> Le narrazioni che sono cronologicamente semplici dovrebbero muovere nella direzione della complessità temporale, in modo che passato, presente e futuro siano non solo connessi, ma riempiti attraverso la somma di eventi.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>C</b> Poiché chi racconta spesso narra una storia che ruota intorno alla relazione sé/Altro, un’estetica dell’etica dovrebbe implicare che i narratori includano personaggi aggiuntivi nel dramma, riducendo la polarizzazione tra narratore/Altro; più personaggi riducono la possibilità che la causalità possa essere stabilita (che la colpa possa essere data).</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>D</b> Poiché chi racconta attribuisce intenzioni positive alle proprie azioni e intenzioni negative all’Altro, questa pratica estetica dovrebbe muovere nella direzione di una connotazione positiva delle azioni dell’Altro(i).</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Riassumendo, quella sopra è una lista di linee guida, basate sulla teoria narrativa, che dovrebbero permettere ai narratori di ricostruire la loro soggettività in nuovi modi, e, nel processo, scoprire sé stessi “come opere d’arte” non perché sono implicitamente belli, ma perché l’evoluzione narrativa, nella direzione dei cambiamenti descritti sopra, permette loro di ri-assegnarsi sul palcoscenico della loro vita, di reclamare lo spaio che era occupato dall’Altro escluso. La caratteristica principale di questa pratica di etica estetica è la destabilizzazione; i mediatori o terze parti non hanno bisogno di fornire una nuova soggettività alle persone – possono farlo da sole, ma devono essere aiutate a destabilizzare la struttura narrativa (trama, personaggi, struttura morale) che contribuisce a mantenere la loro esclusione dell’Altro.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><b>La natura dell’indagine nell’etica estetica.</b><br />Se, come ho suggerito, l’etica estetica della mediazione (o per meglio dire di tutte le pratiche narrative?) è una funzione delle traiettorie narrative, direzioni di cambiamento, movimento verso la trasfigurazione, il processo che lancia queste traiettorie è cruciale per questa etica. La prima fase di questo lancio sarebbe necessariamente di destabilizzare la narrazione esistente, e anzi, Jabri (1998) scrive:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i>“La pratica estetica rende possibile una creatività che interrompe le identità date e i codici prescritti (p. 607).. non esiste spazio in questa forma di eticità per una soggettività indiscussa o un singolo modo di essere e fare. Perché questa sarebbe una pratica di certezza e, quindi, di soppressione ed esclusione (p. 609)”.</i></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">C’è, nel modello di Jabri, una connessione tra incertezza ed etica. Mentre l’incertezza totale è patologica, la pratica routinaria della destabilizzazione attraverso nuove linee di indagine sfida il potere di una data narrazione di tenere catturato chi la racconta. Perciò, quando i mediatori fanno domande destabilizzanti una dietro l’altra con domande che affermano il sé, il risultato è, per la mia esperienza, non solo la nuova traiettoria (movimento) nella narrazione, ma il movimento che comincia ad affermare il sé e l’Altro allo stesso tempo</span><span style="font-size:100%;">22.<br />L’Indagine Elogiativa</span><span style="font-size:100%;">23 è un metodo per porre una serie di domande che a) pone intenzioni positive per il narratore e l’altro; b) complica le trame accentuando le dimensioni positive di un’esperienza negativa; c) confronta e oppone quadri/instanze dal passato, presente e futuro, che forniscono gli esempi da seguire in tempi difficili; d) permette la riflessione su temi morali circa ciò cui ancorare la vita/pratica.<br />L’indagine elogiativa costruisce il contesto per le azioni di personaggi entra un dramma, e mentre le azioni possono essere inquadrate come cattive/problematiche, è difficile mantenere una traiettoria narrativa che sia squalificante dell’Altro. E allo stesso tempo, solo l’atto di far il tipo di domande che non automaticamente riproducono il conflitto esistente crea instabilità e incertezza – condizioni che fanno maturare la possibilità della trasfigurazione.<br />Un altro tipo di domanda che rovescia la narrazione verso l’instabilità e complessità è chiamato “domanda circolare”</span><span style="font-size:100%;">24. Queste domande chiedono al narratore di creare un confronto che produca nuove dimensioni di differenza, così che, piuttosto che ridurre le differenze, queste le aumentano. Queste domande possono richiedere/costruire un confronto nel tempo (Tempo 1 e Tempo 2) (si può pensare a un tempo quando questo problema sia non così visibile e quanto è diverso quel tempo da ora?) o possono creare un confronto tra tratti (chi nel tuo gruppo è il più triste, a tuo parere?), o, anche a un livello più complicato, richiedono il confronto chiedendo alle persone di parlare dalla prospettive dell’Altro (se io chiedessi ai tuoi colleghi di lavoro chi nel vostro gruppo è il più triste, che cosa mi direbbero?). queste domande funzionano in maniera differente perché producono informazioni relazionali che possono essere usate dai narratori non fare e rifare le loro storie del sé e dell’Altro.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><b>Conclusione</b><br />Tornando al lamento/avvertenza di Fiss circa la risoluzione, a mio parere l’etica estetica e l’attenzione alla trasformazione nella mediazione cominciano a indirizzare una delle sue più importanti critiche, che si riferisce al modo in cui la mediazione riduce il potere di legge e stato di “portare una recalcitrante realtà più vicina ai nostri ideali” (p. 1089). Egli è interessato, io penso, all’assenza di una struttura normativa per la valutazione/giudizio che porterebbe al cambiamento sociale. ancora, all’interno di un’etica estetica, lo stato non è il luogo per l’azione portata contro la giustizia; invece, le relazioni tra individui sono i contenitori per la trasfigurazione del sé, Altro e del più ampio ordine sociale.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i>C’è un riconoscimento…che le lotte legate allo stile di vita, le decisioni fatte da individui nelle loro pratiche quotidiane, alimentano la graduale trasformazione del discorso e le continuità istituzionali che supportano l’individuo (Jabri, p. 597)</i></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">L’autrice va avanti per notare che la “reinvenzione del mondo di vita (è)…resa possibile attraverso una forma di “ingenuità poetica” (Jabri, p. 601). Questa “ingenuità” è presente nella mediazione al grado che le parti possono reinventare i propri mondi di vita; e perché le storie di conflitto hanno un’attrazione gravitazionale che tiene il narratore nella loro stretta, senza questa “ingenuità” (buone domande che mettono in atto un’etica estetica), le parti sono in realtà incapaci di rifare i propri mondi, indipendenti dal fatto che possano effettivamente raggiungere un accordo o meno. I conflitti dovrebbero essere indirizzati in modi che ci muovono verso (se non gli ideali), l’evoluzione delle nostre storie sul sé e sull’Altro. Come Fiss, vorrei argomentare che molta parte della mediazione o non lo fa (anche quando l’intento è la trasformazione della relazione), o non lo farà, a causa di qualche primordiale impegno all’imparzialità o neutralità. Come Fiss, vorrei sperare che le nostre pratiche di soluzione del conflitto, che siano in un tribunale o meno, materializzino un’etica al centro della nostra pratica che sia allo stesso tempo riconoscibile e desiderabile.</span></p><span style="font-size:100%;"><span style="font-family:arial;"> </span><br /></span><p style="font-weight: bold;font-family:arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p><ul style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Birke, Richard. 2000. “Evaluation<br /> and facilitation: moving past either/or”, in Journal of Dispute Resolution<br /> 2000 (2): 309-19.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Bush, Robert e Folger, Joseph.<br /> The promise of mediation: respondign to conflict trough empowerment and<br /> recognition. (San Francisco: Jossey-Bass, 1994).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Chatman, Seymour. Story and discourse:<br /> narrative structure in fiction and film. (Ithaca: Cornell University Press,<br /> 1978).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Cobb, Sara. 1997. “The public<br /> spectacle of private pain: the social construction of violence and community”,<br /> in Human Systems: The Journal of Systemic Consultation and Management 8<br /> (3-4), 251-275.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Cobb, sara, 1997, “The domestication<br /> of violence in mediation”, in Law & Society Review 31 (3): 397-440.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Cobb, sara e Rifkin, Janet. 1991. “Practice<br /> and paradox: deconstructing neutrality in mediation”, in Law & Society<br /> Inquiry 16: 35-62.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Cooperrider, David e Dutton,<br /> Jane, editors. Organizational dimensions of global change: no limits to<br /> cooperation. (Thousand Oaks, Calif.: Sage Publications, 1999).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Cooperrider David; Barrett, Frank.<br /> 1990. “Generative metaphor intervention: a new approach for working<br /> xith systems divided by conflict and caught in defensive perception”,<br /> in Journal of Applied Behavioral Science 26 (2): 219-240.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Emery, Robert; Matthews, Sheila;<br /> Kirzmann, Katherine, 1994. “Child custory mediation and litigation:<br /> Parents’ satisfaction and fuctioning one year after settlement” in<br /> Journal of Consulting and Clinical Psychology 34(1), 124.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Felman, Shoshana, e Laub, Dori.<br /> Testimony: crises of witnessing in literature, psychoanalysis, and history.<br /> (Nex York: Routledge, 1992).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Fiss, Owen, 1984. “Against<br /> Settlement”, in Yale Law Journal, 93: 1073-1090.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Foucault, Michel. The History<br /> of sexuality. Tradotto da Robert Hurley. (New York: Vintege Books, 1998).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Genette, Gerard. The aesthetic<br /> relation. Tradotto da G. M. Goshgarian. (Ithaca: Cornell University Press,<br /> 1999).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Girard Rene. Voilence and the<br /> sacred. Tradotto da Patrick Gregory (Baltimore: John Hopkins University<br /> Press, 1977).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Habermas, Jurgen. The theory<br /> of communicative action: lifeworld and system: a critique of fuctionalist<br /> reason. Tradotto da Thoma McCarthy (Boston: Beacon Press, 1984).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Harre, Rom e van Lagenhove, Luk.<br /> Positioning theory: moral context of intentional action. 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Trasgressing discourses: communication and the voice of the other.<br /> (Albany: State University of New York Press, 1997).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Jabri, Vivienne. 1998. “Restyling<br /> the subject of responsability in international relations”, in Millennium:<br /> Journal of International Studies, 27 (3): 591-611.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Jones, Tricia S. 1999. “Agreement,<br /> maintenance, satisfaction and relitigation in mediated and non-mediated<br /> custody cases: a research note”, in Journal of Divorce & remarriage<br /> 32 (1/2), 17.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Kristeva, Julia. Desire in language:<br /> a semiotic approach to literature and art. tradotto da Thomas Gora, Alice<br /> Jardine e Leon Roudiez. (New York: Columbia University Press, 1977).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Kristeva, Julia. Stangers to<br /> ourselves. Tradotto da Leon S. Roudiez. (New York: Columbia university<br /> Press, 1991).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Langer, Lawrence Holocaust Testimonies:<br /> the riuns of memory. (New Haven: Yale University Press, 1991).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Lin, Xiaohua, 1998. “Sustainig<br /> satisfactory joint venture relationships: yhe role of conflict resolution<br /> strategy”, in Journal of International Business Studies 29 (1): 179-197.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Mattingly, Cheryl. Healing Dramas<br /> and Clinical Plots: the narrative structure of experience. (New York: Cambridge<br /> University Press, 1998).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Moore, Christopher W. The mediation<br /> process: practical strategies for resolving conflict. (San Francisco: Jossey-Bass,<br /> 1996).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Oliver, Kelly, 2000. “Beyond<br /> recognition: witnessing ethics”, in Philosofy Today 44 (1): 31-44.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Rifkin, Janet,; Cobb, Sara e<br /> Millen, Jonathan, 1991. “Toward a new discourse for mediation: a critique<br /> of neutrality”, in Medistion Quarterly 9 (2): 151-164.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Scarry, Elaine. The body in pain.<br /> The making and unmaking of the world. (New York: Oxford University Press,<br /> 1985).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Singer, Linda R. Settling disputes:<br /> conflict resolution in business, families and the legal system. (Boulder,<br /> Colorado: Westview Press, 1990).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;"> Sluzki, Carlos, 1992. “Transfomations:<br /> a blueprint for narrative change in therapy”, in Family Process 31<br /> (3): 55-71.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Srivastva, Suresh e Cooperrider,<br /> David. Appreciative management and leadership: the power of positive though<br /> and action in organizations. (San Francisco: Jossey-Bass, 1990).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Stone, Douglas; Patton, Bruce;<br /> Heen, Sheila. Difficult conversations: how to discuss what matter most.<br /> (New York: Viking, 1999).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Sullivan, Bryce, 1997. “Parties’ evaluations<br /> of theri relationships with their mediators and accomplishments in a court-connetted<br /> mediation program”, in Family and Conciliation Courts Review, 35 (4):<br /> 405-418.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Susskind, Lawrence; McKearna,<br /> Sarah; e Thoma-Larmer, Jennifer. The consensus-biulding handbook. (Thousand<br /> Oaks, calif.: Sage Publications, 1999).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Taylor Charles, 1971. “interpretation<br /> and the science of man”, in Review of Metaphysics 25: 3-34, 45-51.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Thoennes, Nancy, 1997. “An<br /> evaluation of child protection mediation in five California courts”,<br /> in Family and Conciliation Courts Review 35 (2): 184-95.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Tomm, K. 1987. “Interventive<br /> interviewing: part 11. Reflexive questions as a mean to enavle self-healing”,<br /> in Family Process 26: 167-183.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">White, Michael e Epston David.<br /> Narrative means to therapeutic ends. (New York: Norton, 1990) </span></li></ul><span style="font-size:100%;"></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"> </span></p><span style="font-size:100%;"></span><p style="font-weight: bold;font-family:arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Note</span></p><span style="font-size:100%;"></span><ol style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Vievienne Jabri, “Restyling<br /> the Subject of Responsability in International Relations”, in Millennium:<br /> Journal of International Studies, 27, No. 3: p. 592.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Owen Fiss (1984) “Against<br /> Settlement” in Yale Law Journal, 93: pp. 1073-1090.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Habermas (1984)<br /> The Theory of Communicative Action per una discussione degli approcci tecnici<br /> alla comunicazione.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Si tratta di un ampio<br /> corpo di letteratura sulla mediazione che argomenta che l’etica della<br /> mediazione sta nella sua capacità di produrre un terreno di incontro<br /> in cui le persone raccontano la loro storia, con le loro parole, e ideano<br /> una loro soluzione. Così esso ha, come base, un’etica di “partecipazione” che<br /> celebra l’abilità degli individui di identificare i propri<br /> interessi e autorizzare la propria versione della realtà come loro<br /> modalità di soluzione del problema. Così il “problem-solving” e<br /> la “partecipazione” sono le norme critiche, ma così è,<br /> ad un livello più ampio, l’impresa della soluzione stessa del<br /> conflitto – consensuale, risultati negoziati sono “migliori” del<br /> conflitto in cui “qualcuno deve affrontare il tradimento dei nostri<br /> valori più profondi e “essere preparato a mettere sottosopra<br /> il mondo per realizzare tali idee” (Fiss, 1984, p. 1087). Vedi per<br /> esempio, Moore (1986) The Mediation Process, Susskind (1999) The Consensus-Building<br /> Handbook o Singer (1990) Settlings Disputes, tutti fanno avanzare le norme<br /> della comunanza, della connessione, e del consenso attraverso il problem<br /> solving.<br /><br />Ci sono etiche simili che accentuano non i risultati, né i processi,<br />ma la fenomenologia del processo. Vedi la discussione di Riskin (“The<br />Contemplative Lawyer: On the Potential Contributions of Mindfulness Mediation<br />to Law Students, Lawyers, and their Clients”, in Harvard negotiation<br />Law Review, di prossima pubblicazione, Maggio 2002) sulla relazione tra meditazione<br />e mediazione. Di nuovo, la struttura normativa è quella di essere<br />tale che gli edifici della partecipazione e del consenso possano essere portati<br />avanti. In aggiunta, dal reclamo che vorrei fare che il “consenso” è un<br />concetto molto problematico, così come la nozione di “partecipazione”,<br />questa struttura normativa rimane largamente non specificata al livello della<br />pratica nel processo di mediazione, come quasi niente è specificato<br />al livello della pragmatica comunicativa. Vedi Stone et al. (Difficult Conversations,<br />1999) per un esempio di lavoro recente che cerca di fornire una struttura<br />per la pragmatica comunicativa. Essi fanno così, ad ogni modo, entro<br />la struttura di un paradigma funzionalista, a quindi fanno pochi progressi<br />nel fornire le basi normative per il racconto di storie e la pratica conversazionale.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Negli anni ha avuto<br /> il piacere di partecipare a gruppi, commissioni e incontri, con entrambi<br /> i professori Bush e Folger. Questi due uomini sono entrambi etici nelle<br /> loro interazioni con gli altri, a mio parere hanno un’intuizione altamente<br /> sviluppata di come trattare gli altri con rispetto e riconoscimento. Il<br /> fatto che io stia invitando allo sviluppo di una teoria normativa che ancori<br /> l’approccio trasformativo non è da intenderso come un modo<br /> per criticare indirettamente la loro abilità a relazionarsi agli<br /> altri in un modo trasformativo. Al contrario, potrei anche suggerire che<br /> la loro abilità inerente all’essere con gli altri in modo rispettoso<br /> possa avere “reso naturale” la loro visione del “rispetto” e<br /> del “riconoscimento”, oscurando la complessità delle pratiche<br /> associate. Io, che sono meno gentile, meno carina, e soprattutto forse<br /> meno rispettosa di loro, sono in una posizione migliore da cui ponderare<br /> queste complessità, poiché non sono “naturali” per<br /> me!<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Judith Butler,<br /> Bodies That Matter (1991); Gender Trouble (1991); Excitable Speech (1997);<br /> e “Sovereign Performatives in the Contemporary Scene of Utterance”,<br /> in Critical Inquiry, 23 (Inverno 1997, 1): 350-77.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">A mio avviso, gli sforzi<br /> di Riskin (2002) di incorporare la meditazione entro la pratica della mediazione<br /> fornisce un buon esempio del progetto di Oliver di creare una pratica etica<br /> attraverso la vigilanza. La meditazione aumenta la nostra capacità di<br /> monitorare il sé, nel momento, accrescendo la nostra abilità tracciare<br /> il modo in cui rispondiamo/reagiamo agli altri, così come la categoria<br /> dell’Altro. Similmente, in una pratica trasformativa della mediazione, è presente<br /> un tipo di semplice credenza che l’attenzione nell’ascoltare,<br /> sforzandosi di rispettare l’Altro, porterà all’evoluzione<br /> della relazione. Allo stesso tempo, la gente trasformativa, così come<br /> Rskin, tirano a riva loro stessi sulle secche delle teorie psicologiche<br /> che hanno al loro centro, la regolazione del sé come antidoto ai<br /> problemi relazionali che portano al conflitto e alla violenza. Invece io<br /> propongo in questo scritto che l’etica della pratica trasformativa<br /> ha bisogno di essere localizzata nel discorso, nella conversazione, nel<br /> campo in cui la soggettività stessa emerge.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi specialmente Judith<br /> Hermann, Trauma and Recovery (1997) e la ricerca sulla soddisfazione dopo<br /> la mediazione (Chau-Kiu Cheung, 1998; Xiaohua Lin, 1998; Bryce F. Sullivan,<br /> 1997; Emery, Matthews e Kitzmann, 1994; Jones, 1999), che si riferisce<br /> all’avere un’opportunità di raccontare la storia, di essere<br /> ascoltati. In questa ricerca possiamo vedere la presenza abbozzata della<br /> nostra attenzione al “riconscimento” – noi presumiamo che<br /> le persone giungano ad avere i loro problemi, la loro visione del mondo,<br /> riconosciuti. La formulazione delle interviste sulla soddisfazione fatta<br /> come un modo per valutare il processo di mediazione riconferma l’assunzione<br /> del campo, e non è accidentale che gli intervistati rispecchino<br /> l’attenzione al riconoscimento portata dai ricercatori. Dunque la<br /> ricerca non conferma nient’altro che la presenza di un concetto popolare<br /> (“riconoscimento”) usato nella mediazione allo stesso modo da<br /> ricercatori e partecipanti. Questo concetto nasconde sia la complessità dei<br /> processi conversazionali implicati, e pone entro le nostre pratiche di<br /> trasformazione del conflitto le basi di una nozione del sé che deve<br /> escludere l’altro, per diventare sé.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Cobb (1997) per<br /> la discussione della trasformazione domestica della violenza, non solo<br /> di quella che infligge dolore fisico, ma anche di quella che esclude ed<br /> elude la descrizione. Questa è coerente con la visione di Kristeva<br /> (Desire in Language, 1980) del processo di linguaggio e del ruolo che desidera<br /> giocare nello strutturare i limiti di ciò che siamo, e come possiamo<br /> andare d’accordo.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">La terribile realtà narrativa<br /> del cancro è che l’agente del dolore (le cellule del paziente) è anche<br /> la vittima. Il tradimento del corpo da parte dl corpo richiede alla persone<br /> di distanziarsi dal loro cancro. Vedi Susan Sontag, Illnes as Metaphor<br /> (1978).<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Gerard (1999) e Chatman<br /> (1978) argomentano che la coerenza narrativa fornisce una base per valutare<br /> il valore estetico.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Foucault (History of<br /> Sexuality, 1978) discute il modo in cui il discorso si impone come regola<br /> quando costringe la natura della soggettività che può sorgere<br /> entro un dato contesto sociale. vedi Cobb (in Huspeck e Radford, 1997)<br /> per l’elaborazione di questo concetto entro il contesto della testimonianza<br /> nell’aula di tribunale nella fase penale di un processo capiltale.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Basandomi sulle mie<br /> ricerche, condotte con Janet Rifkin nel 1990, (vedi Cobb e Rifkin, 1991), è dolorosamente<br /> chiaro che il mediatore contribuisce alla costruzione sociale delle storie<br /> di conflitto, sia che intenda farlo o meno. Questo emerge chiaramente attraverso<br /> le domend che vengono poste e quelle che non vengono fatte.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi gli standard etici<br /> per i mediatori a: <a href="http://www.acresolution.org%0d/">http://www.acresolution.org<br /><br /> </a> </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">vedi la ricerca sulla<br /> valutazione in mediaione – Pearson e Thoennes (1989) o, più rcentemente,<br /> Birke (2000) e Thoennes (1997).<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Cobb (“Domestication”,<br /> 1997) per una descrizione dell’evoluzione e ricostruzione delle narrazioni<br /> della violenza nella mediazione. In altri campi, come nella terapia familiare,<br /> i ricercatori valutano l’evoluzione della narrazione a livello specifico.<br /> Vedi anche l’eccellente lavoro di Mattingly (1998) sull’evoluzione<br /> delle narrazioni dei pazienti in un centro di riabilitazione; l’autrice<br /> descrive il ruolo delle infermiere nell’alterazione di queste storie.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Labov e Fanshell<br /> (Therapeutic Discourse), Mattingly (Healing Dramas and Clinical Plots),<br /> White e Epston (Narrative Means to Therapeutic Ends), Cobb (“Liminal<br /> spaces in narrative processes”), Sluzki (“Trasformation”).<br /> Questa linea di ricerca, che si estende attraverso la pratica che implica<br /> conversazioni generative o conversazione che sono (potenzialmente) trasformative,<br /> manca di un’etica per la pratica della trasformazione narrativa oltre<br /> il mandato pragmatico di produrre un cambiamento. White è andato<br /> più in là degli altri nella sua analisi, poiché argomenta<br /> che l’evoluzione narrativa è necessaria per una sorta cambiamento<br /> pragmatico che porti all’emancipazione. Mattingly fa lo stesso – l’autrice<br /> mostra come lo staff interagisce con i pazienti in un centro di riabilitazione<br /> in modi che rendono i pazienti capaci di vedere sé stessi come agenti<br /> delle proprie vite, piuttosto che come persone “handicappate”.<br /> Le trasformazioni che presenta sono molto mobili, e una testimonianza del<br /> potere della narrazione nel cambiamento del modo in cui noi strutturiamo<br /> noi stessi in relazione all’Altro. Tuttavia, come esempio di questo<br /> lavoro, ne White/Epston ne Mattingly forniscono un’etica che permetterebbe<br /> ai professionisti non solo di generare un cambiamento, ma anche di farlo<br /> entro una qualche cornice normativa che possa funzionare come linea guida<br /> per la pratica morale. E poiché nessuno di questi teorici è nel<br /> campo della mediazione, anche se esistono alcune linee-guida per la trasformazione<br /> etica delle narrazioni, non sono sicura che sarebbe applicabile alla mediazione.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Per un trattamento più postmoderno,<br /> vedi Mikhail Bahktin, From Discourse in the Novel, in cui si concentra<br /> sulla narrazione, così come sulla condizione dialogica della soggettività,<br /> ma non sviluppa un’etica per la pratica. Da questa prospettiva, vorrei<br /> argomentare che la teoria normativa di Bahktin è largamente descrittiva<br /> in natura, e non prescrittiva. Ho provato ad usare il suo lavoro come prescrizione<br /> pratica; vedi Cobb (on Private pain and public spectacle) ma la sua teoria<br /> non considera l’evoluzione; questa critica viene rispecchiata nelle<br /> critica di “habitus” che anche costituisce una descrizione statica<br /> più che dinamica del processo sociale.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Habermas (Thory of Communicative<br /> Action) offre una cornice per la valutazione del discorso rispetto alla<br /> sua incapacità di emancipare. Tuttavia, la sua struttura non si<br /> concentra sulla narrzione, e infatti, riproduce la credenza nell’”ideale” (situazione<br /> discorsiva) e nel processo ci fa tornare, in un’inversione a u, indietro<br /> fino a una specie di lacuna analitica del ruolo del linguaggio. “si<br /> avvicina all’ideale” è una domanda simile a “in che<br /> modo di avvicina (rappresenta) il reale”. A mio avviso, Habermas offre<br /> un importante contributo all’analisi del discorso, ma fa poco per<br /> rendere possibile una valutazione critica delle traiettorie narrative.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi il lavoro sulla<br /> teoria della posizione che è stato fatto da Harre e LagenHove (1999).<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Qui mi sto basando profondamente<br /> sul lavoro non pubblicato di Carlos Sluzki, “The better-formed Story”.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Questa è una<br /> visione molto differente da quelle che implicano che noi possiamo conoscere<br /> l’Altro attraverso la vigilanza, attraverso l’ascolto attento. È una<br /> visione radicale che conoscere l’Altro sia realmente la pratica di<br /> destabilizzare le nostre proprie storie sull’Altro, mentre affermiamo<br /> sé e Altro.<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi la crescente letteratura<br /> sull’indagine elogiativa, incluso Cooperrider et al. (1990) e Cooperrider<br /> e Dutton (1999).<br /><br /></span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Vedi Cobb, Rifkin e<br /> Millen (Mediation Quarterly, 1991). Vedi anche Tomm (Family Process, 1987). </span></li></ol><br /><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"> </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"> </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-57756549219286700332007-04-06T21:39:00.000+01:002008-12-09T00:02:38.680+01:00CONFLITTI ORGANIZZATIVI COME SI STRUTTURANO E COME SI POSSONO MEDIARE<a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgeF8yPr5lsQn0EAJgs7WlfMNY4JArNfB42zKvaXvflB0-r7-zMvcoo7_C3KNKKTOm8BB-YtRASygjGA3cx1TuYK8bkjptsNzoSSrpawmNoLidljbsQwW_s_PAg6YI_RkiSNDDU0Rjg0i8/s1600-h/3.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgeF8yPr5lsQn0EAJgs7WlfMNY4JArNfB42zKvaXvflB0-r7-zMvcoo7_C3KNKKTOm8BB-YtRASygjGA3cx1TuYK8bkjptsNzoSSrpawmNoLidljbsQwW_s_PAg6YI_RkiSNDDU0Rjg0i8/s320/3.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050417966477666754" border="0" /></a><span style="font-weight: bold; font-family: arial;">Paola Stradoni</span><br /><p style="font-family: arial;" align="justify">Socio Fondatore A.I.M.S. - Paola Stradoni teropoiesi, Torino<a href="mailto:eteropoiesi@eteropoiesi.it"> eteropoiesi@eteropoiesi.it</a></p><br /><p style="font-family: arial;" align="justify"> Si possono trovare, senza grosse difficoltà teoriche, numerose analogie di processo fra i conflitti familiari e i conflitti istituzionali.<br />Bisogna riconoscere, tuttavia, che le loro dimensioni, circostanze, implicazioni multifattoriali e il contesto culturale, sono diversi. Anche il modello di descrizione del conflitto è diverso. Questo elemento viene considerato così significativo che, secondo Morgan (1993) le organizzazioni si possono definire in base al modo di considerare i conflitti e alle caratteristiche di gestione degli stessi.<br />Nelle organizzazioni ad impostazione paternalistico-patronale il conflitto è personalizzato e letto come manifestazione di un disagio o disfunzione per lo più di un individuo che deve essere isolato. Se l’organizzazione viene pensata come un insieme integrato in cui gli interessi dei singoli coincidono con gli interessi dell’organizzazione, ha una sua coerenza che il conflitto assuma una valenza disfunzionale e pertanto venga negato o coperto. Per contro, in una organizzazione vissuta come libera interazione di gruppi che hanno interessi diversi e tutti partecipano al governo degli obiettivi e delle risorse, il conflitto assume una valenza funzionale. E’ momento di crescita, serve a curare le tendenze passive e l’indolenza degli attori organizzativi, stimola l’abitudine a valutare le proprie performaces, spinge i contendenti a trovare risposte per la soluzione dei conflitti. Tuttavia il conflitto ha i suoi costi anche in una organizzazione pluralistica e flessibile e deve essere opportunamente pilotato, mediato per favorire l’apprendimento e l’innovazione organizzativa.<br />E’ fondamentale la visione del manager nel leggere la situazione in termini evolutivi e la sua capacità di avvalersi di modelli e tecniche di mediazione.<br />Alcune procedure di mediazione, nelle organizzazioni complesse, richiamano procedure utilizzate nei sistemi familiari tuttavia le modalità e il setting sono totalmente diversi.<br />Il mediatore, almeno nelle nostre organizzazioni sanitarie, non è esterno al sistema, non è mai nella posizione di “terzo”, al massimo è parte di un altro sottosistema. Non è invalsa la cultura di governare problemi di questo tipo ricorrendo ad aiuti esterni al sistema. La funzione viene implicitamente attivata dai sottosistemi in conflitto che interpellano i livelli superiori. Spesso la richiesta non è quella di ottenere una mediazione, ma un giudizio o un’alleanza che ponga una delle due parti in vantaggio. Tacitamente la funzione di mediazione è attribuita al dirigente.<br />Il percorso di mediazione, di consuetudine, non avviene in un momento o spazio definito, ma si svolge contemporaneamente ad altre attività: costruzione dell’obiettivo, verifica dei risultati, valutazione del personale.<br />La stessa definizione di conflitto, in alcuni contesti, è temuta, in quanto evoca esperienze difficili da governare o che tendono a radicalizzarsi. Un esempio sono i conflitti sindacali, dove, spesso, il massimo dei successi è il compromesso che ha la funzione di congelare temporaneamente il conflitto.<br /><br /><b>Costanti di conflitto in una organizzazione sanitaria</b><br />Il sistema sanitario in Italia è all’incrocio di una serie di influenze storico-culturali che fanno sentire, ancora oggi, tutta la loro pregnanza.<br />Il sistema sanitario emerge da una cultura confessionale nella quale è considerato dovere morale occuparsi degli infermi.<br />L’ideologia della carità ha implicita la gratuità, l’universalità e l’apologia dell’impegno personale: fare l’operatore sanitario è una missione, una vocazione più che una professione.<br />Il rapporto con il paziente è un rapporto personale di confidenzialità, carismatico che rasenta l’ineffabile.<br />Il criterio del rapporto costi/ benefici non è considerato appropriato, non è quindi possibile affrontare i problemi assistenziali con l’attenzione alle strutture e all’aspetto economico-politico.<br />Alla cultura confessionale si sovrappone e si intreccia la cultura medica con il suo paradigma normalità- patologia.<br />Rispetto al modello della redenzione qui c’è la scienza e la tecnologia che salveranno l’uomo e.. lo renderanno immortale.<br />La malattia è un male che deve essere combattuto e diventa oggetto di transazione fra il curante e il paziente: è la malattia che viene curata non il malato. La terapia cambia significato da “prendersi cura” a curare, la prestazione non viene assunta in termini di efficacia ma in termini di appartenenza ad una professione e ad un livello gerarchico specifico della stessa. (Loubat, 1999)<br />La cultura burocratico-statalista introduce il controllo attraverso procedure (statistiche, relazioni ecc..) (Crozier, 1963)<br />E’ la regola il punto di riferimento non la relazione. La formalità diventa sostanza.<br />L’assunzione del personale avviene per concorso e la carriera si basa sull’anzianità, non sul fatto che sai fare una certa cosa. Si può spendere con discreta tranquillità perché, qualsiasi cosa spendi, papà (lo Stato) paga. Questo tipo di adolescenza istituzionale favorisce comportamenti poco coerenti con l’obiettivo istituzionale.<br />Quasi a bilanciare la cultura burocratica si afferma la cultura dell’autorealizzazione.<br />L’istituzione è percepita come strumento per l’autorealizzazione, quindi utile in quanto depredabile. Gli individui pensano e si comportano come predatori, utilizzano strumenti, risorse e spesso anche il lavoro dei colleghi, per i propri fini personali.<br />La cultura dell’Impresa,(Mintzberg M,1990) evento che ha fatto irruzione nel sistema sanitario in questi ultimi dieci anni, ha provocato un vero e proprio choc culturale con l’introduzione di:<br />• Rapporto costi/efficacia ed efficienza<br />• Concorrenzialità fra strutture della stessa Regione<br />• Procedere per obiettivi<br />• L’introduzione della valutazione del personale e il premio di produttività<br />• Decadenza degli incarichi.<br />A questi fattori o costanti di conflitto si mescolano e si perpetuano processi fondamentali, comuni in ogni organizzazione umana, che sono connessi al modo particolare che ogni attore ha di interpretare il suo ruolo nell’organizzazione: la volontà di potere o di ricchezza, il bisogno di ottenere riconoscimento dai colleghi e /o collaboratori, il bisogno di appartenere e contemporaneamente di distinguersi dai propri simili, la necessità di rendersi visibili e accedere alle risorse che, essendo ridotte, attivano comportamenti competitivi.</p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><b>Situazione attuale</b><br />La trasformazione delle Unità Sanitarie Locali e degli Ospedali in Aziende ha sollecitato cambiamenti sostanziali. Il Consiglio di Amministrazione, espressione di equilibri politici, è stato sostituito con la Direzione Generale, ponendo concretamente la responsabilità della pianificazione dell’Azienda nelle mani di uno solo: il Direttore Generale.<br />Sono stati attivati compiti nuovi in staff alla Direzione, ad esempio il Responsabile delle Comunicazione Esterne con il compito di rendere visibile sul territorio le attività e la qualità dell’Azienda e di conciliare con i clienti insoddisfatti. Sono stati ridefiniti posizioni funzionali in sostituzione dei ruoli, sono stati riconfigurati percorsi in funzione di obiettivi specifici, sono stati introdotti elementi e procedure di valutazione del personale a tutti i livelli.<br />L’elemento significativo è stata l’aggregazione di più realtà “affini” nei Dipartimenti, nuove strutture aziendali con il compito di integrare processi, risorse umane e strutturali.<br />Mettere in scena una nuova struttura organizzativa non vuol dire di per sé aprire al “nuovo” quanto piuttosto confrontarsi con la spinosa questione del cambiamento.<br />I cambiamenti, in particolare quelli sollecitati dall’esterno, sono fonte di conflitto in quanto attivano direttamente la capacità di adattamento di un’organizzazione, costringendo gli attori a modificare le loro strategie, abitudini di vita e modalità di comunicazione. La spinta al cambiamento produce una crisi che è tanto più profonda in rapporto alla struttura rigida o vischiosa dell’organizzazione stessa, in rapporto all’eccessiva specializzazione e alla standardizzazione dei comportamenti.</p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><b>Situazione Specifica</b><br />Il Dipartimento nel quale viene condotta l’esperienza di mediazione, che verrà presentata, di seguito, è il Dipartimento Materno Infantile dell’ASL3 di Torino.<br />Un dipartimento che ha il compito di integrare n°4 divisioni ospedaliere (Neuropsichiatria Infantile, Terapia Intensiva Neonatale, Pediatria, Ostetricia) con le realtà distrettuali quali: Consultori Familiari, Consultori Pediatrici, Pediatria di Base.<br />Un primo punto critico è stato quello di pensare ad un modello organizzativo che consentisse di gestire la complessità senza scatenare, da subito, conflitti parassitanti al vertice, di primari fra loro e direttori di distretto.<br />Due possibilità andavano configurandosi: rafforzare il vecchio modello piramidale, gerarchico con divisioni rigidamente definite concretizzando un modello “matrioska” o dare vita ad un nuovo modello piatto a “rete” che si sviluppa per piattaforme multidisciplinari che si costruiscono intorno ad un obiettivo con responsabilità e controllo del processo all’interno della piattaforma stessa. Questo ha il presupposto che i membri dell’organizzazione creino insieme il disegno organizzativo, inserendosi ed evolvendo con esso, piuttosto che usare l’organizzazione per i propri scopi. L’informazione diventa facile da acquisire ed efficace, la formazione non è più solo tecnica e monoprofessionale ma è anche orientata alla complessità e pluriprofessionale.<br />Cambiamenti pragmatici di questo livello richiedono una nuova cultura del lavoro, un nuovo modo di interpretare la propria professionalità in una prospettiva di partecipazione sempre più diretta responsabile e gratificante.<br />Un secondo punto critico è stato quello di far dialogare due microculture diverse: quella degli operatori territoriali che operano con modelli e procedure costruiti sull’obiettivo della prevenzione e quella degli operatori ospedalieri che operano con modelli costruiti sull’urgenza e il ricovero.<br />Gli operatori si conoscevano solo attraverso i reciproci pregiudizi: “Loro sono belli e tranquilli, non fanno niente, noi moriamo di lavoro”. “Loro fanno i primi della classe, hanno prestigio e più soldi, non capiscono che se noi lavoriamo bene, loro lavoreranno meno. Il nostro lavoro non è apprezzato da nessuno”.<br />In un percorso di trasformazione aziendale si possono verificare momenti di caos organizzativo in cui diventa indispensabile trovare al proprio interno elementi di significato forti che ristrutturino il disordine e la confusione. Quando i vecchi modelli appaiono obsoleti e i nuovi non ancora chiaramente percepibili, la sofferenza organizzativa si esprime con alti livelli di ansia e scontri frequenti fra chi difende la “tradizione” e chi propugna il nuovo, allora diventa necessario individuare e costruire con i propri collaboratori lo scenario entro il quale saper riconoscere le dimensioni della conflittualità tipiche di quel momento storico.<br />Lo scenario funziona come incastro di cornici che rende visibile la connessione fra ciò che succede a livello individuale o di piccolo gruppo e ciò che succede ai livelli via via più ampi.<br />“Non è in crisi solo la nostra Azienda, siamo difronte ad un cambiamento storico, abbiamo la possibilità di scelta: da semplici esecutori, come lo stile burocratico richiedeva, ad attori in grado di costruirsi spazi di libertà e scelta all’interno dei vincoli istituzionali non discutibili”. Quindi la crisi come opportunità per apprendere piuttosto che come incompetenza professionale o personale.<br />Un conflitto fra operatori centrato sulle qualità degli individui, che si giochi sulla disponibilità o meno al cambiamento, può acquistare una valenza trasformativa se connessa con livelli più grandi. Si può, per esempio, scoprire che entrambi gli operatori stanno facendo del loro meglio per collaborare proprio mentre stressano la loro diversità di vedute. Entrambi agiscono all’interno di sottosistemi con microculture diverse, collaborare, quindi, passa attraverso la necessità di mettere in salvo gli aspetti funzionali e valoriali del gruppo.<br />Analizzare le difficoltà in una cornice più ampia libera gli individui dalla necessità di comportamenti reattivi alla ricerca di un capro espiatorio.<br />Avere chiarezza del contesto, dello scenario nel quale si opera richiede un processo di osservazione e di analisi dall’individuo all’interazione, dall’interazione alla relazione fino al mondo del senso. Questo significa attivare nuovi modelli mentali in cui, ad esempio, il successo di un obiettivo non è legato all’operato di un singolo ma alla capacità del gruppo di interconnettersi.<br />Questo lavoro è stato condotto a più livelli e in tempi successivi<br />- in plenaria, con tutto il personale del DMI,<br />- con i vari sottosistemi: primari e il loro personale, distretti e il loro personale<br />- poi di nuovo tutti insieme con un lavoro a “zoomate” successive.<br />Questo lavoro ha portato due ordini di risultati, da un lato:<br />- Ha contribuito a depersonalizzare il conflitto. Apprendimento che non è avvenuto in modo omogeneo su tutto il dipartimento, del resto, per quanto desiderabile, non era un obiettivo realistico, ma a grosse “macchie di leopardo”.<br />- Ha consentito di dar vita alle piattaforme per progetto/obiettivo, ha favorito l’incontro fra professionalità diverse, arricchito i punti di vista, reso più flessibile le modalità d’uso delle risorse strumentali. Personale dell’Ospedale ha lavorato in distretto con il personale del consultorio e viceversa.<br />Dall’altro alto ha reso più visibile altri conflitti storici rendendone possibile la mediazione.<br />La “Mediazione di cooperazione” (Busso, 2001b) nella fase di trasformazione organizzativa, per essere efficace, può richiedere percorsi di apprendimento che consentano di acquisire a livello individuale e di gruppo la percezione consapevole di “essere parte di..”.<br />Un momento di costruzione e condivisione di senso del proprio comune soffrire apre le porte alla cooperazione, ma il processo va sostenuto e monitorato nell’operare quotidiano.<br />La mediazione di cooperazione nel contesto organizzativo è la capacità di entrare nei processi, operando per la soluzione delle contrapposizioni in funzione degli obiettivi attraverso la gestione delle dinamiche legate alla diversità delle posizioni, dei punti di vista, degli interessi diversi, in una realtà caratterizzata dalla necessità di prendere decisioni, dove l’elemento tempo è spesso un fattore strategico.<br />Una figura esterna con funzioni mediatorie è proponibile e, a volte, richiesta quando in un processo di integrazione fra i servizi, gli eventi scatenano posizioni inconciliabili e le polarità contrastanti siano interessate in qualche modo a ricomporre le divergenze. Anche in questo caso la figura esterna viene ricercata facendo riferimento ai livelli superiori. Il “terzo neutrale” è dato dalla posizione funzionale che per se stessa può motivare i contendenti ad una posizione di cooperazione.<br />Come sappiamo non tutti i conflitti possono essere gestiti con l’obiettivo di creare le condizioni per la cooperazione. A volte i conflitti si sono così strutturati nel tempo, da diventare identitari per il gruppo, che si riconosce in quanto “contro”.<br />Questi conflitti facilmente diventano esplosivi e richiedono una mediazione che realisticamente si può configurare come “mediazione di separazione”.(Busso 2001c) Il risultato può essere soddisfacente in quanto consente ai due sottosistemi di non impegnare tutte le risorse nel continuo controllo della controparte. E’ necessario, perché il risultato si consolidi nel tempo, che una forza di interposizione, riconosciuta da entrambi, moduli la comunicazione fra i due sottosistemi.<br />Proprio perchè le organizzazioni sono i luoghi di espressione delle contraddizioni e delle contrapposizioni, la funzione di mediazione accompagna tutti i momenti significativi, dalla programmazione alla verifica dei risultati ed è l’elemento sul quale si fonda la qualità percepita dei processi. La soddisfazione di ogni operatore in un gruppo di lavoro passa attraverso l’esperienza di essere capito e di capire l’altro proprio quando i punti di vista sono in partenza contrapposti.<br />Il compito di mediare emerge dagli altri compiti istituzionali e attraversa i vari livelli gerarchici.<br />In occasioni particolari diventa importante ricercare il “terzo” con la funzione specifica di mediare.<br />In questi casi diventa importante costruire percorsi diversi che, tenendo conto della materia specifica del contendere, accompagni i vari sottosistemi nell’apprendimento di modalità alternative.<br />E’ l’<a href="http://www.mediazione-familiare.it/pages/01.php?ID=12">esperienza di formazione- mediazione</a> che verrà presentata dalla dr. Patrizia Leopardo.<br />Il momento storico è quello della trasformazione di una professionalità: da operatore di consultorio pediatrico a operatore di pediatria di comunità. Alla nuova figura professionale viene richiesto di interpretare in modo nuovo compiti storici quali la vigilanza sanitaria e di integrarsi fra operatori di distretti diversi per realizzare compiti nuovi, quali gli interventi di rete sulle patologie croniche dell’infanzia. Questo ha richiesto cambiamenti profondi nel loro quotidiano, da un lato attivare e coordinare gli interventi dei pediatri di base con quelli ospedalieri e con i servizi sociali, favorendo la collaborazione fra le varie figure professionali, dall’altra aiutare le famiglie problematiche a districarsi nei percorsi di cura. La situazione conflittuale si dipanava sia con i livelli gerarchici storici: il Direttore di distretto, sia, anche se in modo meno palese, con la nuova figura del Direttore del dipartimento materno infantile, in quanto portatore di richieste nuove. Anche con i Pediatri di consultorio, con i quali avevano condiviso l’attività clinica per anni, le cose non andavano bene. Questi si opponevano con determinazione ad ogni cambiamento, distribuire pappe e visitare bambini erano le attività fatte per anni, era, per loro, del tutto irrilevante svolgere un’attività che risultava essere un doppione del lavoro dei pediatri di base. Fra Pediatri di Consultorio e Pediatri di Base era aperto da anni un conflitto che si dipanava intorno alla reciproca competenza e rilevanza.<br /><br /></p> <p style="font-family: arial;"> </p> <br /><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Bibliografia</span><br /><ul style="font-family: arial;"><br /> <li>Busso P. (1997<br /><div align="left"> a), La sfida ecologica del conflitto, in “Animazione Sociale”,<br /> 5, pp. 35-39.</div><br /> </li><br /> <li>Busso P. (2001b),<br /><div align="left"> Le origini epistemologiche del conflitto, in “Animazione Sociale”,<br /> 10, pp.27-35.</div><br /> </li><br /> <li>Busso P. (2001c),<br /><div align="left"> La mediazione per una nuova fase di cooperazione, in “Animazione Sociale”,<br /> 10, pp.27-35.</div><br /> </li><br /> <li>Crozier M., Le<br /><div align="left"> Phénomène burocratique,Le Seuil, Paris, 1970.</div><br /> </li><br /> <li>Loubat J.R., Resoudre<br /><div align="left"> les conflits dans les établissement sanitaires et sociaux, Dunod,<br /> Paris,1999.</div><br /> </li><br /> <li>Luhmann N. (1984),<br /><div align="left"> Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna 1990.</div><br /> </li><br /> <li>Morgan G. (1993),<br /><div align="left"> Images.Le metafore dell’organizzazione, Franco Angeli, Milano.</div><br /> </li><br /> <li>Mintzberg M.,<br /><div align="left"> Le Management, Editions d’Organisation, Paris, 1990.</div><br /> </li><br /> <li>Stradoni P., Guala<br /><div align="left"> G:, Busso P., (1996), L’organizzazione che apprende entra in ospedale,<br /> in “L’impresa. Rivista Italiana di Management”, pp.72-77.<br /> </div><br /> </li><br /></ul>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-45925917195479921892007-04-06T21:45:00.000+01:002008-12-09T00:02:38.460+01:00L'ANALISI DEI CONFLITTI ORGANIZZATIVI NELLA CONSULENZA SISTEMICA ALLE IMPRESE<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/_CvEyYRjw0Y4/Rhayftsm6dI/AAAAAAAAAJY/GrW_RmuU4VM/s1600-h/4.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;" src="http://1.bp.blogspot.com/_CvEyYRjw0Y4/Rhayftsm6dI/AAAAAAAAAJY/GrW_RmuU4VM/s320/4.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050420290054973906" /></a><br /><p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">Rosita Marinoni</font></p> <br /><p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">Didatta A.I.M.S. Centro Bateson, Milano <a href="mailto:rositamarinoni@moretto.it">rositamarinoni@moretto.it</a></font></p> <br /><div align="justify"></div><p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><i>Figlia:<br /> Papà, perché le cose finiscono sempre in disordine? <br><br /> Padre: Come? Le cose? Il disordine? Figlia: la gente è sempre lì a<br /> mettere le cose a posto, ma nessuno si preoccupa di metterle in disordine:<br /> Sembra proprio che le cose si mettano in disordine da sole. E poi bisogna metterle<br /> a posto. <br><br /> (G. Bateson, Verso un’ecologia della mente)</i></font></p><br /> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">È proprio vero: le cose e le organizzazioni si mettono in disordine da sole! Poi a qualcuno viene in mente che si potrebbe chiamare un consulente nella pia illusione di trovare chi mette le cose a posto oppure, se si è teoricamente più evoluti, chi ci insegna come si fa a mettere in ordine. Così comincia ogni volta l’avventura dell’incontro tra azienda e consulente, che nel confronto tra le rispettive visioni del mondo e le relative strategie organizzative, cercheranno senza riuscirci, ma anche senza perdersi d’animo, di dare un ordine alle funzioni ed alle relazioni che ne costituiscono l’essenza più o meno consapevolmente ignari che “dato che risono infiniti modi disordinati le cose andranno sempre verso il disordine e la confusione” (Bateson,<br /> ib.)<br> <br /> Tutti abbiamo tra i nostri modelli mentali una definizione di Organizzazione che ci assomiglia e nella quale ci riconosciamo; a seconda dei nostri gusti, della nostra impostazione ideologica e del nostro curriculum di studi e di esperienze, tendiamo a dare maggiore importanza alle persone che costituiscono una qualsiasi Organizzazione, piuttosto che ai legami operativi ed ai fini da conseguire, oppure ai mezzi ed alle risorse utilizzati.<br><br /> Tutti comunque tendiamo a qualificare una Organizzazione come un insieme<br /> non scindibile, integrato, di persone, strutture, mezzi e capacità di usarli, raccolti attorno a degli obiettivi più o<br /> meno economicamente valutabili.<br><br /> I Conflitti Organizzativi, fra tutti i tipi di conflitto, sono quelli che<br /> si riscontrano nelle Organizzazioni, come conseguenza dei comportamenti delle<br /> persone che ne fanno parte,comportamenti che non corrispondono alle aspettative<br /> ed agli obiettivi che l’organizzazione si propone.</font></p> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><b>I Conflitti Organizzativi</b><br><br /> I Conflitti Organizzativi si possono rilevare come riferiti al comportamento<br /> delle singole persone facenti parte dell’organizzazione (primo livello), oppure a quello di interi gruppi individuabili di persone riuniti da strutture, procedure o professionalità comuni (secondo livello), ed infine al comportamento direzionale che viene associato alla definizione delle strategie, degli obiettivi e dei valori dell’Organizzazione<br /> nel suo complesso (terzo livello).<br><br /> L’articolazione dei Conflitti su tre livelli introduce un parallelismo<br /> con i tre ordini di controllo nelle organizzazioni, come suggerito da<br /> Perrow nel 1986: il controllo di primo ordine attraverso la supervisione<br /> diretta, il controllo di secondo ordine attraverso i programmi e le procedure<br /> di routine, ed il controllo di terzo ordine che consiste nei presupposti<br /> e nelle definizioni che sono dati per scontati.<br><br /> Quest’ultimo livello contiene i fondamenti della cultura delle Organizzazioni (le “premesse”) come concettualizzato da Schein (1985) che così definisce l’organizzazione:<br><br />“l’organizzazione deve essere concepita come un sistema aperto, il<br />che significa considerarla in costante interazione con l’ambiente”. <br><br />L’organizzazione dev’essere concepita come un sistema dotato di una molteplicità di scopi e funzioni, che comportino molteplici interazioni fra essi e l’ambiente.<br><br />L’organizzazione consiste in molti sotto sistemi in stato di interazione<br />dinamica tra loro; diventa quindi importante analizzare il comportamento di questi<br />sottosistemi siano essi visti come gruppi, ruoli o secondo altri concetti<br><br />L’organizzazione esiste in un ambiente dinamico che consiste in altri sistemi, alcuni più grandi e altri più piccoli dell’organizzazione. L’ambiente pone esigenze e limitazioni di vario tipo e in varie forme; il funzionamento totale dell’organizzazione non può quindi<br />essere compreso senza prendere esplicitamente in considerazione tali esigenze<br />e limitazioni <br><br />I molteplici rapporti esistenti tra l’organizzazione e l’ambiente rendono<br />difficile una chiara individuazione dei confini di una data organizzazione.”</font></p> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><b>La rete concettuale</b><br><br /> Una polarizzazione su più livelli ci aiuta nella pratica ad identificare i Conflitti Organizzativi nella loro entità, consistenza, localizzazione e pericolosità,<br /> e ci consente di assumere comportamenti bilanciati e strategie di intervento<br /> e di comunicazione adeguati.<br><br /> Una classificazione dei Conflitti Organizzativi ci permette di inserire in<br /> una cornice i conflitti che andiamo ad identificare nella prassi della Consulenza<br /> organizzativa, di qualificarli e di parlarne e discuterne, di identificare<br /> il come, il dove, il quando essi si verificano. Consente inoltre la costruzione<br /> di matrici mentali associate alle esperienze professionali passate, che ci<br /> avvertono quando le cose “non quadrano”, quando nell’analisi qualcosa manca oppure è anomalo<br /> o ridondante.<br><br /> Chiaramente, l’atteggiamento mentale risultante richiede la qualificazione di Conflitto Organizzativo come fisiologica entità costitutiva dell’equilibrio stesso del processo organizzativo. La normalità è conflittuale.<br><br /> Il Conflitto Organizzativo, a qualsiasi livello si verifichi, è sempre però, come sanno i managers di esperienza, la spia di una disfunzione esistente nel Sistema organizzativo, da qualche parte. Infatti anche il conflitto fra due singole persone, anche a basso livello, originato dalla comune appartenenza organizzativa, può dare<br /> delle indicazioni su situazioni indefinite, irrisolte, frustranti od incoerenti.<br><br /> Informazioni ben più consistenti possono essere tratte da Conflitti Organizzativi dove sono coinvolti gruppi anche consistenti di persone, coinvolti dall’appartenenza a gruppi sociali o professionali, a fasi diverse del ciclo produttivo, a “geografie” organizzative<br /> e sociali diverse.<br><br /> Già vediamo che se la nostra presupposizione associava al conflitto una connotazione negativa e di malessere sul quale intervenire “come i pompieri”, siamo ora costretti a rivedere il giudizio sulla produttività e fecondità del<br /> conflitto organizzativo.<br><br /> Se andiamo al livello superiore, che coinvolge e qualifica le compatibilità strategiche fra le azioni organizzative in diversi contesti, che sono tra loro in rapporto normale di antinomia o di concorrenza, rispetto alla ripartizione delle scarse risorse sui fini infiniti, abbiamo la conferma finale sull’importanza fondamentale del “controllo delle premesse” e quindi del controllo del tasso di conflitto, di competenza della direzione generale. E’ compito di questo livello la valutazione dell’adeguatezza e della tollerabilità del livello conflittuale del sistema, in relazione al raggiungimento degli obiettivi ed all’adesione ai valori condivisi da parte del corpo sociale dell’Organizzazione.<br><br /> Chi agisce nella pratica della Consulenza rileva, identifica, qualifica,<br /> progetta e pianifica il Conflitto Organizzativo ai vari livelli, nella consapevolezza<br /> di non potere essere neutro nello sviluppo del processo, ma di essere a propria<br /> volta attore e causa di conflitto nell’ambito del sistema organizzativo.<br><br /> Gli effetti di una sottovalutazione o, peggio, di una scarsa consapevolezza<br /> o cultura del ruolo attivo del Consulente “esterno” può portare a risultati disastrosi dal punto di vista del respingimento del consulente (la c.d. “resistenza al cambiamento”), indipendentemente dalla bontà ed adeguatezza dei miglioramenti proposti. Peggio, in quanto gli effetti di un comportamento irresponsabile od inconsapevole da parte del consulente si produrranno sicuramente, in assenza di strumenti di conoscenza sull’andamento del processo ed in carenza di qualunque possibilità di<br /> controllo.<br><br /> I sistemi complessi, specialmente quelli ad elevata ridondanza, come quelli<br /> sociali o nei quali l’opera dell’uomo è influente, seguono<br /> nel loro funzionamento logiche non aristoteliche. In una organizzazione umana<br /> due disposizioni o regole fra loro antagoniste non generano il blocco del<br /> sistema, ma un suo funzionamento anomalo, difficoltoso, diverso: un Conflitto<br /> Organizzativo, appunto.<br><br /> Lo stesso succede nei sistemi elettronici ad elevata ridondanza; il sistema<br /> funziona secondo modalità di emergenza, a fatica, ma funziona.</font></p> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><b>Tipi di Conflitto Organizzativo</b><br> <br /> Abbiamo sopra dato una prima classificazione generale, teorica ma anche fattuale, dei Conflitti Organizzativi. <br><br /> E’ possibile arricchire la rete concettuale aggiungendo altre ottiche diverse, che come al solito in un approccio sistemico si intrecciano e si influenzano in una matrice a più dimensioni.<br> <br /> Riscontriamo Conflitti Organizzativi di natura:<br><br />• Relazionale<br><br />• Organizzativa (strutturale o procedurale – polarizzazione all’efficienza<br />od all’efficacia) <br><br />• Economica (risorse a disposizione del sistema in relazione all’esterno)<br><br />• Sociale<br><br />Tale qualificazione di conflitti può naturalmente essere presente in tutti<br />i tre livelli sopra identificati.<br><br />L’evoluzione e lo sviluppo dei vari tipi di Conflitto Organizzativo varia naturalmente a seconda del livello al quale esso viene a situarsi. La risoluzione o la ricerca delle compatibilità sono naturalmente più semplici ed implicano molto meno alternative realistiche al primo od al secondo livello, presuppongono d’altronde<br />metodologie di intervento e discipline operative note e definite, si prestano<br />ad una valutazione di costi e di tempi di intervento ragionevolmente certi.<br><br />La capacità di “leggere” l’Organizzazione è naturalmente correlata all’esperienza ed alle competenze professionali del Consulente organizzativo, nonché all’esistenza di eventuali preclusioni mentali o di pregiudizi nei confronti di particolari tipi di Organizzazione, ed infine alla capacità personale<br />di mettersi in gioco.<br><br />L’evoluzione del processo di consulenza organizzativa è naturalmente più critica, difficoltosa ed eventualmente casuale quando il Conflitto è riconducibile<br />al terzo livello, quello dei presupposti e della strategia, che in ultima analisi<br />fa riferimento ad un uomo /una donna, ovvero ad un gruppo direzionale ben identificabile.<br><br />A questo livello il rischio del consulente di essere respinto prima ancora di<br />aver potuto leggere la struttura dei rapporti, lo schema dei ruoli e la gerarchia<br />dei valori, è elevatissimo.<br><br />Il ruolo del consulente, che genera comunque conflitto operando ai livelli inferiori<br />su mandato della direzione generale, diventa eventualmente l’elemento scatenante<br />del conflitto a livello direzionale rispetto ai presupposti di base della stessa<br />Organizzazione.<br> <br />Il Consulente viene a questo punto messo gentilmente alla porta.</font></p> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><b>Il mandato</b><br> <br /> Il rapporto fiduciario fondamentale per lo sviluppo della consulenza trae origine dalla consapevolezza che esiste una sintonia personale professionale ed emotiva tra le persone interessate, e che le competenze del consulente potranno risolvere una condizione sentita come problematica.<br><br /> Una variabile ed una variante ulteriore per il Consulente si verifica quando<br /> il mandato consulenziale non viene espresso dalla direzione generale, ma da<br /> una suddivisione organizzativa di livello più basso, di solito su aspetti operativi e settoriali. Il rischio in questi casi è quello di sconfinare su aree problematiche ovvero su Conflitti appartenenti al terzo livello, in modo consapevole o meno. Il risultato sicuro dell’azione su conflitti del terzo tipo senza un mandato del vertice organizzativo è la<br /> messa alla porta, magari anche in modo poco gentile.<br><br /> E’ necessario ricordare inoltre un basilare “warning” metodologico che deve guidare l’azione di consulenza nei confronti della direzione generale o del gruppo direzionale, ed è quello che ci mette in guardia nei confronti di ottimizzazioni arrischiate delle prestazioni dei sottosistemi organizzativi (sia sotto il profilo dell’efficienza che dell’efficacia) senza considerazione dell’ottimizzazione del sistema complessivo (come efficienza e come efficacia). Normalmente il comando di una nave richiede la disottimizzazione controllata ed “euristica” di tutti i parametri settoriali riguardanti le macchine, i consumi, la manutenzione, le energie, le scorte, la manodopera ed il suo utilizzo, il carico, il denaro, il tempo, la dimensione rischio di navigazione, a favore della realizzazione più favorevole del risultato previsto dell’azione. Il che, sappiamo, non significa “navigare a vista”, ma inserire dei coefficienti di sicurezza e di previsione che si basano sull’esperienza ed eventualmente sui pregiudizi del comandante. La Direzione, nonostante tutto, è ancora una attività artistica basata sulle qualità personali<br /> del leader.<br><br /> Questa considerazione aiuta nella definizione della proposta di consulenza<br /> che è alla base del mandato che autorizzerà il Consulente ad operare, e del rapporto fiduciario con la direzione generale, la quale naturalmente tenderà a preferire la proposta che più sente simile alle proprie idee e presupposizioni legate alla sopravvivenza dell’Organizzazione<br /> e queste, di solito, sono al primo posto!</font></p> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><b>La richiesta di formazione</b><br><br /> La richiesta di formazione, soprattutto su tematiche legate alle relazioni<br /> fra le persone, ha spesso come base un bisogno di adeguare ed armonizzare<br /> i comportamenti dei componenti dell’organizzazione, generando cambiamenti di atteggiamento e di valori che ci si aspetta abbiano un effetto positivo sul funzionamento dell’organizzazione<br /> e le facciano pertanto raggiungere meglio i propri scopi istituzionali. <br><br /> L’intervento di un consulente esterno all’organizzazione, e per di più qualificato come esperto nelle relazioni interpersonali, deve essere letto nell’ottica di un processo circolare che nella costituzione del nuovo sistema impresa- consulente attiva situazioni che presentano contemporaneamente le condizioni perché si<br /> realizzano conflitti, cambiamenti, apprendimenti, individuazioni.<br><br /> La richiesta di un intervento formativo può quindi essere letta<br /> come una possibile ipotesi di soluzione di conflitti organizzativi in atto. <br><br /> Ci si aspetta che il consulente introduca nel sistema competenze relazionali<br /> e/o tecniche che questi apprendimenti permettano ai soggetti e/o alle unità organizzative<br /> di gestire e risolvere differenze che, generando conflitti, ostacolano<br /> o indirizzano diversamente i cambiamenti organizzativi auspicati. <br><br /> D’altronde l’offerta formativa è spesso rivolta a specifiche figure aziendali o a determinati livelli gerarchici o a settori determinati dell’azienda che vengono considerati o più bisognosi di spinte verso il cambiamento o più ricettivi<br /> a nuove proposte organizzative, quindi potenzialmente trainanti dei confronti<br /> degli altri. <br><br /> Quale i sarà l’effetto degli apprendimento introdotti in una<br /> parte del sistema sugli altri sottosistemi e sul sistema nel suo complesso? <br><br /> La differenza tra coloro che sono stati coinvolti nell’attività di formazione e coloro che sono stati esclusi può quindi divenire generatrice di conflitti sia perché introduce differenze di legittimazione all’utilizzo di nuove competenze e strategie, sia perché può generare<br /> di contro resistenza al cambiamento. <br><br /> Possiamo evidenziare in una relazione circolare ricorsiva gli elementi<br /> che caratterizzano l’intervento del consulente formatore individuandoli<br /> come cambiamento, apprendimento, differenza e conflitto. </font></p> <p align="center"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><img src="../pictures/1/4-1.jpg" width="300" height="128"></font></p> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><br><br />• Il conflitto è uno stato fisiologico dell’organizzazione<br><br />• Il conflitto nasce dalle differenze e crea differenze e cambiamento<br><br />• Le differenze creano apprendimento<br><br />• Gli apprendimenti portano cambiamenti<br><br />• Il cambiamento crea conflitti<br><br />• :Il conflitto è fonte di apprendimenti<br><br />Questi elementi faranno parte della mappa di lettura delle dinamiche organizzative<br />sia del committente che del consulente, seppure con posizionamenti diverso rispetto<br />alle priorità di intervento ed alle tipologie di conflitti organizzativi<br />presenti.</font></p> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><b>Orientamenti finalizzati</b><br><br /> Il committente chiederà il consulente di intervenire partendo dall’elemento della rappresentazione circolare che più rappresenta,<br /> per lui (e la sua funzione) in quel momento e secondo i suoi valori e presupposti,<br /> la situazione problematica generatrice di disagio e/o di disfunzione organizzativa. <br><br /> Il consulente in relazione ai propri valori, competenze ed apprendimenti,<br /> leggerà la situazione che gli viene presentata partendo da quello degli elementi evidenziati che gli sembra più rappresentativo dell’intervento che intende proporre. Non di rado una differente lettura tra committente e consulente dell’elemento da cui partire per definire l’intervento organizzativo/ formativo costituisce una ragione di conflitto, solitamente non esplicitato, tra i due ed introduce elementi di disfunzione organizzativa nella gestione dell’intervento<br /> previsto.<br> <br /> Avremo quindi tipologie diverse di richiesta da parte del committente che potremmo classificare come:<br> <br /> <b>A</b> la richiesta di consulenza/formazione per incrementare l’apprendimento <br> <br /> <b>B</b> la richiesta di consulenza/formazione per favorire il cambiamento <br> <br /> <b>C</b> la richiesta di consulenza/formazione per gestire conflitti <br> <br /> <b>D</b> la richiesta di consulenza/formazione per eliminare/amplificare<br /> le differenze (favorire l’appartenenza e l’individuazione). <br><br /> Da qualsiasi istanza parta la richiesta di consulenza l’intervento del consulente non agirà solo o prevalentemente nella dimensione di partenza considerata ma inevitabilmente andrà a<br /> toccare e a sollecitare le altre dimensioni che in sequenza e misure diverse<br /> saranno comunque sempre messe in gioco sia nella loro valenza positiva che<br /> in quella negativa. <br><br /> Solo considerando nella loro interdipendenza cambiamento apprendimento individuazione<br /> e conflitto è possibile approcciarsi all’organizzazione per leggerne<br /> le dinamiche organizzative e proporre interventi congruenti.<br><br /> In questo si evidenzia il sostanziale dislivello tra una rilevazione quantitativa<br /> e letterale delle richieste formative e una lettura della complessità organizzativa<br /> che implica interventi di consulenza e formazione</font></p> <div align="justify"> <blockquote> </blockquote> </div> <blockquote> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><b>A<br /> La richiesta di consulenza/formazione per incrementare l’apprendimento </b><br><br /> L’impresa mette in evidenza l’esigenza di incrementare i livelli di competenza tecnica e relazionale dei suoi componenti. Spesso la logica sottostante è quella del “più è meglio” e quindi il mandato sarà quello di aumentare il livello della conoscenza, di migliorare l’uso degli strumenti e delle metodologie, di stare al passo con l’innovazione. <br><br /> Il conflitto organizzativo sottostante è spesso riferibile ad<br /> una diagnosi da parte del committente di inadeguatezza, prevalentemente<br /> imputabile alle persone alle quali si chiede di aggiornare il loro<br /> modo di lavorare e/o di relazionarsi. <br><br /> Immaginando come necessario ma sufficiente un cambiamento di tipo 1<br /> si ignora che comunque la realizzazione di apprendimenti, per quanto<br /> strumentali, non può avvenire se non utilizzando e valorizzando le differenze, riconoscendo le identità e ciò avrà ripercussioni<br /> non solo nel cambiamento delle singole persone ma anche dei rapporti<br /> organizzativi.<br> <br /> <b>B La richiesta di consulenza/formazione per favorire </b><br> <br /> il cambiamento <br><br /> Il committente ha come valore dichiarato una spinta all’evoluzione<br /> e pensa che organizzazione e, parti di essa o alcune persone che la<br /> compongono, non siano sufficientemente motivati e pronti per cambiare. <br><br /> La richiesta di un intervento rivolta al cambiamento è in genere<br /> determinata dalla visione che non sia possibile affrontare mercati<br /> competitivi o evoluzione tecnologica senza proporsi nuovi scenari anche<br /> di tipo organizzativo. <br><br /> Per valorizzare il cambiamento spesso si squalifica o si minimizza<br /> il valore dell’esperienza passata, negandone la valenza di fonte di apprendimento futuro e di elemento costitutivo della storia e dell’identità delle persone e dell’organizzazione. <br><br /> L’atteggiamento è quello dell’entusiasmo per il nuovo, che siano nuove tecnologie, nuovi approcci organizzativi, o richieste di contenuti e modalità di<br /> formazione originali che hanno come caratteristica principale soprattutto<br /> quella di essere qualcosa di non ancora fatto prima. <br><br /> Il rischio sarà quello di proporre un cambiamento che si esprime<br /> prevalentemente negli enunciati non in una modificazione dei valori<br /> e delle strategie complessive di gestione delle dinamiche organizzative.<br><br /> Interventi rivolti al cambiamento possono generare resistenze e conflitti<br /> più o meno espliciti, conflitti di lealtà nei confronti di figure o funzioni che in qualche modo rappresentano la storia e la continuità dell’organizzazione e possono in qualche maniera ostacolare l’apprendimento di nuove modalità operative o strategie organizzative più rispondenti alle esigenze evolutive dell’organizzazione.<br><br /> Non è sufficiente riconoscere la bontà e la necessità del cambiamento ma bisogna anche apprenderne il linguaggio e gli strumenti integrandoli nella propria identità di membri dell’organizzazione.<br> <br /> <b>C La richiesta di consulenza/formazione per gestire conflitti </b><br><br /> Il committente ha rilevato nella propria organizzazione la presenza<br /> di conflitti interpersonali o interfunzionali che non riesce a gestire<br /> e dei quali non ha ben chiara la funzione e la prognosi. Spesso sono<br /> già stati messi in atto strategie di controllo della situazione che non hanno dato i frutti sperati. La richiesta al consulente è allora quella di aiutare il committente a leggere il significato della situazione conflittuale, ma anche di favorire la comunicazione tra le parti, se non addirittura di riportare la “pace in famiglia” attraverso<br /> interventi diretti con le parti in causa. <br><br /> Questo intervento, che possiamo definire convenzionalmente mediazione,<br /> deve avere tuttavia tutte le caratteristiche e le cautele di un intervento<br /> di consulenza organizzativa. Infatti il consulente chiamato a intervenire<br /> sui conflitti interpersonali o organizzativi non potrà mai assumere pienamente il ruolo di terzo neutrale in quanto incaricato dal committente, che ha assunto la responsabilità della<br /> scelta e della retribuzione del consulente stesso. <br><br /> I conflitti organizzativi ed anche spesso quelli interpersonali si<br /> evidenziano maggiormente in momenti di crisi evolutiva dell’azienda, quando le richieste di cambiamento provenienti dall’interno o dall’esterno si fanno più pressanti e gli individui o i sottosistemi aziendali vedono messe in pericolo la propria identità,<br /> il proprio ruolo, la propria stessa esistenza. <br> <br /> <b>D La richiesta di consulenza/formazioneper eliminare/amplificarele<br /> differenze (favorire l’appartenenza e l’individuazione). </b><br><br /> In alcuni casi l’intervento di consulenza è richiesto per favorire e/o sottolineare differenze individuali, di funzione o aziendali in relazione a processi di cambiamento o ristrutturazione che incidono sull’identità dell’organizzazione e su quella lavorativa dei suoi componenti. E’ il caso di situazioni di fusione, incorporazione, privatizzazione, autogestione, ed altre situazioni simili che giungono dall’esterno dell’organizzazione e non propongono soltanto cambiamenti organizzativi ma si configurano come veri e propri salti tra una cultura ed un’altra. <br><br /> Un’altra tipologia di situazione aziendale nella quale la consulenza ha la funzione di valorizzare le differenze si presenta nel caso di variazione di funzione e/o di status di un membro dell’organizzazione che, a seguito di una promozione, di un cambiamento di ruolo, dell’immissione nell’azienda familiare o altro, sarà coinvolto in attività di consulenza e formazione ad hoc. Il cambiamento di ruolo può essere vissuto in maniera destabilizzante dal sistema e dalla persona e dar luogo a conflitti relazionali e/o a conflitti interni e crisi di identità.</font></p> </blockquote> <p align="justify"><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">Alle tipologie di richiesta di consulenza possiamo far corrispondere tipologie di intervento codificate nella pratica consulenziale:<br><br /> - per incrementare l’apprendimento = la formazione propriamente<br /> detta<br> <br /> - per favorire il cambiamento = la consulenza organizzativa di processo<br> <br /> - per gestire i conflitti = gli interventi sulla comunicazione, sulle relazioni, la mediazione<br><br /> - per favorire l’appartenenza e/o l’individuazione =<br /> selezione, assessement, coaching<br><br /> Queste attività però, anche quando costituiscono interventi che potrebbero considerarsi isolati, non possono mai prescindere da una lettura organizzativa quanto più possibile complessiva e devono essere sempre collocate in un quadro di riferimento che tenga conto delle dinamiche organizzative e quindi dei conflitti organizzativi che ne sono stati l’origine,<br /> che le accompagnano e che da loro saranno originati.<br><br /> Un conflitto organizzativo può essere quindi considerato come una delle componenti importanti per il raggiungimento dei fini organizzativi, bisogna però comprenderne<br /> le origini le funzioni e le possibili conseguenze gestibili. <br><br /> Ogni mutamento, ogni innovazione passano attraverso conflitti,<br /> tra status quo e speranza futura ed in quest’ottica possiamo quindi considerare ogni organizzazione come un modo di amministrare uno o più conflitti. <br><br />Saper considerare i conflitti organizzativi non solo come conflitti nella e della<br />organizzazione, ma anche e soprattutto come conflitti che producono organizzazione,<br />al di là di valutazioni negative o positive, colloca l’intervento<br />del consulente in una prospettiva di promozione della autorganizzazione del sistema. <br><br />Possiamo quindi dire che la capacità e la specificità del consulente sistemico sarà quella di accompagnare l’impresa, attraverso la relazione con i suoi componenti, nelle sue dinamiche evolutive, tenendo in considerazione circolarmente ed interattivamente le dimensioni dell’apprendimento, del cambiamento, della differenza e del conflitto come motori, alimentati dalle relazioni, per la sopravvivenza e l’evoluzione<br />del sistema organizzativo. </font></p> <p align="justify"> </p><br /><strong><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"><br /> <br />Bibliografia </font></strong><font face="Arial, Helvetica, sans-serif"></font><br /><ul><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">ARGYRIS C. (1993) Superare le difese organizzative, Raffaello Cortina,<br /> Milano</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">BATESON G. 1976, Verso un ecologia della mente, Ed Adelphi, Milano</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">BATESON G. 1984, Mente e natura, Ed Adelphi, Milano</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">BUSSO (1998-99) La sfida ecologica del conflitto, Maieutica, 9-10-11</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">COLOMBO D.A., MARINONI R., (1997) La mediazione sociale e comunitaria,<br /> Animazione Sociale, N.113 maggio 97</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">DE BONO E., (1993), Conflitti,<br /> Sperling & Kupfer</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">F. BASSOLI, M.MARIOTTI, R.FRISON, (2000) Mediazione sistemica, Ed. Sapere,<br /> Padova</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">MORGAN G.(1998) Images, Franco Angeli, Milano</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">MORIN E., (1993), Introduzione<br /> al pensiero complesso, Sperling & Kupfler</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">PERROW C. (1986) Organizzazioni complesse, Franco Angeli, Milano</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">SCHEIN E.H. (1992) Lezioni di consulenza, Raffaello Cortina, Milano</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">SENGE P.(1992) La quinta disciplina,<br /> Sperling & Kupfer, Milano</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">SENGE P. e al. (1999) The dance of change</font></li><br /> <li><font face="Arial, Helvetica, sans-serif">WEICK K.E.(1997) Senso e significato<br /> nell’organizzazione, Raffaello<br /> Cortina, Milano. </font></li><br /></ul>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-53023262727814250082007-04-06T21:53:00.001+01:002008-12-09T00:02:38.314+01:00IL CONFLITTO NEL CONTESTO GIUDIZIARIO<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/_CvEyYRjw0Y4/Rha0Ftsm6eI/AAAAAAAAAJk/1G6aOCwgopk/s1600-h/5.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="http://1.bp.blogspot.com/_CvEyYRjw0Y4/Rha0Ftsm6eI/AAAAAAAAAJk/1G6aOCwgopk/s320/5.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050422042401630690" border="0" /></a></span><span style="font-weight: bold;font-family:arial;font-size:100%;" >Aldo Mattucci</span> <p style="text-align: left;font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Socio Didatta A.I.M.S. Istituto Veneto di Terapia Familiare Treviso, Padova, Vicenza <a href="mailto:aldomattucci@libero.it">aldomattucci@libero.it</a></span></p> <div align="justify" style="font-family:arial;"> <p> <span style="font-size:100%;"><b>1° PARTE</b><br />Nell’attuale epoca storica, in cui si trovano a convivere società sempre più complesse ed eterogenee,”caratterizzate da movimenti di popolazioni di diversa etnia, cultura, lingua, religione, da rapidi cambiamenti culturali e sociali, sempre più spesso si verificano, emergono o si moltiplicano comportamenti conflittuali diffusi, che sono l’espressione di un disagio sia individuale che collettivo” (Commissione Nazionale, 1999).<br />L’uomo del ventunesimo secolo si trova a dover confrontare in modo sempre più incalzante gli elementi costitutivi della propria identità con tutto ciò che gli si manifesta dall’esterno, in termini di differenza. La scommessa più rischiosa consiste nella capacità di riconoscere le differenze e di elaborarle, senza cadere nel rischio di trasformarle in diversità, ovvero in qualcosa che viene etichettato e che perde così la possibilità di essere rielaborato.<br />Appare evidente che il riconoscimento della nostra unicità e la possibilità di riconoscere l’unicità di cui sono portatori gli Altri non solo rappresentano la modalità più ricca di apprendimento, ma anche promuovono la capacità di rispettare ed accettare i confini che ci distinguono da tutto ciò che è altro da noi.<br />Tale operazione è realizzabile solo se l’individuo ha preliminarmente imparato ad integrare dentro di sé le differenze di cui lui stesso è portatore.<br />L’apprendimento di tale meccanismo avviene all’interno del contesto familiare, dove il bambino impara da subito a confrontarsi con i differenti modelli di come si verificano i passaggi evolutivi, di come si affronta il dolore, di come si raggiunge un’armonica realizzazione di sé, di come si costruiscono le relazioni e i legami significativi. Al bambino queste differenze giungono soprattutto attraverso la relazione che ognuno dei due genitori costruisce con lui e l’integrazione dei due modelli è favorita dalla capacità dei genitori stessi di costruire la coppia coniugale prima e la co-genitorialità poi. Il graduale inserimento nella vita sociale fornirà poi occasione di conferma o di messa in discussione, delle modalità di integrare o meno le differenze che il bambino ha acquisito all’interno della famiglia.<br />In sintesi, la capacità di vivere il conflitto come un elemento costitutivo della vita stessa e come una possibile ricchezza deriva dalla capacità a riconoscere, mediare ed integrare le differenze che ogni singolo individuo ha maturato nel corso della sua crescita.<br />Nelle situazioni in cui questo processo subisce intoppi o distorsioni il conflitto diviene fonte di blocchi evolutivi, di profondi disagi individuali e sociali, spesso fino a determinare la comparsa di comportamenti sintomatici e/o devianti.<br />Sempre sul tema delle differenze, vorrei nuovamente sottolineare che ogni persona, nella quotidianità, è continuamente messa alla prova nella sua capacità di riconoscere, accettare e tollerare tutto ciò che non ha caratteristiche assimilabili o sovrapponibili a quanto gli appartiene e gli è noto.<br />Come afferma Pasquale Busso (1999), riprendendo un lavoro della Selvini Palazzoli, il “disvelamento” e l’accettazione della contrapposizione è ciò che fa esistere il conflitto all’interno dei vari contesti sociali, quali la famiglia, la coppia, il gruppo di lavoro. Difatti, “ogni attore non può restare indifferente di fronte alla contrapposizione, è costretto a definirsi, a prendere posizione e conseguentemente a collocare la comunicazione nell’ambito della normalità, dove è fisiologico che esistano interessi diversi, opinioni diverse, posizioni contrastanti, divisioni” (pag.19).<br />Sappiamo che la dimensione antagonistica non può mai essere cancellata del tutto, in quanto ognuno di noi continua a percepire l’altro come differente da sé e come portatore di modelli culturali e valori familiari diversi, anche se l’interazione avviene in un regime di cooperazione. Proprio per questo motivo anche la dimensione del conflitto non potrà mai scomparire del tutto dalla nostra vita. Ciò non significa che non si possano apprendere modalità utili a ridurne la portata e l’intensità e a trasformarlo in una fonte di risorsa.<br />Prima di entrare nel dettaglio delle diverse situazioni di conflitto che ci troviamo ad affrontare, è necessario sottolineare la centralità, nell’ambito di una concezione sistemico-relazionale, del concetto di contesto. Sergio Moravia (1999) afferma che “l’uomo è un essere contestuale. È solo entro il sistema dei rapporti, dei condizionamenti, degli stimoli visibili e invisibili in cui vive ch’egli va acquisendo gradualmente la sua fisionomia (…) di uomo persona” (pag.36).<br />L’articolarsi di conflitti e di mediazioni che caratterizza la nostra vita necessita pertanto, per la sua comprensione, di un’analisi del contesto in cui avviene, in quanto è proprio all’interno del contesto che avvengono quegli incontri/scontri tra gli individui che generano “le differenze tra l’io, il tu e il lui” (Moravia, op. cit.,1999).<br />Nella quotidiana pratica professionale incontriamo individui, coppie e famiglie che non sono riusciti ad affrontare e ad armonizzare autonomamente quelle differenze, contrapposizioni e posizioni antagoniste che fanno parte delle relazioni umane. Nella gran parte delle situazioni le persone sono in grado di affrontare autonomamente le situazioni conflittuali all’interno di quell’articolarsi di contrapposizioni e mediazioni di cui si parlava poco fa. Altre volte invece le persone non percepiscono di avere in loro stesse le risorse per poter produrre autonomamente un cambiamento, di conseguenza si rivolgono agli “esperti nel trattamento della discordia”.<br />Questo Convegno si pone l’obiettivo di riflettere intorno alla teoria e alla pratica della mediazione sistemica realizzata, con indirizzi a volte prevalenti, nei numerosi centri AIMS dislocati sul territorio nazionale e che hanno come oggetto i conflitti che si manifestano nei vari contesti, quali quello familiare, di coppia, scolastico, comunitario, penale e istituzionale.<br />Nel corso di queste due giornate rifletteremo insieme, all’interno di questa sessione di lavori, in particolare sulle situazioni conflittuali che giungono all’attenzione degli operatori della Giustizia (magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, consulenti, mediatori) e sugli strumenti operativi che questi ultimi utilizzano per ricomporre il conflitto.<br />Per quanto attiene alla <b>separazione coniugale</b>, sappiamo che accedono alla Giustizia quelle coppie che non riescono ad utilizzare gli strumenti a disposizione nel campo dell’aiuto alla persona, quali la psicoterapia di coppia, la consulenza di coppia e la mediazione familiare, per realizzare il passaggio della genitorialità oltre la rottura coniugale.<br />In un precedente articolo, pubblicato sull’ultimo numero di Maieutica (2001), al quale per ragioni di tempo rinvio per un maggiore approfondimento, assieme a Luca Pappalardo ho definito tali situazioni conflittuali come “non mediabili”. Si tratta di situazioni all’interno delle quali la tipologia del conflitto impedisce il raggiungimento di un accordo riguardante l’affido dei figli, l’accesso di questi al genitore non affidatario, la gestione e la suddivisione dei beni. Queste coppie appaiono bloccate nell’elaborazione psicologica della rottura coniugale e non accedono quindi al raggiungimento del cosiddetto divorzio emotivo, che sappiamo essere indispensabile per il superamento della crisi.<br />Ciò che fa definire una coppia non mediabile, infatti, non è solo l’intensità, la quantità e la durata del conflitto, bensì la modalità relazionale attraverso cui i due ex coniugi continuano a rapportarsi l’un l’altro. Sinteticamente, risultano non mediabili coloro che, per mantenere intatto un legame e la speranza di cambiamento dell’altro, trovano nel conflitto la condizione per rimanere collegati con l’ex coniuge (legame disperante). Oppure coloro che, non potendo possedere l’altro, lavorano per la sua totale esclusione dalla propria vita e, di conseguenza, da quella dei figli (cosiddetto scisma).<br />In queste situazioni il compito della Giustizia è quello di accogliere quella richiesta di aiuto che la famiglia presenta attraverso il “trasferimento” all’interno del contesto sociale (il cosiddetto transfert sulla giustizia) di quell’aspettativa di risoluzione delle difficoltà e dei problemi che non hanno trovato soluzione dentro se stessa. Difatti, le coppie che accedono alla Giustizia delegano ad essa la responsabilità genitoriale, venuta meno a causa del più pressante bisogno di chiedere giustizia per sé a causa delle delusioni e delle sofferenze del passato e a causa dei presunti torti patiti per “colpa” del comportamento dell’ex coniuge.<br />Questa modalità di porsi va a configurare una modalità relazionale tipica dei conflitti nei quali l’obiettivo finale è quello di vincere contro l’altro.<br />In questi casi il Giudice generalmente fa ricorso all’utilizzo di esperti di sua fiducia, affidando loro l’espletamento di una Consulenza Tecnica d’Ufficio, atta a valutare le modalità più idonee di espressione della genitorialità.<br />Su questo argomento rinvio nuovamente all’articolo scritto con Pappalardo (op. cit. 2001) sullo sviluppo di una Consulenza Tecnica orientata secondo l’ottica sistemico-relazionale. In questa sede vorrei sinteticamente sottolineare che gli obiettivi di tale intervento sono quelli di proteggere l’esercizio genitoriale e tutelare il passaggio generazionale.<br />Pertanto, elemento centrale della riflessione del nostro operare in campo psicogiuridico è che gli attori coinvolti nella disputa esprimono, proprio attraverso il conflitto, l’ambivalenza tra il desiderio di affrontare il dolore legato al lutto per la rottura del progetto familiare e il contemporaneo bisogno di negarlo. Ne consegue che quando il Giudice, direttamente o attraverso i suoi Consulenti, dispone d’autorità una regolamentazione dell’esercizio genitoriale, senza offrire uno spazio elaborativo dei temi che hanno procurato dolore e sofferenza, lascia irrisolte le motivazioni più profonde che hanno attivato il conflitto tra genitori.<br />L’operazione ambiziosa che alcuni Centri di mediazione, denominati Co.Me.Te., stanno tentando di realizzare è quella di operare un cambiamento radicale, ma graduale nei tempi e nei modi, della cultura e del modo di operare nelle situazioni di separazione e divorzio, da parte di tutti gli operatori dello psicogiuridico e, nel contempo, degli stessi cittadini. Il cambiamento consiste nel passare da una visione del conflitto come elemento negativo e patologico ad una valorizzazione della spinta evolutiva che esso possiede, una volta inserito e compreso come possibile risorsa utile al cambiamento, all’interno di un più articolato processo evolutivo dell’uomo.<br />In <b>campo penale</b> l’approccio al conflitto parte dalla considerazione che le contese tra individui necessitino di un intervento che, secondo alcuni, deve essere finalizzato all’aiuto e al recupero del reo in quanto uomo e che, secondo altri, deve realizzare una delle prerogative dello Stato, che è quella della punizione del colpevole in nome della difesa sociale. Vedremo in seguito come tutto ruoti intorno a questa “dicotomia: aiuto/controllo” (Esposito, 1996).<br />La mia attenzione si indirizzerà in modo prevalente agli interventi nel campo minorile. La scelta non è motivata dal ritenere che non ci possa essere spazio per interventi di mediazione nel campo degli adulti, in quanto ben sappiamo che le possibilità di intervento sono molteplici, grazie anche all’utilizzo delle cosiddette “misure alternative”. In realtà, l’attenzione che andiamo a porre sulle questioni proprie del procedimento penale minorile trova giustificazione in quanto si tratta di un intervento preferenziale collocato nell’ambito dell’adolescenza.<br />A questo proposito, prima di entrare nel dettaglio dell’intervento nel campo penale minorile, è necessario fare alcune puntualizzazioni circa alcuni passaggi propri di quella fase del ciclo vitale così complessa, articolata e difficile, sia per i singoli individui che per l’intero sistema familiare e sociale, quale è l’adolescenza.<br />Sappiamo che l’adolescente, proprio attraverso comportamenti eclatanti, fortemente trasgressivi e di rottura degli schemi vigenti, affronta il confronto intergenerazionale con le figure dei genitori. In nessun altro periodo della vita il conflitto assume valenza di processo fisiologico come nell’adolescenza.<br />I singoli membri della famiglia e la famiglia nel suo complesso, attraverso il conflitto generazionale, sono chiamati a produrre significativi cambiamenti nel proprio modo di percepire e di interpretare la realtà, a promuovere azioni e comportamenti di significativa rilevanza relazionale, a rileggere e reinterpretare pezzi importanti della propria storia familiare ed, infine, a contenere il vortice di emozioni e sentimenti che è collegato all’integrazione tra i passaggi appena citati e la quotidianità delle scelte da operare per sé come individui e per la famiglia come sistema di riferimento.<br />Quanti lavorano con gli adolescenti sanno riconoscere nei loro comportamenti trasgressivi e, a volte, sintomatici o devianti un tentativo, indubbiamente incongruo, di favorire una riorganizzazione della rete di relazioni familiari.<br />Quanto più le azioni degli adolescenti sono sentite come un attacco e una contrapposizione, tanto più, rubando un’espressione tipica del mondo dello sport, gli adolescenti si comportano da “tifosi ultrà” della famiglia e, in particolare, dei genitori. Il colloquio clinico con gli adolescenti ci mette infatti nelle condizioni di cogliere come dietro i loro comportamenti si celi il desiderio, umanamente comprensibile, di aiutare i genitori ad acquisire la capacità non solo di favorire ed accettare la crescita dei figli, ma anche di utilizzare i nuovi spazi di libertà che ne conseguono, in modo da migliorare ed arricchire lo stile di vita individuale e di coppia. In sintesi, l’adolescente pensa onnipotentemente che per poter crescere deve prima far crescere i propri genitori.<br />In questa fase del ciclo vitale della famiglia, se la coppia non è in grado di cominciare a reinvestire le risorse su di sé e sulla coniugalità, ne deriva un ritardo e, forse più spesso, un blocco dei processi evolutivi tipici di questa fase di vita. In questo caso, i conflitti generazionali assumono significati differenti: non sono più segnali e spinte ad un cambiamento del sistema, bensì si caratterizzano come “tracce” via via dislocate lungo il percorso di vita dagli adolescenti, che in tal modo si trasformano in tanti “Pollicino”.<br />La particolarità sta nel fatto che questi adolescenti finiscono per disseminare il tracciato di segnali via via più consistenti, mano a mano che registrano una difficoltà o un’incapacità degli adulti a riconoscere nei loro comportamenti conflittuali e trasgressivi le tracce di una richiesta di aiuto e di una richiesta di cambiamento. In genere, partendo da comportamenti trasgressivi contenuti, che divengono però sempre più consistenti, realizzano una sorta di messa alla prova, non solo dei genitori, ma anche degli altri adulti che incontrano presso le diverse agenzie educative (scuola, associazionismo, sports vari, ecc.). Viene così messa alla prova la capacità del mondo degli adulti di cogliere e saper leggere il senso delle “tracce” degli adolescenti.<br />Pertanto, se l’adulto non sarà in grado di “vederle”, l’adolescente si vedrà costretto ad aumentare la consistenza delle “tracce” stesse, fino a che non ne verrà riconosciuta la presenza. Non è difficile cogliere che in caso di perdurante “cecità” degli adulti, l’adolescente correrà il rischio di perdere il controllo di tale meccanismo, per cui metterà in campo trasgressioni così importanti, da mettere in serio rischio la propria vita, sia in termini di incolumità fisica (droghe, comportamenti suicidari, giochi ad alto rischio con motorini o macchine) che psicologica (insorgenza di gravi sintomi, che assumono caratteristiche invalidanti se non correttamente e tempestivamente trattati).<br />Partendo da questa considerazione, appare fondamentale che gli operatori psicogiuridici che incontrano la devianza minorile riescano ad utilizzare l’evento critico come occasione per una comprensione del contesto familiare in cui si inserisce.<br />Occorre, cioè, strutturare un lavoro che si rivolga sia al minore-reo, sia alla sua famiglia, allo scopo di dare un senso più articolato e complesso al comportamento del minore stesso e anche di fornire un supporto alla famiglia per riflettere sulla vicenda in atto e sui nessi e i collegamenti che questa ha con la pregressa storia familiare. In sintesi, l’obiettivo principe è quello di fornire un’opportunità alla famiglia di riprendere in mano il proprio destino e di diventare protagonista del proprio cambiamento, a partire da un “incidente” e da un momento così pesante di difficoltà.<br />L’incontro tra la Giustizia e la famiglia potrà però divenire occasione di rilancio del processo evolutivo soltanto se gli operatori della Giustizia saranno in grado di uscire dalla già citata dicotomia aiuto/controllo.<br />Pertanto, per avvicinarsi in modo corretto alla devianza minorile è necessario mettere in campo un articolato programma di intervento di recupero, che parta da queste due considerazioni:</span></p> </div> <ol style="font-family:arial;"> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">non è di alcuna utilità, per gli attori coinvolti nella soluzione di un evento conflittuale e nella valutazione degli effetti di un comportamento socialmente deviante, operare attraverso un inasprimento delle pene e una sorta di accanimento punitivo nei confronti del colpevole. L’esperienza ci insegna che un tale comportamento da parte del sistema giudiziario produce in realtà una spirale negativa, che si caratterizza per un incremento della devianza a seguito dell’aumento della punizione.<br /></span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">L’inutilità di tale meccanismo è confermata dal fatto che a volte ci imbattiamo in famiglie che, avendo una percezione amplificata di una propria incapacità ad educare i propri figli, finiscono per delegare alla Giustizia l’individuazione delle regole comportamentali da insegnare loro e la definizione delle “punizioni” da applicare in caso di trasgressione. Come dire che queste famiglie riconoscono alla Giustizia una componente di aiuto, ma solo e soltanto attribuendo ad essa una funzione sanzionante, tipica del modello “retributivo”, dove ad ogni reato va combinata una sanzione/pena. Questo modello di Giustizia e la richiesta operata dalla famiglia pertanto colludono nel rifiuto di individuare prima e di comprendere poi i significati che stanno dietro i comportamenti trasgressivi o devianti.<br /></span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Altrettanto pericoloso o negativo è agire all’interno di una logica esclusivamente assolutoria; difatti, anche in questo caso, si perderebbe l’occasione per ricercare il significato relazionale del comportamento deviante in esame. Sappiamo che se nell’adolescente si fa strada l’idea che, attraverso la conciliazione frutto dell’intervento di mediazione, si può evitare la punizione e si riesce quindi a “farla franca”, si rinforzerà in lui la convinzione che il mondo degli adulti non è in grado di comprendere il significato più profondo dei suoi comportamenti. Gli adulti, nuovamente, dimostreranno di non saper rilevare la presenza delle “tracce” lasciate dal “Pollicino” di turno e, soprattutto, confermeranno nell’adolescente l’idea di una loro incapacità a leggere in tali “tracce” una richiesta, incongruamente manifestata, di aiuto e di cambiamento. Inoltre, è evidente che, quando un adolescente percepisce di aver ingannato un adulto, oltre a sentire amplificata la propria idea di “onnipotenza”, si troverà a rinforzare il senso di sfiducia verso il mondo dei grandi e ciò determinerà l’instaurarsi o l’accentuarsi di un crescente livello di insicurezza personale. La domanda sarà: chi mi può aiutare? Se la risposta sarà: nessuno! Non gli rimarrà che sperare di farcela da solo, utilizzando unicamente le proprie energie. Infine, spesso si osserva un atteggiamento collusivo da parte della famiglia del minore-reo, sostenuto dalla contemporanea presenza del desiderio di sfuggire alla condanna da parte dell’adolescente e del desiderio di cancellare la colpa e la vergogna ad essa correlate da parte della famiglia. Tra l’altro tale evenienza conferma la necessità di predisporre un progetto che non si limiti al recupero del minore, ma che allarghi il raggio di intervento all’intero sistema familiare.</span></div> </li> </ol> <div align="justify" style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;">Queste due considerazioni vanno integrate con un’ulteriore necessaria ed indispensabile constatazione: che gli effetti dei comportamenti devianti e le pene ad essi correlati determinano degli effetti non solo sul minore, ma anche sull’intero sistema familiare. Basti pensare, difatti, al fatto che nessun componente della famiglia rimane fuori dai meccanismi che vanno ad innescarsi in seguito all’impatto tra l’adolescente colpevole e la Giustizia. Quanti hanno esperienza in questo campo non possono non aver osservato quali siano i risvolti di tale impatto sulla relazione all’interno della coppia genitoriale e sulle relazioni all’interno del sottosistema fratelli, qualora presente. Non sarà stato difficile constatare, ad esempio, come coppie affettivamente separate abbiano riallacciato una relazione legata all’obiettivo di affrontare le difficoltà del figlio; oppure come vi siano stati dei movimenti relativi alle attribuzioni che ogni genitore ha assegnato agli altri figli, per tollerare la delusione nei confronti del figlio colpevole.<br />Prima di passare alle considerazioni sull’uso della mediazione penale, mi preme porre un interrogativo: è utile tenere distinta la fascia di età dell’adolescenza biologica, che si fa rientrare nell’ambito del procedimento penale minorile, dalla successiva fase della vita, nella quale rientrano coloro che definiamo “giovani adulti”? Si tratta di giovani individui che hanno sì completato i processi biologici della crescita tipica dell’adolescenza, ma che in realtà non hanno ancora acquisito un pensiero adulto, che sappiamo appartenere ad una fase successiva della vita. Ritengo e penalizzante e fuorviante considerare detti giovani tout court come degli adulti, in quanto sappiamo che spesso fanno ancora parte di un sistema familiare che piuttosto che facilitare l’autonomia rinforza la dipendenza. Pertanto, i comportamenti devianti possono considerarsi una sorta di sintomi di tale blocco del processo evolutivo familiare.<br />Le riflessioni fin qui proposte ci aiutano a comprendere come, nel campo del procedimento minorile, occorra integrare due strumenti di intervento: la mediazione penale, da un lato, e il supporto al sistema famiglia, dall’altro.<br />Il ricorso alla mediazione nasce dalla necessità di attribuire agli individui attori del conflitto un ruolo attivo, che consenta loro di pervenire innanzitutto ad una ridefinizione dei problemi e in secondo luogo ad una riaffermazione delle proprie sfere di autonomia e di potere, a fronte di schematizzazioni rigide, tipiche del diritto tradizionale.<br />Come ricorda Giuseppe Mosconi (2000), “il diritto penale è strutturalmente orientato a fissare i fatti in una dimensione statica ed astratta in quanto schematizzati nella fissità del suo strumentario. Tende infatti, come è noto, per sua natura, a definire responsabilità, ad irrogare sanzioni, da una posizione di superiorità della Legge e del Giudice rispetto alle parti”(pag.10). La mediazione rappresenta invece “un processo dinamico all’interno della concreta situazione che si è creata in seguito al compimento del reato: essa dà vita ad un accordo di cui le parti sono direttamente protagoniste, con la sola azione promotrice e di arbitraggio esterna del mediatore” (op. cit.). La sanzione è quindi sostituita dal “carattere riparatorio e riconciliatore delle prestazioni concordate secondo norme non codificate, ma costruite in itinere nella contrattazione e nello scambio tra le parti” (op. cit.).<br />Mentre il diritto penale si riferisce ad un fatto accaduto, quindi cerca di scoprire la verità, la mediazione fa invece emergere una verità in corso, attraverso il confronto tra le parti. Il vero elemento nuovo è pertanto la dialettica che si sviluppa tra i due soggetti in conflitto.<br />Potremmo dire che dopo un processo di mediazione, nel corso del quale avviene un confronto tra i personaggi coinvolti, al di là dei risultati, ovvero anche in caso di insuccesso, la situazione e l’ambito delle relazioni non potranno più essere gli stessi di prima, nel senso che i protagonisti non potranno più fare a meno, pur se bloccati nella propria ricostruzione degli avvenimenti, di considerare l’esistenza di un’altra modalità di ricostruire gli avvenimenti e di percepire la realtà.<br />L’attività di mediazione “si configura come un’attività realizzata da un terzo equidistante, finalizzata a rendere possibile una comunicazione tra due parti che sono in conflitto, su posizioni contrapposte (...) È una modalità di regolazione dei conflitti che non si sostituisce alla giurisdizione, ma che può costituire una risorsa operativa da essa utilizzabile (...) Mette a confronto diretto reo e vittima e favorisce la comprensione delle reciproche posizioni: il reo è aiutato a comprendere gli effetti prodotti dal reato sulla vittima, la vittima trova un contesto che accoglie le sue emozioni e che le consente di interagire con il reo” (Commissione Nazionale, 1999). Pertanto la mediazione realizza l’obiettivo di spostare l’attenzione dal reato e dal reo anche sulla vittima.<br />Appare superfluo precisare che essa si basa su due principi:<br />• “l’ammissione di colpevolezza e di responsabilità da parte del minore e la sua disponibilità ad incontrarsi con la vittima;<br />• la libera disponibilità della vittima ad incontrarsi con l’autore del reato.<br />Nel processo di mediazione la vittima è considerata quale soggetto e non come semplice beneficiario di un eventuale risarcimento materiale. Il risarcimento materiale è solo un aspetto della riparazione, che ha anche contenuti di tipo psicologico e morale” (Commissione Nazionale, 1999).<br />La mediazione è un’importante opportunità per il reo di diventare parte attiva in un’azione positiva, nel senso che, realizzando la riconciliazione con la vittima, compie un salto di qualità che lo porta ad oltrepassare la condizione che inizialmente lo definiva esclusivamente come parte attiva di un’azione negativa in quanto autore di un reato.<br />Quando parliamo di conflitto ci riferiamo, ovviamente, sia a quello che precede il reato, sia a quello che sempre e comunque consegue all’azione deviante.<br />Ogni conflitto non affrontato e non gestito con la dovuta attenzione crea una situazione di malessere, che a sua volta, attraverso una spirale negativa, genera altra sofferenza, fino a far degenerare il comportamento della persona.<br />La mediazione tra reo e vittima, intesa come modalità responsabilizzante, può dare la possibilità al minore di rielaborare l’esperienza ancora concreta del reato e ragionare sulle sue conseguenze. Proprio attraverso il diretto contatto con la vittima, il minore può riconoscere, con l’aiuto del mediatore, la sofferenza che ha causato e spiegare all’altra parte le motivazioni che lo hanno indotto a commettere il reato.<br />La mediazione può essere uno strumento utile a riempire di significati tangibili qualsiasi soluzione processuale, tanto per la vittima quanto per l’imputato, un momento di incontro, un luogo di comunicazione in cui i protagonisti hanno la possibilità di esprimere i propri sentimenti e le loro valutazioni sul fatto che li coinvolge.<br />Difatti, “il conflitto è anche una risorsa, che indica che le persone hanno voglia di essere entrambe attive. È un segno di partecipazione attiva alla vita comunitaria, alla vita di relazione. La mediazione va ad attivare le potenzialità di ciascuno, in quanto il mediatore non suggerisce nessuna soluzione, ma attiva le capacità delle parti di essere protagoniste nella soluzione del conflitto, come protagoniste sono state nel farlo nascere” (Springhetti e Atzei, 1999).<br />Offre la possibilità di riprendere la comunicazione che con il fatto si è interrotta. Permette non tanto di esorcizzare il conflitto, ma di saperlo gestire in modo costruttivo.<br />Il conflitto, difatti, fa parte della realtà umana e non bisogna erroneamente credere che entrando nella sfera giuridica si eviti ogni possibilità di conflitto; si entra piuttosto in una sfera in cui i conflitti sono riconosciuti come leciti e in cui esistono le regole per risolverli.<br /></span> </p> <p><span style="font-size:100%;"><b>2° PARTE</b><br />Nella giornata di ieri abbiamo affrontato il tema del conflitto dal punto di vista teorico. Nella sessione di oggi prenderemo in esame le modalità di trattarlo sia nel campo della separazione e divorzio, sia in quello del procedimento penale, con particolare riferimento a quello minorile.<br />Nel campo della <b>separazione coniugale</b> abbiamo visto che l’intervento sul conflitto si realizza attraverso la Consulenza Tecnica d’Ufficio disposta dal Giudice.<br />Poiché sappiamo che la mediazione familiare, intesa come intervento, per essere definita tale necessita di alcune condizioni di cornice, quali la volontarietà della scelta da parte degli utenti e una collocazione in abito extragiudiziale, essa non può essere proposta in ambito peritale. Il consulente utilizza però il corpus di tecniche che appartengono al processo di mediazione, oltre che la sua funzione mediativa.<br />Per quanto riguarda le modalità di intervento in questo campo si rinvia nuovamente all’articolo di Mattucci e Pappalardo già citato (2001).<br />In questa sede voglio soltanto soffermarmi su un passaggio essenziale della Consulenza, che attiene alla funzione di controllo e alla funzione di sostegno propria del Consulente. Queste due funzioni sono inizialmente appannaggio di due professioni differenti: quella del Giudice e quella dello psicologo giuridico.<br />L’impianto sistemico-relazionale della Consulenza Tecnica vede questi due operatori della Giustizia in una significativa collaborazione, che ci porta a definire il Giudice come un co-mediatore del Consulente. Quest’ultimo si troverà pertanto a sviluppare la funzione di sostegno e di supporto al sistema famiglia all’interno del contesto giudiziario. Come dire che la funzione di sostegno, attivata dal conflitto coniugale che si esprime attraverso la discordia genitoriale, verrà resa più forte dal contesto di controllo in cui essa si esplica e che, anche se viene esercitata dal solo Consulente, è resa però possibile dalla presenza simbolica del magistrato.<br />Il rapporto tra controllo e sostegno cambia da situazione a situazione ed è collegato al consenso che i due genitori, eventualmente sostenuti dai consulenti di parte, riusciranno ad esprimere negli incontri peritali. Difatti, ad esempio, se l’intervento realizzato comincerà a dare risposte concrete e soluzioni plausibili, l’aspetto di controllo andrà gradualmente a collocarsi sullo sfondo e prevarrà nettamente la funzione di sostegno.<br />È questa coabitazione tra controllo e sostegno che permette al sistema Giustizia di aiutare il sistema famiglia a riprendersi la responsabilità genitoriale e la competenza di risolvere quelle questioni, quei conflitti e quelle problematiche la cui soluzione aveva invece inizialmente “trasferito” sulla Giustizia.<br />In <b>ambito penale</b>, nella fattispecie nel campo penale minorile, abbiamo sottolineato l’importanza che l’intervento preveda un’integrazione tra la mediazione penale e il sostegno al sistema famiglia.<br />Attraverso la mediazione si intende perseguire l’obiettivo di passare da un’ottica retributiva ad un’ottica riparativa e riconciliativa.<br />“Il riconoscimento da parte del minore della propria responsabilità del fatto-reato, consente di agevolare la comprensione del reato nei suoi aspetti relazionali e non soltanto come astratta violazione di una norma (…) La mediazione potrà dirsi conclusa con successo quando entrambe le parti avranno sviluppato una visione nuova del fatto, arricchita dalla dimensione cognitiva ed emotiva dell’altro”. (Coordinamento Nazionale, 1999)<br />Va sottolineata l’importanza dell’attribuzione di significato al reato, al fine della presa di coscienza e della responsabilizzazione del suo autore. Il processo di mediazione permette la realizzazione di questa finalità, in quanto mette il minore faccia a faccia con il danno e il dolore subiti dalla vittima, “invece che con delle rappresentazioni più o meno astratte dello stesso. Ovviamente ciò non deve comportare la strumentalizzazione della vittima al fine di rieducare il minore” (Coordinamento Nazionale, 1999).<br />Un passaggio fondamentale è che il minore sia supportato preventivamente “in un percorso di rielaborazione dell’esperienza penale. Tale percorso implica uno sviluppo sul piano cognitivo e comporta anche una rielaborazione del fatto penale” (Coordinamento Nazionale, 1999).<br />Va sottolineata l’importanza dell’attribuzione di significato al reato, al fine della presa di coscienza e della responsabilizzazione del suo autore. Il processo di mediazione permette la realizzazione di questa finalità, in quanto mette il minore faccia a faccia con il danno e il dolore subiti dalla vittima, “invece che con delle rappresentazioni più o meno astratte dello stesso. Ovviamente ciò non deve comportare la strumentalizzazione della vittima al fine di rieducare il minore” (Coordinamento Nazionale, 1999).<br />Un passaggio fondamentale è che il minore sia supportato preventivamente “in un percorso di rielaborazione dell’esperienza penale. Tale percorso implica uno sviluppo sul piano cognitivo e comporta anche una rielaborazione del fatto penale” (Coordinamento Nazionale, 1999).<br />Dall’altra parte va tenuta in analoga considerazione la situazione della persona offesa dal reato, in quanto ha lo stesso bisogno sia di essere riconosciuta, sia di rielaborare la vicenda penale, sia infine di essere accompagnata emotivamente a prendere in considerazione l’ipotesi di attivare il processo di mediazione e soprattutto di accettare di incontrare successivamente il reo.<br />La vittima difatti sarà oppressa da una cascata di sentimenti, quali l’insicurezza, la paura, il disagio e infine la naturale rabbia provocata dal reato: solo aiutando la vittima ad esprimere ed elaborare tali sentimenti sarà possibile aiutarla anche a prendersi carico del conflitto, accettando così di inserirsi in un percorso mediativo.<br />“La mediazione permette la presa in carico del conflitto in un tempo prossimo al momento del fatto-reato, evitando così di generare il sentimento di sfiducia ed impazienza determinato dai lunghi tempi della Giustizia” (Coordinamento Nazionale, 1999).<br />Il mediatore, come si può facilmente intuire, è chiamato ad intervenire su vari ambiti; l’obiettivo centrale è consentire che due o più soggetti in conflitto, utilizzando uno spazio – terzo, possano attivare una comunicazione tra loro così da modificare una relazione che, allo stesso tempo, li unisce e li divide.<br />“Il mediatore è quindi un facilitatore della comunicazione, non deve sostituirsi alle parti, ma deve consentire a queste ultime di trovare un modo diverso di comunicare e una visione del conflitto che includa anche la visione dell’altro. Si tratta, quindi, di passare dall’oggettività dell’evento alla soggettività (inter-soggettività) del vissuto” (Coordinamento Nazionale, 1999). Presupposto per modificare la relazione tra le parti è la realizzazione di un contesto accogliente in cui sia il reo che la vittima possano sentirsi riconosciuti e possano di conseguenza esternare l’un l’altro la propria sofferenza.<br />“Il mediatore permette ai sentimenti che sono sotto l’iceberg del conflitto di venir fuori ed essere riconosciuti e accolti, sia quelli di rabbia e/o di depressione della vittima, sia i sensi di colpa del reo” (Coordinamento Nazionale, 1999).<br />Caratteristica della mediazione in ambito penale è l’asimmetria tra le parti rispetto al conflitto, in quanto l’aver subito un torto e l’aver creato un danno stabiliscono una differenza che deve essere riconosciuta. È poi da valutare la natura del conflitto, che si configura come reato e quindi richiede un intervento giudiziario, garantito dall’obbligatorietà dell’azione penale e implica che il mediatore si muova costantemente in collegamento con i vari soggetti istituzionali che garantiscono interventi nei confronti dei minori, quali l’autorità giudiziaria, gli operatori dei Servizi Minorili della Giustizia e del territorio e gli avvocati.<br />Un elemento di dibattito tra gli addetti ai lavori è quello relativo alla sede della mediazione: alcuni sostengono che debba realizzarsi in ambito strettamente extragiudiziale, altri ritengono preferibile che si effettui presso l’Ufficio di Servizio Sociale presente presso il Tribunale per i Minori.<br />Giuseppe Mosconi (2000) distingue, secondo lo schema seguente, diverse tipologie di mediatori, definibili in rapporto alla loro collocazione rispetto alle Istituzioni: </span></p> </div> <ul style="font-family:arial;"> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">“Interno al diritto penale, facente cioè organicamente parte del sistema penale, come articolazione della procedura e della struttura giudiziaria</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Istituzionale-professionale, facente cioè parte comunque di un apparato amministrativo, anche se radicato in un settore istituzionale diverso da quello giudiziario</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Istituzionale-elettivo, eletto cioè da una realtà territoriale definita, con il compito di rispondere agli interessi nella stessa diffusi</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Non istituzionale, proposto da associazioni o enti impegnati nella promozione della mediazione, indipendentemente, almeno in una fase iniziale, dal suo riconoscimento istituzionale</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Informale, nominato direttamente dalle parti per risolvere il conflitto che le oppone “</span></div> </li> </ul> <div align="justify" style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;">A mio parere, coerentemente con l’analisi fin qui svolta, è più utile immaginare una diversificazione dell’intervento di supporto al minore e alla sua famiglia: il processo di mediazione potrà avvenire preferibilmente in ambito extragiudiziale, anche se nulla mi sembra pregiudichi uno spostamento presso l’Ufficio dei Servizi Sociali, ma la prima fase dell’intervento di supporto e sostegno al sistema famiglia ha senso solo se realizzato presso il citato Ufficio dei Servizi Sociali collegato al Tribunale per i Minori. Tale scelta appare obbligata, in quanto diversamente verrebbe meno quella sintesi tra sostegno e controllo che abbiamo già descritto a proposito dell’intervento sul conflitto tra genitori separati in ambito giudiziario. Solo nel caso vi sia un’indicazione ad una terapia familiare o ad un altro intervento terapeutico, il minore e la sua famiglia potranno essere inviati ad altro servizio pubblico o privato.<br />Non possiamo infatti sottovalutare che, allorché i comportamenti conflittuali giungono all’attenzione della Giustizia, il più delle volte accade che il problema oggetto della controversia, o che ha determinato il comportamento deviante, rimane non affrontato e irrisolto. Chiunque potrà rilevare quanto spesso accada che, dopo la sentenza emessa dal Giudice, pur essendo definiti sia l’autore del reato che il diritto della vittima di essere risarcita, rimanga non affrontato e tantomeno ricomposto il conflitto tra le parti in causa. Rimangono cioè non affrontati i temi relativi al reo e alla vittima come persone, ovvero rimane senza risposta la domanda: chi è la persona-reo, chi è la persona-vittima? Non ci si preoccupa cioè dei risvolti emotivi che il reato ha provocato in entrambi ed in particolare nella vittima.<br />Tornando al sostegno al sistema famiglia, ritengo che esso sia indispensabile per evitare che la mediazione vada a configurarsi unicamente sia come la via di uscita dal sistema retributivo, sia come la possibilità di evitare un blocco maturativo del minore a causa dell’eventuale espiazione della pena inflittagli in sede processuale. Difatti, solo la possibilità di dare un significato al comportamento deviante del minore fa sì che la famiglia riesca a riprendersi i compiti educativi ed affettivi che le competono, quando ciò è ovviamente ancora possibile.<br />L’idea guida che accompagna questo duplice intervento parte dalla considerazione che l’approccio con la Giustizia può essere un’occasione significativa e a volte unica, anche se tutti ovviamente ne farebbero volentieri a meno, per fornire un aiuto ad un sistema familiare che, manifestando un comportamento deviante, ha messo in luce una difficoltà e a volte un’incapacità ad affrontare e risolvere al suo interno problematiche proprie del funzionamento familiare.<br />Per evitare di correre il rischio di proporre a tutta la famiglia un lungo e certamente poco tollerato iter terapeutico, a volte tra l’altro non proponibile a causa di una carente consapevolezza circa i problemi che hanno determinato l’insorgere del comportamento deviante, può essere utile ipotizzare degli interventi di sostegno alternativi, a cavallo tra le funzioni terapeutiche e quelle pedagogiche. Ad esempio, sarebbe interessante predisporre un progetto di sostegno così articolato:<br />• un breve ciclo di incontri con tutta la famiglia;<br />• l’inserimento del minore in gruppi di discussione;<br />• l’inserimento dei genitori in percorsi gruppali di riflessione;<br />• verifica a distanza dei cambiamenti avvenuti e del recupero o meno di una processualità evolutiva.<br />In sintesi, l’approccio al conflitto nelle sue diverse espressioni è di tipo clinico, nel senso che vengono utilizzati alcuni degli strumenti tipici di una relazione di aiuto, senza però sconfinare in un approccio terapeutico. In altre parole, l’obiettivo dell’operatore giuridico è quello di offrire agli attori impegnati nella controversia una lettura articolata di alcuni dei passaggi più conflittuali. </span></p> <p> </p> <p style="font-weight: bold;"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span> </p> </div> <ul style="font-family:arial;"> <li><span style="font-size:100%;">Busso, P. (1999) “La sfida ecologica del conflitto”. In: Maieutica. La sfida ecologica del conflitto, 9,10,11, 16-22Commissione Nazionale Consultiva e di Coordinamento per i rapporti con le Regioni e gli Enti Locali, “L’attività di mediazione nell’ambito della giustizia penale minorile. Linee di indirizzo”, Roma, febbraio 1999</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Esposito, E. (1996) “La mediazione penale minorile: aspetti, problemi e prospettive in una visione di tipo sistemico”. In: Diritto & Diritti – Electronic Law Review, Ragusa 1996</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Mattucci, A., Pappalardo, L. (2001) “Tecniche di mediazione in ambito peritale”. In: Maieutica. Professione mediatore, 15, 16, 21-38</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Moravia, S. (1999) “Dal soggetto alla relazione. Uomo, conflitto, mediazione in una prospettiva sistemica”. In: Maieutica. La sfida ecologica del conflitto, 9,10,11, 34-50</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Mosconi, G. (2000) “La mediazione. Questioni teoriche e diritto penale”. In: Pisapia G. (a cura di) (2000) Prassi e teoria della mediazione. Padova: Cedam, 3-26</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Springhetti, P., Atzei, P. (1999) (a cura di) “Mediatori per la giustizia”. In: Rivista del volontariato, 9, 1999 </span></li> </ul> <p style="font-family: arial;" align="justify"> </p>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-29864163183382249632007-04-06T21:58:00.000+01:002008-12-09T00:02:37.890+01:00USO DI TECNICHE DI MEDIAZIONE NELLA CONSULENZA TECNICA DI PARTE<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSaqpu20P3FkVuWag9_iNlcbLWFQuhqAuxxBUHgVYTwrTh-EAgNUeYE9IdVTdoSxRm9v7HwpBYi0eL6ddxC0rVTi-sQRElCi7Q72XFK-Qb5bAJiqN362tmeVGdi_LMdIPD87w9EP75zPo/s1600-h/6.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSaqpu20P3FkVuWag9_iNlcbLWFQuhqAuxxBUHgVYTwrTh-EAgNUeYE9IdVTdoSxRm9v7HwpBYi0eL6ddxC0rVTi-sQRElCi7Q72XFK-Qb5bAJiqN362tmeVGdi_LMdIPD87w9EP75zPo/s320/6.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050423180567964146" border="0" /></a><span style="font-weight: bold; font-family: arial;">Alessandra Zampiron</span></span> <p style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;">Allieva Didatta A.I.M.S. Istituto Veneto di Terapia Familiare<br />Treviso, Padova, Vicenza <a href="mailto:aldomattucci@libero.it">aldomattucci@libero.it</a><br /></span> </p> <div style="font-family: arial;" align="justify"> </div> <div style="font-family: arial;" align="justify"><div align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"> Questa comunicazione ha l’obiettivo di mostrarvi un modo per interconnettere, nel lavoro di Consulente Tecnico di Parte, la funzione di aiuto al genitore che sta vivendo la crisi della separazione coniugale, e con lui all’intera famiglia, all’utilizzo di tecniche di mediazione, proprio in quelle situazioni che vengono definite “non mediabili” e accedono dunque alla Giustizia e al professionista nel campo della separazione e divorzio attraverso la richiesta di una Consulenza Tecnica.<br />L’idea guida è quella di riuscire a realizzare, nel concreto e a partire da un contesto di aspra discordia, quella protezione della co-genitorialità che viene considerata elemento critico ed indispensabile per salvaguardare il benessere emotivo dei minori.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Introduzione</b><br />La mediazione familiare, nell’ambito della separazione e del divorzio, si configura come “un percorso di aiuto alla famiglia prima, durante e dopo la separazione o il divorzio, che ha come obiettivo quello di offrire agli ex coniugi un contesto strutturato e protetto, in autonomia dall’ambiente giudiziario, dove poter raggiungere accordi concreti e duraturi su alcune decisioni, come l’affidamento e l’educazione dei minori, i periodi di visita del genitore non affidatario, la gestione del tempo libero, la divisione dei beni” (Regolamento A.I.M.S., art. 1).<br />La mediazione familiare sistemica “tenendo conto dell’intero sistema familiare, propone una lettura complessa della dinamica relazionale che ruota intorno al conflitto e adotta un approccio interdisciplinare, sollecitando il dialogo e la sinergia operativa tra figure professionali di ambito diverso, psicologico, giuridico e sociale” (Regolamento A.I.M.S., art. 1-1).<br />Come ben si coglie dalle succitate linee di indirizzo, la mediazione è un intervento che necessita di alcune precise condizioni di cornice per essere definita tale, prime fra tutte la volontarietà della scelta degli utenti e l’autonomia dall’ambiente giudiziario.<br />Per questi motivi parlerò di “uso di tecniche di mediazione” e di “funzione mediativa” anziché di “mediazione” in senso stretto, consapevole del fatto che “parlare di mediazione rimanda, sia nel linguaggio comune che nel gergo degli operatori, ad una competenza propria dell’operatore e all’utilizzo di un corpus di tecniche connesse al lavoro in mediazione familiare” (Mattucci e Pappalardo, 2001).<br />Non parlerò dunque dell’utilizzo della mediazione in senso stretto, ma ne utilizzerò i contenuti, quali strumenti di controllo del processo, modalità di gestione del conflitto e tecniche di negoziazione. Ciò che mi guida nell’approccio con il cliente è ben descritto da Busso (1998): “la mediazione si pone nel campo della crescita, anche se può essere praticata da professionisti della terapia. Le coordinate della crescita saranno quindi la programmazione degli obiettivi, la ricerca dell’incremento delle opzioni a disposizione, la scoperta di risorse personali nascoste, la ristrutturazione di risorse personali coscienti, l’apprendimento di nuove abilità” (pag. 20). Come dire che l’obiettivo ultimo è quello di aiutare gli attori della discordia ad utilizzare costruttivamente gli effetti familiari della separazione, senza cioè rimanere imprigionati negli aspetti più deleteri e distruttivi della stessa.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>L’intervento sistemico-relazionale in ambito peritale</b><br />La mediazione familiare è un tipo di intervento che ha sviluppato tecniche e metodologie particolareggiate, che hanno l’intento di promuovere le negoziazioni all’interno di una coppia in via di separazione. Condizione basilare è che i due genitori “riconoscano il bisogno reciproco di coordinare azioni e idee anziché di contrapporle, per raggiungere un accordo e concordare un progetto che risulti accettabile e percorribile per le persone implicate” (Cigoli, Galimberti e Mombelli, 1988, 9). In mediazione il potere decisionale resta dunque alla coppia e il compito del mediatore è non solo quello di facilitare l’accordo, attraverso la definizione dei problemi e l’analisi delle diverse soluzioni possibili, ma anche quello di avviare la famiglia verso una nuova riorganizzazione, sottolineando che con la separazione i legami familiari non finiscono, ma necessitano di una ristrutturazione: ciò che continuerà a legare i due ex coniugi, anche dopo la separazione, è la genitorialità e l’esercizio congiunto delle funzioni genitoriali è l’auspicabile risultato di qualsiasi intervento nel campo della separazione e del divorzio.<br />La mediazione non risulta però proponibile a tutte le coppie che si ritrovano ad avere contrasti relativamente all’affidamento dei figli: esistono infatti coppie definite “non mediabili”, per le quali non vi è indicazione alla mediazione.<br />Sono coppie generalmente caratterizzate da un alto conflitto interno e da una scarsissima cooperazione e fiducia reciproca, per le quali proprio il mantenimento della lite e della discordia rappresenta spesso un incistato vincolo reciproco, che impedisce ad entrambi la separazione emotiva. Oppure si tratta di genitori che mirano ad escludere l’altro e l’altra stirpe dalla vita dei figli; oppure ancora sono coppie in cui il conflitto ha determinato il disinteresse pressoché totale di uno dei due genitori nei confronti dei minori.<br />In tutti questi casi la coppia non trova in sé le risorse per riuscire a traghettare la genitorialità al di là della rottura coniugale e la forte discordia, che mina pesantemente la condivisione della genitorialità, finisce per rappresentare un forte, fortissimo rischio di danno anche e soprattutto per i minori, che non possono godere di un ambiente familiare che sia in grado di supportare e sostenere la loro crescita psicologica in modo congruo ed adeguato.<br />Come ricordano Cigoli e Pappalardo (1997), “di fronte al divorzio le relazioni familiari vivono un vero e proprio travaglio da cui sia i genitori, sia i figli, possono uscire con il sentimento di un dolore trattato, di un lavoro compiuto e con il rilancio della speranza nella relazione, oppure con il sentimento di un dolore cieco, di un’ingiustizia profonda subita e di una disperazione sostanziale nella relazione” (pag. 6). È oramai noto che il “buon” esito di un divorzio dipende dalle modalità con cui gli ex coniugi e le famiglie d’origine trattano la storia coniugale e la sua fine e dalla modalità con cui, mentalmente, ciascun figlio tratta la rottura matrimoniale dei genitori.<br />Delle coppie che si separano, una parte riesce a risolvere con le proprie risorse le problematiche legate al “lutto del divorzio” (Emery, 1994), un’altra parte riesce ad accedere ad interventi di mediazione e il restante numero, quelle a più alta conflittualità, arriva alla Giustizia, delegando al Giudice, e per mano sua agli esperti, la necessaria ristrutturazione delle relazioni familiari post-separazione.<br />Questo è naturalmente il campo di applicazione del Consulente Tecnico, in quanto sono proprio quelle situazioni che abbiamo definito “non mediabili” che giungono alla Giustizia con una richiesta di Consulenza Tecnica, estroflettendo sul sociale, nello specifico sugli organi giuridici, un problema relativo allo scambio generazionale, che non sono in grado di affrontare con le proprie energie. Attraverso un processo di transfert sulla Giustizia la famiglia inconsapevolmente demanda dunque ad un terzo, il Giudice, la risoluzione di un conflitto che altrimenti non troverebbe possibilità di superamento (Cigoli e Pappalardo, 1997).<br />La Consulenza Tecnica ad orientamento sistemico-relazionale ha lo scopo di “utilizzare in senso clinico il contesto consulenziale supportando il lavoro delicato e difficile del Giudice, così come di sostenere, anche nelle situazioni di grave discordia tra ex coniugi o di abbandono del campo da parte di uno di loro, l’esercizio delle funzioni genitoriali, perché lì, come ben evidenzia l’etimo, si gioca il dilemma generatività-degeneratività” (Cigoli e Pappalardo, 1997, 8).<br />Attraverso l’incontro con gli ex coniugi, i loro figli e le loro famiglie d’origine, il Consulente Tecnico che lavora secondo un ottica sistemico-relazionale ricerca i temi narrativi e i nuclei affettivi, ricostruisce la storia familiare e analizza la presenza di risorse e aree di rischio, in modo da ricreare il senso complessivo e plausibile della vicenda familiare e da valutare il rapporto tra risorse e pericoli generazionali.<br />In sintesi, la Consulenza Tecnica ad orientamento sistemico-relazionale “sposta l’attenzione dalla diagnosi di personalità e dalla ricerca di disturbi psicopatologici nei genitori e nei figli, alla considerazione di ciò che accade, nel qui ed ora, nella relazione tra le persone che compongono la famiglia, senza però negare che ci si trova in un contesto di lite e di conflitto” (Mattucci e Pappalardo, 2001).</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>L’intervento del Consulente Tecnico di Parte secondo l’ottica sistemico relazionale</b><br />I criteri guida della Consulenza Tecnica esposti nel precedente capitolo sono sostanzialmente gli stessi sia che si tratti di una Consulenza d’Ufficio, sia che si tratti di una Consulenza di Parte.<br />Vorrei però sottolineare una differenza: la Consulenza Tecnica d’Ufficio “lega il consulente sia al Giudice, sia alla storia familiare, mentre la Consulenza di Parte lega il consulente alla storia familiare e, in specifico, allo scambio generazionale” (Cigoli e Pappalardo, 1997). Il Consulente di parte si trova infatti a dover far fronte ad un doppio ordine di problematiche: innanzitutto, quelle relative al rapporto con il suo assistito, che attengono alla necessità di dare un senso e uno spazio ai nodi affettivi e ai dolori individuali, di fargli comprendere le motivazioni e i dolori dell’altro, di fornirgli una chiave di lettura delle dinamiche familiari nel loro complesso e di fargli “accettare” la positività insita nell’uscire da un’insana ottica di contrapposizione all’ex coniuge per raggiungere una più auspicabile collaborazione con l’altro genitore dei propri figli. In secondo luogo, quelle relative al rapporto con le altre figure professionali, nella fattispecie il legale, il Consulente d’Ufficio e il Consulente di controparte.<br />Purtroppo, alcuni legali inseguono la lite e la discordia e lavorano secondo un’ottica di vinti e vincitori, all’interno della quale viene spesso persa di vista la salvaguardia della condivisione della genitorialità per puntare invece al maggior vantaggio possibile per il proprio cliente, contro l’altra parte.<br />Purtroppo, alcuni Consulenti d’Ufficio organizzano la Consulenza secondo una chiave di lettura meramente diagnostica, focalizzando l’attenzione sulle modalità attuali di espressione del conflitto e tendendo ad individuare interventi finalizzati unicamente a “sollevare” il minore del peso psicologico della separazione coniugale, partendo generalmente da un inquadramento diagnostico dei genitori e commettendo spesso l’errore di “patologizzare” in tutti i casi il dolore comunque relativo alla separazione (de Bernart, 1998).<br />Purtroppo, alcuni Consulenti di parte sono come il “braccio armato” del legale e aderiscono e si invischiano negli “interessi della parte”, portando nella consulenza quella volontà di sconfiggere l’altro che danneggia il lavoro congiunto e risulta tutt’altro che protettiva della funzione genitoriale e del legame generazionale, impedendo di fatto che emergano e vengano valorizzate le risorse possibili presenti in famiglia.<br />Come non sostenere la necessità, per il Consulente di parte, di utilizzare la propria funzione mediativa e le tecniche di mediazione per far fronte ai molteplici “fuochi” a cui è sottoposto? Egli, d’altra parte, non può nemmeno godere della stessa “autorità” del Consulente d’Ufficio, come emanazione diretta del potere del Giudice!<br />Se è vero, come sostengono Cigoli e Pappalardo (1997), che “la Consulenza Tecnica d’Ufficio si situa in uno spazio ambiguo sospesa com’è tra un contesto di giudizio-valutazione e un contesto di aiuto rivolto sia al Giudice, sia alla famiglia affinché quest’ultima possa affrontare l’ostacolo di procedere al di là della fine della coniugalità o della convivenza sapendo di porre in salvo nello scambio tra le generazioni l’esercizio delle funzioni genitoriali” (pag. 17), in quale spazio ameno dovrebbe trovarsi il Consulente di parte?<br />Egli ha, come già posto in rilievo, quattro interlocutori.<br />Primo fra tutti il legale. È quasi d’obbligo fare un colloquio significativo con l’Avvocato a cui si fa riferimento prima che con il proprio assistito, allo scopo di ben definire, insieme a lui, l’ambito di lavoro, che è quello di tutelare il minore attraverso una tutela della genitorialità. Spesso la capacità di mediare è messa alla prova sin da questi primi contatti: si deve infatti mediare tra le richieste del legale, a volte poste in un ottica di “contrapposizione all’avversario”, e gli obiettivi propri della nostra funzione, che dovrebbero essere vicini alla cooperazione e al compromesso.<br />Secondo interlocutore è, naturalmente, il Consulente d’Ufficio. Anche con questi è necessario stabilire una collaborazione e mediare sugli obiettivi e sui risultati della Consulenza Tecnica. A volte è possibile, nonché auspicabile, incontrare un Consulente d’Ufficio che ha la nostra stessa formazione o che, comunque, presta un’attenzione particolare alle dinamiche familiari e ciò, indubbiamente, rende il lavoro più facile, in quanto si condivide lo stesso progetto. Altre volte però si incontrano Consulenti d’Ufficio che hanno come obiettivo l’inquadramento diagnostico dei genitori e dei minori e che si soffermano maggiormente sulle modalità attraverso cui il conflitto si è ultimamente manifestato e continua a manifestarsi, tralasciando di ricostruire la storia della coppia e la storia familiare delle persone in conflitto. In questi casi il compito del Consulente di parte è assai più arduo, perché deve trovare il modo di introdurre nei lavori peritali quelle tematiche familiari abitualmente tralasciate, in una forma che sia il più possibile rispettosa della professionalità altrui.<br />Compito del Consulente di parte è, infatti, far sì che il conflitto tra le parti si riduca di intensità e per fare questo deve alle volte mediare anche con se stesso e con le proprie posizioni per evitare amplificazioni del conflitto stesso, addirittura all’interno dello staff di periti.<br />Altro compito del Consulente di parte è quello di funzionare da tramite tra Consulente d’Ufficio e cliente, comunicando a questi le decisioni del primo e presentando al primo le istanze del secondo. Chiaro è che, nel caso in cui tali decisioni siano condivise, il lavorò sarà di sostegno a quanto espresso dal CTU, qualora invece le conclusioni a cui quest’ultimo è giunto non siano totalmente condivisibili, si dovrà integrare ed ampliare quanto disposto dal Consulente d’Ufficio, arricchendolo di una lettura sistemico-relazionale che tenga conto anche della storia dell’individuo.<br />Un buon Consulente di parte dovrebbe riuscire a mediare tra le varie posizioni che contraddistinguono gli attori del conflitto e i professionisti che di questo si stanno occupando, facendo in modo che si crei un clima di fiducia sia nei propri confronti sia, se possibile, anche nei confronti dell’intero sistema peritale, cosa che permetterebbe al Consulente d’Ufficio di spostare la sua attenzione prevalentemente sulla funzione di sostegno piuttosto che su quella di controllo.<br />Il problema che si pone è: come riuscire ad agevolare un cambiamento in un contesto non terapeutico, nel quale la funzione istituzionale è quella del controllo? In contesti come quello della Consulenza Tecnica vi è la necessità che si compenetrino funzione di controllo e funzione di sostegno (Mazzei, 1995) ed “è chiaro che se non subentra una fiducia crescente e la riappropriazione della responsabilità da parte dei genitori, le eventuali soluzioni saranno fittizie (…) Se, viceversa, l’intervento comincerà a dare risposte concrete e soluzioni plausibili, l’aspetto del controllo andrà gradualmente a collocarsi sullo sfondo e prevarrà nettamente la funzione di sostegno” (Mattucci e Pappalardo, 2001). L’importanza di questo passaggio viene ribadita da Busso (1998) a proposito della Mediazione, ma a mio parere è estendibile anche a vantaggio della Consulenza Tecnica: “nel contesto terapeutico la responsabilità del successo è principalmente dell’esperto, nel contesto di crescita e di apprendimento le responsabilità sono distinte: all’esperto compete l’onere delle proposte, al cliente l’onere delle obiezioni e della realizzazione del progetto” (pag. 20).<br />Terzo interlocutore per il Consulente di parte è, naturalmente, il suo assistito. Nel colloquio preliminare con lui il Consulente contratta gli obiettivi del lavoro e ribadisce la finalità di protezione dell’esercizio genitoriale che gli compete, tanto quanto dovrebbe già essere avvenuto con il legale. Generalmente, il cliente arriva portando un’ottica antagonistica, richiedendo all’esperto, più o meno apertamente, un aiuto per riuscire a dare scacco matto all’ex coniuge, ottenendo il più possibile dalla separazione, in termini non solo economici (aspetto generalmente non preso in considerazione dai Consulenti Tecnici d’Ufficio) ma anche di rapporto con i figli.<br />Compito del Consulente di parte è proprio quello di spostare l’attenzione del cliente dalla rivendicazione dei propri interessi e diritti, in qualità di ex coniuge arrabbiato, alla salute dei minori, in qualità di genitore preoccupato. Colui che si presenterà di fronte al Consulente d’Ufficio nel corso dei lavori peritali non dovrà infatti essere il marito (o la moglie) ancora in lotta e in contrapposizione all’altro, ma dovrà essere il padre (o la madre) preoccupato degli effetti negativi che il clima di discordia che caratterizza la separazione sta avendo sui suoi figli.<br />Ricordo, a questo proposito, quanto già evidenziato in precedenza: accedono alla via giudiziaria quelle coppie che non sono riuscite a trovare al loro interno lo spazio e le risorse necessari a dare risoluzione ad un conflitto di considerevole intensità e che, per tale motivo, non raggiungono i criteri per essere definite “mediabili”. Dire questo non significa assolutamente sostenere che si tratta di coppie disinteressate al benessere dei minori: la delega alla Giustizia è altresì inconsapevolmente motivata proprio dalla percezione di non sentirsi (e/o non sentire l’altro) un genitore adeguato ad aiutare i propri figli nel crescere, superando il momento di crisi. Come dire che la preoccupazione nei loro confronti ha raggiunto livelli e caratteristiche tali da non poter trovare risposta e conforto, se non ad alti ed “autorevoli” livelli (il Giudice, i professionisti).<br />Ciò significa che il Consulente di parte, ancor più del Consulente d’Ufficio, si troverà nella difficile posizione di chi deve raccogliere sia un’inconsapevole richiesta di aiuto a livello di una genitorialità sbigottita sia, contemporaneamente, una fin troppo consapevole richiesta di attacco e sconfitta dell’altro a livello di una coniugalità ferita e delusa, che chiede giustizia. Proprio per questo motivo il Consulente di parte corre il rischio di essere parte attiva in quello che Cigoli e Pappalardo (1997) chiamano transfert di superficie, finendo per amplificare i meccanismi di divisione all’interno della coppia genitoriale e tentando di convincere il Giudice delle ragioni esclusive del proprio assistito.<br />Quanto più trovano spazio, in sede peritale, i temi relativi alla storia personale, di coppia e familiare degli ex coniugi, tanto meno sarà il Consulente di parte a doverli trattare nel rapporto duale, funzionando per il suo cliente da agente propulsore di comprensione e accettazione dei propri dolori e delle ragioni dell’altro. A questo proposito, mi sento di sostenere che la maggiore difficoltà, soprattutto se egli è un esperto in terapia, sta nel riuscire a mediare tra il bisogno del cliente di sciogliere fino in fondo i propri nodi problematici nel rapporto inter e intrapersonale e la funzione di counseling non terapeutico che attiene al contesto peritale. Difatti, non appena viene a crearsi, nel rapporto a due, quel clima di fiducia che ci permette di ben lavorare per modulare tra gli interessi della parte e gli interessi dei minori, spesso si crea nell’individuo anche il bisogno di approfondire certe tematiche e di ricercare l’origine di alcuni vissuti.<br />Chiaro è che il Consulente di parte non può dare inizio ad un processo terapeutico con il proprio cliente, almeno fintantoché è in corso il processo di valutazione peritale. Altrettanto chiaro è che il Consulente di parte non può nemmeno delegare ad altri il trattamento del proprio cliente, nella misura in cui non è proficuo l’inserimento di un’ulteriore figura professionale in un momento così difficile e delicato: il Consulente di parte dovrà allora riuscire a trovare il giusto ed equilibrato modo per fornire all’individuo l’aiuto che chiede, senza addentrarsi troppo in pezzi di storia emotiva che lo conducano distante dalla rottura coniugale e dalla genitorialità e senza farsi invischiare nella più superficiale richiesta di compattarsi contro l’altra parte.<br />Il criterio di base, che deve guidare la relazione con il cliente, è e rimane quello dell’accesso, vale a dire “la disponibilità accertata nel presente delle relazioni di assicurare al figlio l’accesso all’altro genitore e, con lui, alla sua stirpe-storia” (Cigoli e Pappalardo, 1997, 9). Qualora il proprio cliente riesca ad uscire da una posizione di contrapposizione e ad abbracciare quella di collaborazione, tenendo presente che la genitorialità condivisa non può morire con la morte dell’unione maritale, il Consulente di parte saprà di aver svolto un buon lavoro e di aver rispettato gli obiettivi originariamente assunti.<br />Quarto interlocutore per il Consulente di parte è il Consulente di controparte. Anche qui si tratta di “fortuna”: alle volte si ha l’occasione di lavorare con professionisti attenti alle tematiche familiari e distanti dalla datata e inconcludente ottica diagnostica; altre volte, invece, ci si “imbatte” in una controparte che assume posizione rigide e che si attiene “fedelmente” alla logica antagonistica e di attacco e sconfitta dell’altro. In questo caso, fin dalle prime battute ci si potrà rendere conto delle difficoltà che si incontreranno nel proseguimento della C.T.U., nonché della buona dose di pazienza e di “arte del negoziato” che si dovrà mettere in campo al fine di ricercare la collaborazione e di prevenire, quale professionista con un retroterra e una formazione sistemico-relazionale, un’amplificazione rischiosa del conflitto, estendendolo all’intero sistema peritale.</span></p></div></div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-50360701695318142932007-04-06T22:13:00.001+01:002008-12-09T00:02:37.776+01:00LA PRIMA SEDUTA DI CONSULENZA<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg18ci269KmqDGUwmK0EKSD7d_7eRJtHmnT3H6el8poH_4U1zmPNf3JIzQc7RPgks9iZxisb6oSPXk-9CPqkHPALEfpheknQKIYrBTOK1Ebwymph5FjNkDUKs4nEJDChmQ_-zh1pPICfTo/s1600-h/7.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg18ci269KmqDGUwmK0EKSD7d_7eRJtHmnT3H6el8poH_4U1zmPNf3JIzQc7RPgks9iZxisb6oSPXk-9CPqkHPALEfpheknQKIYrBTOK1Ebwymph5FjNkDUKs4nEJDChmQ_-zh1pPICfTo/s320/7.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050429794817600002" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;font-size:100%;" >Marcellino Vetere</span><span style="font-family: arial; font-weight: bold;"> </span><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /><br />Socio Didatta A.I.M.S. Istituto Veneto di Terapia Familiare Treviso, Padova, Vicenza <a href="mailto:m.vetere@libero.it">m.vetere@libero.it</a></span><span style="font-size:100%;"> </span><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p><span style="font-size:100%;"> </span><div style="font-family: arial;" align="justify"><div align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify"> <span style="font-size:100%;"><b>Premessa </b><br /> Il tema degli indicatori di mediabilità e la scelta dei criteri usati in prima seduta per distinguere tra richiesta di mediazione/psicoterapia/altro ci era stato proposto dalla Commissione Didattica, in quanto, dopo il Congresso di Torino, si è rivelato come uno dei temi di centrale importanza nella formazione dei mediatori familiari.<br /> La struttura per diapositive rispecchia il testo della relazione presentata da me e dal dott. Aldo Mattucci nella giornata di autoformazione, che ha preceduto questo Convegno. Il tempo sarà certamente insufficiente, ma lo scopo è soprattutto quello di mettervi al corrente di quanto si sta dibattendo nel gruppo dei vostri didatti</span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Mediazione si, mediazione no, mediazione forse </b><br /> Immaginate di essere al primo incontro con una coppia che sia stata consigliata di rivolgersi al vostro studio o al vostro servizio.<br /> Che voi siate assistenti sociali, psicologi, mediatori o psicoterapeuti; che voi lavoriate in studi professionali privati o in servizi pubblici; in qualsiasi caso, il primo ordine di problema che dovrete affrontare sarà quello di verificare la congruenza tra la richiesta ufficiale di mediazione e lo strumento che potrebbe essere più coerente con la domanda di aiuto che la coppia porta.<br /> Le persone che si rivolgono a noi quasi mai sanno quali sono le risposte che possiamo offrire.<br /> Ciò che è certo, è che stanno attraversando un periodo di sofferenza, che quasi sempre si sentono falliti come genitori, con una conseguente forte caduta dell’autostima personale; sta a noi, dunque, aiutarli a capirsi ed individuare quale sia il percorso più adatto per uscire dallo stato di disagio nel quale si trovano.<br /> Per questo motivo abbiamo chiamato i nostri centri CO.ME.TE (consulenza, mediazione, terapia), proprio per sottolineare la pluralità delle risposte possibili.<br /> In questi anni, è diventato sempre più importante svolgere una prima fase di consulenza con lo scopo di “smistare” le richieste, individuando per ognuna, il percorso più adatto. Bisogna essere in grado, entro la fine del primo incontro, di poter rispondere alla domanda: “Questa coppia può trarre giovamento da un percorso di mediazione o c’è bisogno d’altro e di cosa?”<br /> E’ necessario, dunque, che l’<b>analisi della domanda</b> sia, al tempo stesso, molto accurata e molto rapida.<br /> Occorrono, pertanto, dei segnali di pericolo che indichino agli operatori quale strada non intraprendere.<br /> Quello che vi presentiamo è il metodo che, al momento, seguiamo per capire qual’è la domanda che le persone ci pongono e, di conseguenza, quale sia il percorso più utile o, quantomeno, più praticabile. Abbiamo raggruppato in quattro le aree informative che ci é sembrato utile esaminare in questa fase:<br />• Area motivazionale<br />• Area evolutiva<br />• Area della conflittualità<br />• Area delle risorse</span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Area motivazionale</b><br /> Le informazioni che elicitiamo tendono a permetterci una prima lettura della domanda attraverso l’analisi dell’invio. Viene chiesto alla coppia da chi vengono inviati: servizio pubblico o privati? E con quali aspettative dell’inviante?<br /> E’ evidente, infatti, che le cose cambiano sensibilmente se l’invio ci viene fatto da una coppia di amici che si è appena separata avvalendosi di un percorso di mediazione o se, invece, l’invio è stato effettuato dall’insegnante di un figlio, che potrebbe anche non sapere nulla di cosa sia la mediazione.<br /> L’analisi dell’invio inizia con il primo contatto telefonico e può esaurirsi nei primi 5’-10’ del primo incontro.<br /> Mettiamo, ad esempio, che ad inviarci la coppia sia stato un collega psicoterapeuta che è anche mediatore: è molto probabile che si tratti di persone in trattamento che hanno già fatto un percorso, che sono stati preparati e sanno molto bene cosa sia la mediazione.<br /> Molto diverso sarebbe il caso di un invio avvenuto sulla scorta di intermediari poco informati su cosa sia la mediazione.<br /> L’analisi dell’invio ha il duplice scopo di permettere a noi di non perdere il lavoro di primo “smistamento” che l’inviante deve aver fatto ed, alla coppia, di incominciare ad esprimere le proprie aspettative.<br />• Come la coppia é arrivata da noi?<br />• Chi ha effettuato il primo contatto telefonico?<br />• Con quali aspettative dell’inviante?<br />• Con quali aspettative personali?<br />• Con quale definizione individuale del problema?<br />• Con quali azioni già intraprese (uscita di casa, procedimenti giudiziari, avviso di separazione ecc…)?</span></p> <div align="justify"> <blockquote><span style="font-size:100%;"> </span></blockquote> </div> <blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">Cosa valutiamo<br />• Coerenza versus incoerenza tra aspettative esplicite ed implicite<br />• Concordanza versus discordanza tra aspettative individuali e di coppia rispetto alla mediazione<br />• Riconoscimento del problema versus non riconoscimento del problema<br />• Desiderio/volontà di affrontarlo versus mancanza di tale volontà<br />• Irreversibilità della scelta versus reversibilità<br /> In questa fase il mediatore orienta il focus del proprio ascolto alla ricerca di informazioni utili a capire se la decisione di separarsi, per almeno uno dei due, abbia superato il punto di non-ritorno ed, in subordine, se sono condivise o meno la definizione del problema e le aspettative rispetto alla scelta della mediazione. </span></p> </blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Area evolutiva</b><br /> Nel caso che nella fase dell’analisi dell’invio sia emerso che non ciano le condizioni certe per un percorso di mediazione, sarà utile procedere ad un approfondimento dell’analisi della domanda. Questo approfondimento passa attraverso l’indagine sul ciclo vitale dell’individuo e della coppia. Lo scopo di questa fase è quello di indagare sul significato evolutivo della richiesta di separazione (separarsi da chi, da cosa?) e, soprattutto, se il legame sia rescindibile o meno.<br /> Le domande individuate per questa fase servono ad indagare brevemente se e come siano stati affrontati i compiti evolutivi:<br />• Come vi siete incontrati?<br />• Cos’è che vi ha attratto nell’altro?<br />• Cosa ne è stato poi di questa attrazione?<br />• Quali qualità dei propri genitori ha ritrovato nell’altro/a? e quali opposte?<br />• Cosa ritiene abbiano pensato i genitori d’altro della vostra unione di coppia?<br />• Come è cambiato il vostro rapporto all’arrivo del primo figlio?</span></p> <div align="justify"> <blockquote><span style="font-size:100%;"> </span></blockquote> </div> <blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">Cosa valutiamo<br />• Assolvimento versus non assolvimento dei compiti evolutivi<br />• Disinvestimento emotivo possibile versus legame disperante<br />• Disimpegno genitoriale versus richiesta di maggiore presenza<br />• Corresponsabilità educativa versus alienazione genitoriale</span></p> </blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Area del conflitto</b><br /> Sin dal primo momento dell’incontro con la coppia, mentre dalle risposte verbali alle nostre domande ricaviamo informazioni sulla reversibilità/irreversibilità relativa alla decisione di separazione e/o sulla fase evolutiva in cui la coppia si trova, ecc…, le modalità relazionali, ed i linguaggi analogici che la coppia utilizza ci danno informazioni sulla gestibilità o meno del conflitto in corso. Pertanto, alleniamo i nostri allievi mediatori, a prestare particolare attenzione al non-verbale.</span></p> <div align="justify"> <blockquote><span style="font-size:100%;"> </span></blockquote> </div> <blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">Cosa valutiamo<br />• Natura del conflitto: può riguardare il non sentirsi riconosciuta/o (identità), il potere che ognuno/a ha o sente di avere o non avere nella coppia (potere), la qualità del legame ed il grado di condivisione (intimità).<br />• Stile di gestione del conflitto: può essere vissuto come negativo (evitante), come lotta (antagonista), come opportunità (cooperativo).<br />• Intensità del conflitto: percepita dal mediatore. </span></p> </blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">E’ chiaro che un’intensità troppo elevata non rende percorribile un processo di mediazione. E’ questo il parametro che più di ogni altro porta in campo l’osservatore nel sistema osservato. E’, infatti, evidente che su questo parametro incide particolarmente la specificità del mediatore, la sua storia, la sua esperienza di conflitto e la sua “capacità di tenuta” rispetto all’intensità emotiva.</span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Area delle risorse</b><br /> L’analisi dell’invio, l’indagine sull’area evolutiva e l’esplorazione nell’area del conflitto, hanno anche lo scopo di sondare se sussistano o meno le risorse per affrontare un qualche percorso e quale.</span></p> <div align="justify"> <blockquote><span style="font-size:100%;"> </span></blockquote> </div> <blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">Cosa valutiamo<br />• Compresenza di assertività e cooperatività versus la presenza di solo uno dei due fattori<br />• Reinvestimento emotivo su un proprio progetto di vita versus legame disperante </span></p> </blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Mediazione sì</b><br /> Nel caso in cui ci sia coerenza tra aspettative esplicite ed implicite e concordanza tra aspettative individuali e di coppia é possibile che sussistano anche tutte le sottoelencate pre-condizioni:<br />• Irreversibilità della scelta (procedimenti giudiziali in atto, uscita di casa già avvenuta, presenza di altri partners, informazioni sulla volontà di separazione già comunicate ai figli, ecc…)<br />• Riconoscimento del problema<br />• Definizione condivisa del problema<br />• Volontà di affrontare il problema<br />• Scelta condivisa del mediatore e della mediazione<br />• Reinvestimento emotivo possibile su un proprio progetto di vita<br /> In questo caso ridefiniamo il concetto e le funzioni della mediazione, quale sarà la nostra posizione, cosa possono e non possono aspettarsi da noi, forniamo alcune linee guida rispetto alla durata del processo, a come si svolgeranno gli incontri, consegniamo loro il contratto di mediazione e la guida per i clienti. </span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Mediazione sì, se…</b><br /> Nel caso in cui non sia chiaro cosa la coppia si aspetti da noi e/o non ci sia coerenza tra aspettative esplicite ed implicite e/o vi sia discordanza tra aspettative individuali e di coppia, anche se fossero rispettate tutte le altre pre-condizioni e la scelta non fosse oltre il punto di non ritorno, riteniamo utile procedere ad un ulteriore approfondimento dell’analisi della domanda. Esempi di reversibilità della scelta possono essere:<br />• L’idea di separarsi è ancora suscettibile di ripensamenti<br />• La decisione è presa, ma c’è resistenza a comunicarla ai figli<br />• Nessuno dei due ha fatto o pensa di “fare le valigie”<br />• Si vuole sapere cosa comporta la separazione per ognuno dei coniugi<br /> Si vuole sapere cosa comporterà la separazione per i figli<br />• Esiste la paura che, con la separazione, l’altro coniuge si vendichi negando i figli<br /> Se, alla fine di tale approfondimento, si verifica che sussistono le pre-condizioni per un percorso di mediazione e si accerta che il livello di delusione favorisce il disinvestimento sul partner, si procederà alla definizione di significato e funzioni della mediazione, alle modalità di svolgimento del percorso, alla posizione del mediatore all’interno di questo percorso ecc…ecc….<br /> Se, invece, tale disinvestimento è possibile, ma al momento permangono dei nuclei problematici che lo impediscono, si potrà procedere con una fase di pre-mediazione (2-3 incontri), atti a favorire la districabilità del legame.<br /> Se, al termine di tale indagine, ancora dovessero sussistere dubbi sulla natura della domanda o nel caso in cui esplicitamente la coppia fosse d’accordo nel chiedere al mediatore: “Secondo lei, siamo fatti per stare insieme o è meglio che ci separiamo?”, procederemo ad un ulteriore approfondimento che permetta ai coniugi di rispondere da soli a questa domanda.</span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Diagramma delle funzioni di coppia nel tempo</b><br /> Chiediamo loro di esprimere con un punteggio da 0% a 100% il grado di soddisfazione nelle prime tre delle seguenti quattro aree:<br />• esclusività e soddisfazione sessuale, generatività (biologica, psicologica e sociale),<br />• sostegno emotivo (sul piano professionale e nel rapporto con la f.d.o.),<br />• autorealizzazione:<br /> Con questi punteggi costruiamo un grafico che riporta sulle ascisse le aree e sulle ordinate le variazioni dei punteggi nel tempo. Ad esempio, all’inizio del rapporto <b>(T1)</b>, all’inizio della convivenza <b>(T2)</b>, alla nascita del primo figlio <b>(T3)</b>, oggi <b>(T4)</b>.<br /> Per quanto riguarda l’ultima area chiediamo di rappresentarci la differenza, tra come si sentivano all’inizio del rapporto ed attualmente, con un’immagine, preferibilmente un’animale.<br /> n Verifica analisi della domanda<br /> Se al termine della fase di consulenza, dopo 5’/10’, o dopo uno/due incontri, l’analisi della domanda ci porterà ad optare per una proposta di mediazione, procederemo ad una verifica immediata di tali risorse attraverso le prime due operazioni che proponiamo:<br />• la costruzione della check-list dei problemi da affrontare<br />• la costruzione della frase con la quale, al termine del percorso di mediazione, comunicheranno ai figli la loro decisione.<br /><b><br /> La costruzione del menù</b><br /> La costruzione del menù consiste nel:<br />• fare una scala dei problemi da affrontare<br />• stabilire un ordine di priorità<br /> Se ci sono effettivamente le condizioni e le risorse per una mediazione, questa operazione ne sarà una verifica.<br /> Anche in questo caso lo scopo è duplice: è utile sia per verificare la presenza di risorse, sia per sottoporre a falsificazione le ipotesi che il mediatore ha elaborato circa la natura del conflitto, lo stile di gestione dello stesso e la sua intensità.</span> </p> <div align="justify"> <blockquote><span style="font-size:100%;"> </span></blockquote> </div> <blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">Cosa valutiamo<br />• Il tempo impiegato<br />• La modalità relazionale predominante<br />• La facilità/difficoltà a trovare un accordo<br />• Il grado di condivisione delle priorità</span></p> </blockquote> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Comunicazione ai figli</b><br /> Mentre la check-list (il cosiddetto menù) è, in ogni caso, la prima cosa da fare, la costruzione della frase potrebbe essere realizzata come ultima operazione del processo di mediazione: immediatamente prima di comunicarlo ai figli e quando tutti i dettagli dell’accordo sono già stati formulati.<br /> Proporre alla coppia di predisporla all’inizio del processo ha lo stesso scopo di una “cartina al tornasole”: individuare se il legame si possa sciogliere; nel contempo, la costruzione della frase costituisce un modo per aiutare chi subisce la decisione ad uscire dalla posizione rigida del cosiddetto “braccio di ferro”, ed entrare nella logica dell’agire concretamente per il futuro e per i figli.<br /> Il metodo che utilizziamo prevede questo percorso:<br />• Ognuno scrive la propria frase<br />• Ognuno legge la frase dell’altro e ne sottolinea solo le parti che condivide<br />• Ognuno riscrive la propria frase, ma questa volta tenendo conto del contributo dell’altro; questo; scambio può ripetersi più volte<br />• Quando le frasi tendono a coincidere, invitiamo la coppia a sedersi l’uno di fronte all’altra e scrivere insieme una frase che contenga i contributi di ciascuno. Nulla deve andare perso.<br /> In molti casi ci si trova di fronte a coppie che parlano di separazione ma, non appena si confrontano con la messa in opera di tale decisione, diventa insopportabile la sola idea di mettere la penna sulla carta.<br /> Al tempo stesso può capitare che un genitore assolutamente renitente all’idea di perdere la propria compagna, attraverso il cercare di mettere per iscritto cosa comunicare ai figli, possa essere aiutato a concentrarsi sulla cura dei loro interessi, non potendo non accettare la separazione dal partner.</span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Mediazione no, meglio...</b><br /> Se, alla fine della fase di approfondimento della domanda, dovessero verificarsi le seguenti condizioni:<br />• Mancato riconoscimento del problema<br />• Assenza della volontà per affrontarlo<br />• Qualità disperante del legame di coppia<br />• Confusione di confini tra coniugalità e genitorialità<br /> oppure, il livello di delusione sia tale da non permettere un disinvestimento sarà necessario ipotizzare percorsi alternativi più adatti.<br /> A seconda delle situazioni, tali percorsi possono essere:<br />• un sostegno psicologico individuale Una tale scelta trova indicazione qualora, ad esempio, si individuassero rischi di depressione.<br />• una psicoterapia focale Una tale scelta trova indicazione quando si dimostrasse utile individuare le modalità genitoriali più idonee ad affrontare la separazione ed il divorzio (se, ad esempio, ci fosse un rischio di “alienazione genitoriale”). L’obiettivo, in questo caso, è quello di permettere agli ex-coniugi di elaborare la fine per garantire ai figli una co-genitorialità.<br />• una psicoterapia di coppia. Una tale scelta trova indicazione qualora vi siano, da ambo le parti, sufficienti risorse residue per una rielaborazione dell’incastro di coppia e dei suoi effetti sulle vicende coniugali (se, ad esempio, pur in presenza di un forte legame, si fosse pervenuti ad una fase di stallo per un non avvenuto assolvimento dei compiti evolutivi). L’obiettivo, in questo caso, è di elaborare i rapporti di ciascuno dei due ex-coniugi con le rispettive famiglie di origine, al fine di avvalersene in eventuali nuovi rapporti di coppia.</span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Nota Bene</b><br /> Nessuno degli indicatori è sufficiente, da solo e deterministicamente, a definire qual’è la scelta più adatta tra mediazione, sostegno psicologico individuale, psicoterapia focale, psicoterapia di coppia e tale scelta non è neanche mai “oggettiva”, svincolata cioè dall’esperienza personale di come il consulente sta in un conflitto. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-weight: bold;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p><span style="font-size:100%;"></span><ul><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Ardone R., Mazzoni S.“La mediazione Familiare,. Per una regolazione<br /> della conflittualità nella separazione e nel divorzio” Giuffré ed.,<br /> Milano, 1994</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Cigoli V., C. Galimberti, M. Mombelli, “Il legame disperante”,<br /> Raffaello Cortina, Milano ed. 1988</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Cigoli V.” Psicologia della separazione e del divorzio”, Il Mulino,<br /> Bologna, 1998 </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Emery R., “il Divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, Franco<br /> Angeli ed., Milano, 1998</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Haynes J.M., I. Buzzi “Introduzione alla Mediazione Familiare”,<br /> Giuffré, Milano, 1996</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Mattucci A., Pappalardo L. “Tecniche di mediazione in ambito peritale” in<br /> Professione Mediatore, n° 15/16 rivista Maieutica, Atti del IIConvegno<br /> Internazionale A.I.M.S., Torino,8/9 ottobre 1999 </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">Morin E. “Introduzione al pensiero complesso” Sperling & Kupfer,<br /> Milano, 1983 </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ul><span style="font-size:100%;"><br /></span><p align="justify"><span style="font-size:100%;"> </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div> </div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-66369968914715675612007-04-06T22:13:00.003+01:002008-12-09T00:02:37.507+01:00UN MODO DI FARE MEDIAZIONE SISTEMICA<a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiYonMuJfGJrOYAA8hhIPAAuauWZ-_84NNmOT4HpHP8AQaXsUGRPt0h_BqZp9ZOr1XqvKH5iaqqr0fdg3Mh1BW2OJbW7Us2IslF7HPwF4ApGRibDNB9CYbSxBaol9QCP8HvNv-IFkTP5T4/s1600-h/8.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiYonMuJfGJrOYAA8hhIPAAuauWZ-_84NNmOT4HpHP8AQaXsUGRPt0h_BqZp9ZOr1XqvKH5iaqqr0fdg3Mh1BW2OJbW7Us2IslF7HPwF4ApGRibDNB9CYbSxBaol9QCP8HvNv-IFkTP5T4/s320/8.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050437147801610770" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;font-size:100%;" >Enrico della Gatta</span> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Socio Ordinario A.I.M.S.</span></p> <span style="font-family: arial;font-size:100%;" ></span><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p> <div style="font-family: arial;" align="justify"><div align="justify"> <p align="justify"> <span style="font-size:100%;">Una specificazione del titolo di questa sessione, “mediazione istituzionale”, potrebbe essere quella di “mediazione tra istituzioni”, cioè l’insieme delle attività tese al raggiungimento di un obiettivo d’interesse comune, pubblico o socialmente rilevante.<br />In queste attività si trovano ad interagire vari e diversi Organismi o soggetti, pubblici e privati, che hanno competenze specifiche differenziate, ma che contribuiscono tutti, ognuno per la sua parte, in maniera determinante al raggiungimento dell’obiettivo.<br />Mi riferisco a tutti quegli Organismi attivi nei procedimenti e che, per segmenti, rendono eseguibili, attraverso le proprie decisioni, progetti che tendono a materializzare l’intervento d’interesse collettivo.<br />E’ chiaro che se questo è il modello, esso va calato in un contesto territoriale che lo completa e che certamente va a rappresentare una delle variabili indipendenti dell’intero sistema.<br />Tra i soggetti, però, ve ne è uno che in sé racchiude la capacità di esprimere il bisogno, manifestare il disagio, evidenziare il conflitto, agire per la risoluzione di questo ed esprimere la soddisfazione, esso è “l’utente”. Egli, cioè, è colui che dalla mediazione sistemica “istituzionale” deve trarre il proprio benessere.<br />L’insorgenza del disagio fa nascere il bisogno e, la necessità di soddisfarlo in qualche modo, fa nascere le relazioni che possono ingenerare il conflitto.<br />Pertanto, le “relazioni istituzionali” si sviluppano già dal momento in cui nasce l’idea progettuale, cioè quel momento in cui comincia a prendere corpo la possibilità di poter realizzare un qualsiasi intervento che coinvolge la collettività.<br />Si può, così, ipotizzare un “gruppo” che lavori in maniera globale e sistemica per poter affrontare il disagio, individuare il conflitto affinché possa essere utilizzato in positivo. Ciò al fine di raggiungere l’obiettivo dell’intervento progettato, senza deludere le aspettative dell’utente, ma dandogli il miglior benessere possibile.<br />Questo “gruppo” necessita di un “Conduttore” o “Presidente” che deve essere in grado di far svolgere tutte le attività sopra espresse in maniera il più possibile lineare perché l’obiettivo che ci si prefigge possa essere raggiunto attraverso una ottimizzazione dei parametri che intervengono ad influenzare la decisione finale.<br />Lo svolgimento di una tale attività di mediazione necessita di “sedute”o “adunanze”, convocate dal Conduttore, necessarie per mettere in relazione tutti quei soggetti, di cui si è detto, in compresenza in maniera che la contemporaneità possa far emergere anche i conflitti non palesemente espressi.<br />L’attività di mediazione nasce già sul “con chi” organizzare la seduta, oltre che sul come svolgerla, e le relazioni dal ricevimento dell’invito a partecipare. Tutti sono posti nelle condizioni di conoscere quali saranno i soggetti al cospetto dei quali si troveranno.<br />Pertanto, il momento della prima seduta è il più importante per l’annotazione dei soggetti presenti, ma soprattutto di quelli assenti, cioè di quelli che presuntivamente ritengono di avere una leadership tale da non doversi sottoporre al confronto che la seduta stessa gli impone.<br />Senza, però dover necessariamente connotare così l’assenza, il Conduttore, preso atto della non partecipazione di tutti, convoca una seconda seduta, sottolineando la necessità della partecipazione e la circostanza di dare inizio all’attività anche con degli assenti che non verrebbero più riconvocati fino al termine dell’intero procedimento.<br />Infatti, in tale seconda seduta, il Conduttore stipula, concordemente con gli intervenuti, un “contratto virtuale”, che oltre alle modalità generali del procedimento, fissa il termine dell’attività, che per altro, per legge, non potrebbe superare indicativamente i sessanta giorni.<br />Il gruppo si forma così nella seconda seduta ed il Conduttore può iniziare la sua attività di mediazione facendo in modo che emergano, con interventi relazionali, le varie opinioni dei soggetti presenti, ognuno per la propria competenza, sulla proposta di intervento oggetto dell’adunanza stessa.<br />In tal modo, il primo obiettivo del Conduttore è quello di provocare l’emergere nel gruppo dei vari conflitti, con l’utente e tra le Istituzioni, in maniera che l’intero gruppo possa lavorare su questi, senza dimenticare la base progettuale proposta dall’utente, cioè senza spostare l’attenzione su proposte mai formulate o comunque diverse da quella oggetto degli incontri e del contratto.<br />Quanto testé sottolineato, appare quanto mai fondamentale anche se può sembrare quasi ovvio, perché la capacità di mediazione del Conduttore deve estrinsecarsi proprio nel tenere sempre ben presente il disagio dell’utente ed il modo con cui egli stesso propone le condizioni per porsi in soddisfazione. Ciò perché, l’utente ha il diritto di partecipare attivamente al dibattito che si svolge durante le sedute, ma non ha facoltà di esprimere opinioni al momento della decisione.<br />La dialettica relazionale che è il fondamento dello svolgimento dell’espresso, e non, attraverso anche simbologie, è lo strumento di cui il Conduttore si serve per poter porre le interazioni su un livello collaborativo.<br />Si assiste, così, ad una rapida evoluzione delle relazioni, cioè: se all’inizio si avverte una contrapposizione, poi si avverte, in molti casi, quasi una convergenza di opinioni, che possono produrre sull’utente anche il convincimento estremo di aver commesso, nella formulazione della proposta d’intervento, una qualche valutazione parzializzante e che non induce, nella realtà, il benessere auspicatosi.<br />Ovviamente, per poter giungere al termine del contratto ed anche ad una decisione soddisfacente per tutti i soggetti, è necessario che il Conduttore possegga grosse qualità professionali e capacità di mediazione. Ciò sopratutto perché, questi, per poter tentare di ridurre o eliminare i conflitti, deve essere già un soggetto che sa come darsi risposte alle seguenti domande: </span></p> <ol> <li><span style="font-size:100%;">qual’è il mio ruolo<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">qual’è il contesto e su cosa bisogna confrontarsi<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">verso cosa devo andare<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">con quali modalità.</span></li> </ol> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">Solo attraverso un tale percorso ed una tale capacità di conduzione si possono svolgere attività di analisi del conflitto, di attenuazione o eliminazione di questo, nel rispetto delle regole di ogni soggetto partecipante al gruppo, in maniera da tendere alla collocazione o risistemazione di tutti quegli elementi che lo hanno generato.<br />In questa dinamica il Conduttore va a dare o restituire dignità ed autorevolezza ad ogni singolo soggetto, compreso l’utente, rendendoli riconoscibili e credibili, ricomponendo uno scenario, prima, ed un tessuto istituzionale, poi, che lavora per l’unico obiettivo proposto migliorandone sempre di più il “come” raggiungerlo.<br />S’ingenera e si sviluppa, quindi, un confronto emozionale tale che, attraverso la viva partecipazione alla dialettica, riesce a definire le responsabilità di ognuno e i suoi confini, attraverso una profonda ed attenta meditazione di tutti su:<br /><b>A </b>dove si sta<br /><b>B </b>dove si vuole andare insieme<br /><b>C </b>perché ed in che modo.<br /><b>A</b> tal proposito, cerco di raccontarvi ciò che mi si è presentato davanti all’inizio di un mio incarico a Presidente e Coordinatore delle Conferenze di servizio per l’approvazione di progetti di Opere pubbliche per conto del Provveditorato alle OO.PP. per la Regione Campania, in occasione di un progetto per una tratta ferroviaria intercomunale (interland di Caserta).<br />Il consesso da formare era un nutrito gruppo di soggetti, tra politici ed enti, che potesse partecipare alle riunioni con regolarità perché era in pericolo il mantenimento del finanziamento pubblico, atteso l’approssimarsi della fine dell’anno finanziario.<br />Pertanto, ho messo insieme cinque sistemi a confronto:</span> </p> <ol> <li><span style="font-size:100%;">Sistema politico nazionale (norme e indirizzi)<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Sistema politico locale (Regione-Provincia-Comuni)<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Sistema Enti pubblici e di Stato (Sovrintendenze-Autority-ecc..)<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Sistema propositore (progettisti)<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Sistema di Presidenza della Conferenza</span></li> </ol> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">E’ presto detto che l’importo del progetto, giusto per dare una idea, era di circo 75 miliardi ed il numero di persone presenti circa 50.<br />Immaginate, quindi, la difficoltà oltre la mia tensione per la paura che la conduzione mi potesse sfuggire di mano.<br />Infatti, alla prima convocazione, i politici in particolare, s’introdussero nel Parlamentino a disposizione per la seduta, stringendosi le mani tra loro, quasi non riconoscendomi e cercando di accomodarsi al tavolo della Presidenza, per ovvia abitudine a stare o porsi al centro nella conduzione. Gli schieramenti politici erano, peraltro contrapposti tra Regionali e Provinciali, ma in due casi non con quelli Comunali.<br />Furono informati dai miei collaboratori, i quali indicarono loro anche i posti al semicerchio; essi, un po’ imbarazzati, presero comunque posto collocandosi su quelli più alti dell’emiciclo di fronte al tavolo di Presidenza. Si crearono, così, a destra un emiciclo con tutti politici disposti in modo gerarchicamente decrescente dall’alto verso il basso e, tranne il sindaco del Comune più grande che stava sull’anello insieme al rappresentante della Provincia, si collocarono sullo stesso anello più in basso.<br />In una lettura orizzontale, invece, sul lato sinistro si erano posizionati, timidamente, i dirigenti dei vari Enti coinvolti a partecipare, quasi come in contrapposizione.<br />C’era un gran parlare, ed io stesso mi intrattenevo ora con l’una e ora con l’altra parte, cercando di creare connessioni rispetto anche all’evento che ci vedeva lì riuniti. Ma, quasi subito, intuii che la spavalderia di molti dei politici presenti era dettata da voglia di far prevalere la propria opinione e dalla sicurezza che questa fosse quella giusta e l’unica sensata da adottare. Come vi ho detto, però, gli schieramenti erano contrapposti, per cui si sarebbe giunti certamente ad una situazione di chiusura comunicativa, col rischio di non poter neanche avviare una disamina del progetto da alcun punto di vista tecnico.<br />Allora, fui costretto a limitarmi ad utilizzare quella convocazione solo per raccogliere le presenze e non controllare la efficacia delle deleghe con le quali si erano presentati molti politici, per evitare che la seconda convocazione, nel caso di specie obbligatoria, potesse essere boigottata prima della sua edizione.<br />Avvolte, bisogna utilizzare in positivo anche le pieghe delle normative che crediamo essere restrittive, cioè: riconvocazione obbligatoria allorché in prima convocazione si fossero avuti assenti.<br />Pertanto, con molto rischio di raccogliere proteste, anche forti, concordai la data della seconda convocazione e raccomandai a tutti di venire di delega efficace come per legge.<br />Tale opportunità mi consentì di ragionare con i miei collaboratori sul come poter svolgere una così, prevedibile, aggressiva Conferenza e, soprattutto, come avrei potuto far passare disinvoltamente, ma con autorevolezza, la nullità delle dichiarazioni di uno dei politici se questi si fosse presentato senza delega adeguata.<br />Affrontare il riconoscimento di un vertice politico, che si sente comunque rappresentante dei suoi elettori e, per l’Amm.ne di cui è capo, partecipante efficace per ingenerare la decisione finale, può essere letto come spiazzarlo per impedire una qualsiasi sua azione.<br />Mi inventai, così, l’utilizzazione di una tecnologia, cioè introdussi una innovazione nell’organizzazione della mia gestione: la informatizzazione in tempo reale di quella Conferenza, introducendo una sorta di catalogazione e selezione della “qualificazione della delega” affidandola al Software con la supervisione del Segretario della Conferenza, che ne controllava la conformità. Ciò, mentre io avrei continuato ad attivare tutte le connessioni possibili prima del formale inizio della Conferenza.<br />In questo modo, pensai che potesse essere, all’avvio delle operazioni, più rassicurante per tutti, perché il non poter ritenere utile la forma con la quale, ad esempio, quella presentata da un Sindaco che riteneva di poter partecipare alla Conferenza, sarebbe nato da un semplice chiarimento che avrei dato per far comprendere il motivo del rifiutato dal software: quindi, in questo modo avrei assunto meglio la funzione di garante di una procedura regolare, abbandonando gradualmente l’immagine di un burocrate che protendeva per qualche parte affinché si portasse all’approvazione il progetto così come era stato presentato e chissà per quali altri particolari motivi.<br />Con molta ansia affrontai la seconda seduta e potetti verificare, con soddisfazione che il riconoscimento di garante della trasparenza e della legittimità, in cui speravo per poter condurre a termine la Conferenza, me la ero guadagnata affermando il criterio di esclusione e utilizzando la metodologia informatica.<br />Ciò, perché il politico interessato alla non conformità della delega, oltre a ridurre qualsiasi forma di insistenza si sentiva comunque accettato, preoccupandosi, poi, che le sue affermazioni rimanessero scritte perché le avrebbe, certamente, fatte ratificare dal proprio Organo competente, acquistando l’efficacia richiesta, come da me suggerito.<br />Così il lavoro cominciò passando attraverso la iniziale fase del contratto, cioè quel momento che rende partecipativi tutti i soggetti, in quanto percepiscono l’impegno che devono profondere per raggiungere l’obiettivo e nei tempi fissati, avvertendo le responsabilità che stanno assumendo in quel momento.<br />Durante lo svolgimento delle diverse riunioni si dovette passare attraverso varie fasi di costruzione del consenso utilizzando modalità, sia nel rivolgermi in maniera sempre appropriato e sia utilizzando figure autorevoli che potessero sostenere incontri tecnici risolutivi di conflitti, man mano, emergenti.<br />L’aiuto della tecnologia, che mi aveva risolto un conflitto tangenziale, l’ho utilizzato anche nei momenti in cui l’oratore di turno mi andava via per la tangente, cioè mi scantonava o si abbandonava a considerazioni su persone o azioni fuori contesto. Voglio dire che mi è stato molto utile far sentire a questi ultimi la pressione che produce la dichiarazione registrata in tempo reale e quanto poco utile rimane la illazione vagante al raggiungimento dell’obiettivo, cioè di una comunicazione efficace. Ho utilizzato così, molto, la tecnica della riformulazione e del rilancio attivo e passivo.<br />Mi appare, infine, necessario sottolineare che tutto quanto ho potuto muovere si è fondato sull’<b>ascolto</b>, cioè su quel necessario elemento base della comunicazione che ha prodotto, in me e negli altri soggetti, una viva attenzione e partecipazione a tutto ciò che veniva trasmesso, aiutandoci a farci sentire valorizzati e riconosciuti, ognuno per le proprie peculiarità, oltre che importanti nel dare un contributo alla procedura di approvazione di un progetto che divenisse valido ed efficace.<br /><br />In conclusione, credo di aver fatto, con questa breve chiacchierata, intravedere<br /> un altro modo di vivere la nostra professione di “mediatore sistemico”,<br /> non esclusivamente familiare, e, questo, vuole pormi anche come promotore<br /> della proposta, al Comitato Scientifico, che, da esso, esca l’iniziativa<br /> di implementare, presso tutti i centri A.I.M.S., la formazione, già in<br /> essere, con un pacchetto d’interventi sulla “mediazione istituzionale”.<br /> Ciò in considerazione del fatto che molti di noi sono nelle<br /> strutture pubbliche o comunque si relazionano con queste, oltre che<br /> di quello che<b> la professione del Mediatore sistemico mi sembra rappresenti,<br /> oggi, quella di cui, forse, si sente più bisogno, in quanto,<br /> fondamentalmente, credo essa unisca per convergere su di una decisione<br /> che dov</b><b>rebbe<br /> tendere al soddisfacimento del bisogno per indurre benessere e ridurre<br /> i conflitti.</b></span> </p><span style="font-size:100%;"> </span><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Bibliografia</b></span></p><ul><span style="font-size:100%;"></span> <li><span style="font-size:100%;"> Richard H. Axelrod, “Coinvolgere i Collaboratori” edito dalla<br /> Francoangeli. </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> </ul><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"> </span></p> <span style="font-size:100%;"><br /></span></div> </div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-15169852813882218202007-04-06T22:13:00.004+01:002008-12-09T00:02:32.511+01:00FENOMENELOGIA E GESTIONI DEI CONFLITTI NEI GRUPPI DI FORMAZIONE ALLA MEDIAZIONE<div style="text-align: left;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDl1uersLeX8iL30Tz0h1UN2bH6bPmYYJe8kqzUZj9-rqYYt8l5moL3GqCZYHMFmw9_4S5wdzsnrgQsZdOLXqOCsPPBnEz2aBNalZ8CwqhU-4aXol47K0LybZzdgVBpejA0XD0WbtxnxY/s1600-h/9.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDl1uersLeX8iL30Tz0h1UN2bH6bPmYYJe8kqzUZj9-rqYYt8l5moL3GqCZYHMFmw9_4S5wdzsnrgQsZdOLXqOCsPPBnEz2aBNalZ8CwqhU-4aXol47K0LybZzdgVBpejA0XD0WbtxnxY/s320/9.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050451716330678818" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;font-size:100%;" >Ester Livia Di Caprio</span></div><p style="font-family: arial; text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socia Didatta A.I.M.S. Ecopsys - Napoli</span></p><div style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;"> </span></div><p style="font-family: arial; font-weight: bold; text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Paolo Gritti</span></p><p style="font-family: arial; text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socio Didatta A.I.M.S. E</span><span class="on down" style="display: block;" id="formatbar_JustifyLeft" title="Align Left" onmouseover="ButtonHoverOn(this);" onmouseout="ButtonHoverOff(this);" onmouseup="" onmousedown="CheckFormatting(event);FormatbarButton('richeditorframe', this, 10);ButtonMouseDown(this);"></span><span style="font-size:100%;">copsys - Napoli <a href="mailto:paolo.gritti@unina2.it">paolo.gritti@unina2.it</a></span></p><span style="font-size:100%;"> </span><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p> <div style="font-family: arial;" align="justify"><div align="justify"> <p align="justify"> </p> <span style="font-size:100%;"></span> <div align="justify"> <p> <span style="font-size:100%;"><b><br /></b></span></p><p><span style="font-size:100%;"><b>Introduzione</b><br />La formazione alla mediazione viene attualmente svolta nell’arco di tempo di un biennio. Il lavoro del gruppo di addestramento, per ciò che concerne il contratto formativo della mediazione, è prevalentemente eterocentrato sull’apprendimento del modello.<br />Alcuni fattori preponderanti come:<br /><b>A </b>la durata contenuta del processo<br /><b>B</b> l’obiettivo stesso della formazione, l’apprendimento, cioè, della tecnica mediativa.<br /><b>C</b> la configurazione del gruppo di allievi come gruppo di lavoro<br />non consentono di includere in maniera esplicita né tantomeno implicita premesse od obiettivi che abbiano una pur vaga rassomiglianza con istanze e funzioni terapeutiche o di cura.<br />La nostra personale esperienza con i gruppi di “formazione” alla pratica mediativa, il confronto con altre esperienze di moduli formativi anch’essi organizzati su un registro di apprendimento a configurazione gruppale, la convinzione dello scarto esistente tra statuto della mediazione, vincolato ad una pratica formativa molto orientata, rispetto a quella che, per definizione, è la cultura della mediazione, ispirata da matrici teoriche interdisciplinari, ci inducono ad una serie di riflessioni. Tali considerazioni riguardano il tipo di conflittualità che si genera all’interno dei gruppi di formazione.<br />Proveremo, pertanto, a descrivere alcune delle correlazioni esistenti, nell’ambito di un gruppo didattico, tra la dinamica dell’apprendimento e la genesi e qualità del conflitto, privilegiando, nella fattispecie, le connessioni esistenti tra modalità di apprendimento e produzione di conflittualità, all’interno di quel particolare contenitore che è il gruppo. Vorrei, in particolare, porre l’attenzione su alcuni quesiti inerenti i cosiddetti STILI di apprendimento posti in essere con l’ausilio di contesti gruppali, a composizione prevalentemente eterogenea, e la genesi dei conflitti, partendo da una considerazione basilare e, cioè, che “l’apprendimento in sé, quale scopo di lavoro è, in qualità di compito, generatore di conflitto”.<br />L’elaborazione di un registro di osservazione che privilegi come osservatorio la fenomenologia del conflitto all’interno dei gruppi di formazione, utilizzando come prospettiva di decodifica il modello teorico gruppalista, ci sembra utile per due ordini di motivi:</span> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span> </div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <ol> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Motivi di ricerca visto che, da tempo, ci occupiamo delle dinamiche di apprendimento che caratterizzano i diversi generi di modelli e moduli formativi per ciò che, specificamente, concerne la psicoterapia;</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Motivi più squisitamente funzionali. L’intento sarebbe quello di contribuire a chiarire la confezione culturale del programma formativo, considerando che il secondo anno del biennio può avere una duplice connotazione, essendo differentemente direzionato per i mediatori familiari e per i mediatori sociali. E anche in virtù di questa duplice opzione che il nostro istituto valorizza le possibilità del gruppo come strumento di lavoro.<br /></span> </div> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> </ol><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>La costruzione del laboratorio di apprendimento</b><br />IL LABORATORIO gruppale si configura come ottimo contenitore da utilizzare per fini squisitamente didattici. Al suo interno sono possibili esercizi molteplici finalizzati alla negoziazione dei conflitti dal momento che è la dialettica delle divergenze ad articolare le relazioni umane. L’apprendimento in gruppo è, in tal senso, una risorsa molto efficace. L’enfasi posta sulla questione tiene innanzitutto conto del fatto che parte di questi processi negoziali si configurano come soluzioni spontanee dell’articolazione delle divergenze e delle contrapposizioni mentre una considerevole fetta viene, nell’ambito di un percorso di formazione alla mediazione, modulata dal coordinatore-didatta. Il didatta agisce, in tali contesti, con una cifra stilistica francamente direttiva. Gran parte della dialettica dei conflitti che si generano in un gruppo di formazione viene, pertanto, utilizzata ai fini dell’apprendimento.<br />I nostri gruppi di formazione non sono, quindi, esenti da conflitti. I quesiti che emergono sono i seguenti:<br />- Che tipo di gestione è possibile concretizzare senza cadere nella trappola di istanze curative?<br />- Quali sono i rischi connessi con uno stile didattico di segno diametralmente opposto all’adozione di quelli francamente nozionistici? Tali stili, configurando un registro di apprendimento prevalentemente pedagogico e passivizzante, risulterebbero, a nostro avviso, del tutto “oblativi” anche se apparentemente rassicuranti, e non farebbero che acuire la presenza di aree cronicizzate dal “deposito permanente di conflitti, di crisi e di non-comunicazione”.<br />- Quali sono le difficoltà tensive connesse con un “apprendimento cosiddetto attivo”?<br />Vorremmo, pertanto, richiamare l’attenzione su talune nozioni di fondo che riguardano il modello di funzionamento gruppale nell’intento di evidenziare lo scarto esistente tra i due livelli:<br />- il livello del contenuto, coincidente con l’apprendimento di una tecnica specifica, e con un obiettivo, quindi, fortemente eterocentrato;<br />- Il registro relazionale dell’apprendimento che, affidato al contenitore- GRUPPO, è modulato dai particolari dinamismi che regolano i fenomeni connessi con il funzionamento di forme collettive di pensiero.<br />Intanto, delle numerose accezioni esplicative che accompagnano la concettualizzazione di “gruppo”, la più pertinente, in questa cornice, potrebbe essere quella che identifica il gruppo come “area fenomenica di mediazione tra l’individuo ed il sociale”.<br />Quando parliamo del gruppo come modello operativo e come strumento didattico ne identifichiamo essenzialmente due condizioni:<br />- La prospettiva epistemologica che “tenga conto della diversità fra l’individualità dell’uomo biologico e la sostanziale molteplicità della struttura psichica data dalla introiezione della cultura di appartenenza attraverso le identificazioni” (Lo Verso, 1985).<br />- Il livello operativo che comprende il set, i contesti istituzionali, gli scopi di lavoro del gruppo, il ruolo del didatta in qualità di conduttore.<br />Le nozioni che, a nostro avviso, si rivelano proficue nella decodifica degli stili di funzionamento dei processi interattivi e mentali di un gruppo, provengono da specifiche cornici gruppaliste che si possono riassumere nei modelli di Lewin (Ossicini, 1985), Bion (1961, 1970), Pichon- Riviere (1977).<br />La cosiddetta “field-theory” di Lewin sottolinea le caratteristiche di interdipendenza tra gli elementi che costituiscono il campo gruppale. Bion ed i suoi epigoni ipotizzano la strutturazione di una griglia utile non solo nella decodifica del funzionamento dei gruppi in senso lato ma anche di macro-sistemi quali le istituzioni sociali.<br />Ciò che, secondo Bion, conferisce specificità al gruppo sono gli scopi espliciti per cui il gruppo si riunisce e che configurano il livello del gruppo di lavoro. E’ tale livello ad essere responsabile della caratteristica cultura del gruppo, che, nel caso si tratti di gruppi didattici, coincide con l’apprendimento della tecnica. </span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>La genesi e le forme di conflittualità nei gruppi di formazione</b><br />In questa cornice cominciamo a parlare di conflittualità implicita. La dimensione conflittuale origina dalla tensione dialettica tra il livello “manifesto” del lavoro del gruppo e quello “latente” inerente le ansie primitive messe in moto dal partecipare al gruppo come spazio collettivo di pensiero. Sappiamo come l’assetto emotivo di queste ansie possa dar luogo a delle peculiari aggregazioni emotive che prendono il nome di assunti di base e che corrispondono a dinamiche difensive del gruppo. Tali assunti hanno la funzione di evitare la frustrazione dell’apprendimento.<br />Quindi <b>l’apprendimento in sé quale scopo di lavoro è già, in qualità di compito, generatore di conflitto!</b><br />Nozione utile nella comprensione della genesi della conflittualità inespressa è quella di socialità sincretica, che sta ad indicare una socialità poco evoluta, basica, fondata su vissuti ed esperienze che è difficile verbalizzare. La socialità sincretica è alla base dell’identità sincretica dei membri del gruppo. Secondo Bleger (1992) in tutti i gruppi esiste, infatti, un’identità diversa dall’identità evoluta che si può chiamare identità gruppale sincretica e che si appoggia non su un’interazione o regole di livello evoluto, ma su di una socializzazione in cui tali limiti non esistono. Il livello sincretico, non verbale, ed il livello evoluto della relazione non sono separabili. Risultano, anzi, strettamente interdipendenti. Un attacco alla socialità sincretica ha come conseguenza una situazione di grave malessere. Questi attacchi portano a scontri di sottogruppi. I sottogruppi, irriducibilmente contrapposti, non si creano tanto perché vi sono opinioni diverse, quanto perché vi è un’identità ferita nell’identità sincretica che ogni sottogruppo sente. E’ stata lesa una certa immagine del gruppo. E’ stato oltraggiato un certo modo di intendere la socialità. E’ stato cambiato qualcosa che permetteva alle persone di avere un ponte per identificarsi con quel gruppo. Ogni sottogruppo attribuisce la lesione all’altro gruppo e la gestisce con una lotta intestina.<br />Bion esprime idee complementari a queste. Egli afferma che lo scisma, la suddivisione, cioè, di un gruppo in sottogruppi contrapposti, si verifica ogniqualvolta il working in progress, connesso al lavoro dell’apprendimento, determina una spinta al progresso e l’attivazione di differenze. Tale attivazione viene avvertita come pericolosa per la cosiddetta mentalità primitiva del gruppo, che corrisponde al livello basico, fusivo di fondo…I due sottogruppi, contrapposti nello scisma conflittuale, non sono uno sostenitore del gruppo razionale e l’altro del gruppo primitivo, ma ambedue tendono ad arrestare il cambiamento complessivo del gruppo che viene sentito come catastrofico. Il progresso troppo rapido, genera, in altri termini, conflittualità nella misura in cui lede la socialità e l’identità sincretica.<br />Questo genere di griglia esplicativa torna utile nella misura in cui giustifica la psicogenesi di certa fenomenica conflittuale che assume fisionomia differente nell’arco dei due anni previsti dal contratto formativo.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Considerazioni pragmatico-contestuali sulla dinamica e sulla qualità dell’apprendimento in gruppo: genesi della conflittualità</b><br />Il gruppo didattico rientra nella categoria dei gruppi operativi. Quando si parla di gruppo operativo si intende una situazione molto concreta nella quale ha fondamentale importanza il concetto di compito. A tale proposito è molto utile lo schema di Bauleo (1978) applicato alle dinamiche dell’apprendimento in gruppo.<br />Seguendo tale schema si può dedurre che il didatta si configura come il coordinatore del gruppo. La differenza tra leader e coordinatore consiste nel fatto che il leader è all’interno del gruppo, il coordinatore, invece, sta in posizione decentrata rispetto al gruppo. Il leader sarà uno dei membri che il gruppo sceglierà come possibilità di riorganizzarsi intorno al compito. Ogni gruppo sceglie il leader di cui ha bisogno per risolvere il proprio compito.<br />La funzione del coordinatore non è di entrare nel gruppo come leader e dire al gruppo cosa deve fare, ma lavorare sulla relazione-vincolo, relazione dialettica tra gruppo e compito: sui piani didattici questo significa che la funzione del didatta sta anche nell’osservare ed analizzare le modalità ed il registro o meglio la tipologia di relazioni che il gruppo utilizza per organizzare lo svolgimento del compito.<br />Il problema del coordinatore-didatta è, dunque, quello di lavorare osservando anche come il gruppo sviluppa il suo compito. Altri tre elementi si possono definire essenziali: informazione, stato emotivo e produzione. Questi elementi ruotano attorno ad un concetto implicito nell’attività di apprendimento che è il concetto di cambiamento.<br />Il modulo di apprendimento in gruppo è rispettoso di alcuni presupposti come la nozione di contesto: è in questa direzione che parliamo di “ecologia dell’apprendere” (la situazione ambientale che permette lo sviluppo dell’apprendimento, con tutta la sovrastruttura delle matrici culturali), e di affettività come motore di ricerca (in senso epistemofilico) dell’informazione.<br />All’apprendimento meccanico, basato sulla memorizzazione, si sostituisce l’apprendimento come produzione, che significa non solo assimilazione dell’informazione ma anche possibilità di utilizzarla. E’ quello che noi definiamo “apprendimento attivo” e che cerchiamo di concretizzare nei nostri modelli didattici, compresi quelli formativi alla mediazione.<br />L ’apprendimento attivo passa, nella nostra esperienza, attraverso una qualità interattiva della relazione docente-allievi che costruisce definizioni a partire da input forniti dal docente. Il didatta diventa, pertanto, una sorta di modulatore o meglio regolatore dell’apprendimento. Egli facilita, in questo senso, i processi di assimilazione di concetti da parte dell’allievo: non è mero fornitore di un sapere preconfezionato. Tale modulo sembra essere quello più consono ai contesti formativi e, soprattutto, nel caso di gruppi di formazione segnati dal registro dell’eterogeneità, risulta essere produttivo ma non scevro della presenza di una certa tipologia di conflitti. Le strategie impiegate, i ruoli in gioco, gli atteggiamenti, le concettualizzazioni sono elementi che risultano assai diffusi e indifferenziati.<br />E’ utile, inoltre, tracciare un quadro del processo evolutivo del gruppo in rapporto alla definizione delle diverse fasi a partire dal tentativo di osservare come si disimpegna un gruppo di recente formazione nei confronti di un compito e le vicende che, invece, attraversa durante il suo sviluppo. Rispetto alla linea di funzionamento possiamo dire che si evidenziano tre momenti o meglio tre fasi:<br />- Il 1° momento è quello che si può definire di indiscriminazione. Gli obiettivi del gruppo appaiono confusi, dal momento che il compito non risulta ancora chiaro, e si costituiscono quali elementi assai diffusi e indifferenziati. Il tratto distintivo del gruppo risulta essere un’incoerenza organizzativa in rapporto al compito. Le indicazioni del coordinatore-didatta devono orientarsi, in tale fase, più verso l’impostazione che verso il compito.<br />- La 2° fase, indicata come la fase di discriminazione o di differenziazione, è quella di chiarificazione di base dei ruoli del coordinatore e dei membri; iniziano a delinearsi il compito manifesto e quello latente, in definitiva i suoi caratteri espliciti: lo scopo dell’incontro, gli aspetti impliciti (il tipo di aspettative). Solo in questa fase è possibile osservare la presenza di elementi quali l’appartenenza al gruppo e la pertinenza rispetto al compito una volta chiariti i fattori basilari (ruolo e compito). L’emergere di determinate leadership è coerente col modo di affrontare il tema e la struttura del gruppo.<br />- il terzo momento, o momento di sintesi, si ha quando il gruppo comincia a compiere esperienze di integrazione dei vari sottotemi, realizzando unità di sintesi. Di qui la necessità operativa di elaborare il sistema relazionale (interpersonale) prima di passare all’approccio del tema.<br />Vanno chiariti alcuni aspetti quali:<br />- l’elaborazione di un sistema relazionale è anch’essa un apprendimento (nel caso di gruppi della formazione alla mediazione, tale registro è cassato per contratto);<br />- è necessario individuare e valutare tale apprendimento;<br />- l’apprendimento si riferisce ad un compito;<br />- l’informazione, lo stato emotivo e la produzione assumono caratteristiche diverse nei momenti dell’apprendimento di un compito.<br />L’interagire, il regolare i comportamenti, il rendere un oggetto “comprensibile” agli altri, produce cambiamenti in ciascun membro. Il ruolo o l’attribuzione di ruoli divengono il fattore chiave ai fini dello svolgimento di un compito.<br />Un gruppo affronta il compito con gli strumenti in suo possesso, utilizzando, ad es., i comportamenti abituali, che, se ripetitivi e fissi, diventano degli “stereotipi”.<br />Durante il funzionamento del gruppo sorgono dei problemi comunemente definiti resistenze che impediscono l’apprendimento. Tali resistenze si possono manifestare attraverso due sottogruppi: uno si occupa della cospirazione ed il suo leader è il sabotatore; l’altro, il sottogruppo del progresso, si incarica di portare avanti il lavoro del gruppo, e il suo è il leader del progresso. Il coordinatore-didatta farà in modo di unificarli. Un gruppo funziona quando il ruolo di leader è sostenuto da tutti i membri. Se non c’è rotazione di leadership e queste sono fisse, ne può derivare lo scontro dei due sottogruppi. La funzione del coordinatore sarà quella di mostrare che i sottogruppi indicano aspetti del compito. Vale a dire che ciò che ciascun sottogruppo esprime, spesso attraverso i suoi leader, sono versioni sul compito. Per questa ragione è indispensabile una rotazione della leadership ma non il suo annullamento.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>I processi negoziali nell’ambito dei gruppi di formazione</b><br />Accreditate definizioni del processo conflittuale concordano nel ritenere che esiste “conflitto ogniqualvolta esistano attività incompatibili”. All’interno di una visione sistemica torna efficace la definizione di conflitto in quanto contesto in cui possono avvenire procedure di riaggiustamento per ridurre e risolvere l’opposizione, mediante concessioni reciproche.<br />In questa ottica il concetto chiave diventa quello della cooperazione piuttosto che quella del consenso, essendo la cooperazione un processo relativo alla soluzione di un problema in termini tali da rendere possibili il permanere di differenze anche fondamentali. Essa richiede un insieme di procedure condivise e comunemente accettate, giocate essenzialmente su regole attinenti la negoziazione. La negoziazione “si basa sull’accettazione delle differenze e sul desiderio di raggiungere delle mete condivise”. La negoziazione è, inoltre, qualitativamente diversa dal compromesso, che si riferisce a posizioni in contrasto, in attesa di una decisione del tipo “meglio poco che nulla”. Uno dei problemi fondamentali nell’analisi del conflitto consiste, perciò, nell’individuare le caratteristiche, i meccanismi e i processi che rendono il conflitto positivo o negativo, nel comprendere, ai fini del funzionamento del gruppo, quali modalità consentano una “gestione produttiva delle divergenze” e se sia possibile facilitare tale processo. Il conflitto emerge anche in assenza di assoluta incompatibilità di scopi: può avvenire, cioè, sia in un contesto competitivo che in un contesto cooperativo.<br />La competizione o la cooperazione sono due modalità fondamentali di conduzione del conflitto, rilevanti non solo in relazione all’esito di questo (accordo o perdita-vincita), ma anche in relazione al processo che la sua gestione implica o ai fattori che possono influenzare le sue possibili soluzioni in modo soddisfacente per le parti coinvolte. Naturalmente la risoluzione positiva o negativa degli elementi conflittuali è consentita dalla complessa serie di trattative e scambi che punteggiano il corso del conflitto. Da quando, in ambito psico-sociale, si è posta attenzione ai fenomeni conflittuali, è divenuto patrimonio comune l’uso del termine “negoziato” o “negoziazione”.<br />E’ noto che elementi comuni a qualsiasi tipo di negoziato mediante i quali è possibile ricavare, in prospettiva, utili indicazioni per una gestione operativa del processo più efficace debbano essere i seguenti:<br />- che le parti riconoscano di essere in contrasto;<br />- che le parti riconoscano la necessità di pervenire ad una composizione del contrasto;<br />- che le parti si accordino sulla scelta di un luogo in cui concretizzare i loro tentativi di soluzione;<br />- che le parti operino con dinamismi per raggiungere degli obiettivi.<br />Se alla parola “parti” si sostituisce il termine “sottogruppo” possiamo provare ad individuare quali strategie utilizzano i sottogruppi, nell’ambito dei contesti di apprendimento, per la gestione degli inevitabili conflitti che vi si generano.<br />Vanno, a tale riguardo, menzionati alcuni criteri di orientamento che rendono più agevoli le strategie di concordato tra i sottogruppi. I fattori che, ad esempio, riducono le condotte competitive propiziano il ricorso a strategie di mediazione; così come le condizioni di “impasse” sollecitano le disponibilità delle parti a condurre negoziati.<br />Se questi presupposti li caliamo nella realtà dei gruppi in apprendimento possiamo, allora, ipotizzare che “mediare una accordo sulle varie versioni di una definizione che possono venir fuori nell’ambito di un processo di apprendimento, significa affidare ad un coordinatore-didatta una posizione meta che consenta lo scambio dialogico, al fine di favorire un comportamento collaborativi fra le parti in disaccordo”.<br />Si può produrre un’esemplificazione a partire da un episodio concreto.<br />Durante un incontro di esercitazione didattica, è stato registrato uno scarto nelle abilità allo sviluppo del compito tra i due sottogruppi di lavoro. Il registro esperienziale mostra la diversa efficacia nello sviluppo del compito. Lo stile di svolgimento, concretizzatosi con modalità differenti nell’ambito di ciascun sottogruppo, si è rivelato maggiormente proficuo nel sottogruppo caratterizzato dalla presenza di dinamiche competitive rispetto all’altro sottogruppo, apparentemente privo di relazioni conflittuali. La dinamica competitiva ha, infatti, organizzato, all’interno delle relazioni, regole e strategie di concessioni reciproche, che si sono rivelate proficue per un’operazione produttiva delle nozioni. Nell’altro l’assenza apparente di un regime competitivo, la persistenza di una dimensione di a-conflittualità, l’orientamento verticale nello svolgimento del compito si è rivelato meno efficace.<br />Si può concludere, dunque, che un processo negoziale nell’ambito di un gruppo in formazione appartiene, in parte, alla dinamica relazionale che la configurazione di ciascun sottogruppo mette in essere per lo svolgimento del compito ed, in parte, alla direttività del didatta che concilia e media le diverse posizioni rispetto ai significati, utilizzando accorgimenti strategici mediati dal registro relazionale. Il negoziato è, anche in questi contesti, qualche cosa di più di un semplice baratto: è un delicato processo di raccolta e di organizzazione delle informazioni che, opportunamente pilotato, può operare una trasformazione del conflitto da paralizzante a potenzialmente efficace e, quindi, costruttivo per l’apprendimento. Tale trasformazione risulta, alla fine, rispettosa della nozione, oramai universalmente acquisita, che il conflitto sia un’esperienza fondamentale in qualsiasi rapporto d’interazione, essendo, per le sue emergenze fortemente catalitiche, un potente attivatore di rapporti. </span></p> <p><span style="font-size:100%;"><strong>Bibliografia</strong></span> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span> </div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <ul> <li><span style="font-size:100%;">Bauleo A. J. (1978), Ideologia, gruppo e famiglia: controistituzione e gruppi, Feltrinelli Editore, Milano</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Bion W.R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando Editore,Roma 1971</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Bion W.R. (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Editore, Roma 1973</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Bleger J. (1992), Simbiosi e ambiguità, Lauretana Editore, Loreto</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Ossicini A.(1981), Kurt Lewin e la Psicologia Moderna, Armando Editore, Roma </span></li> <li><span style="font-size:100%;">Lo Verso (1985), La gruppoanalisi tra istituzione interna ed esterna: un modello clinico ed ermeneutica, Quaderni di Psicoterapia di gruppo, n°4 Borla Editore, Roma</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Pichòn- Rivière E.(1977), Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Lauretana Editore. Loreto 1985 </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> </ul><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"> </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div> </div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-47796537765923251292007-04-06T22:14:00.001+01:002008-12-09T00:02:32.305+01:00PADRI, AFFIDAMENTO E MEDIAZIONE<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMTkCZ4hToaFW0cM8hN-MzY-XVb1JizWmLx7-BztONlHc69sIpRPBrnm2UKft0hYT24IMduJjZb146ShpOvecId9xNVyaoSZ8lo7Jwg59nk3tSMhHIiU-VoJ0rIdsllLzIs27QfHgOQRc/s1600-h/10.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMTkCZ4hToaFW0cM8hN-MzY-XVb1JizWmLx7-BztONlHc69sIpRPBrnm2UKft0hYT24IMduJjZb146ShpOvecId9xNVyaoSZ8lo7Jwg59nk3tSMhHIiU-VoJ0rIdsllLzIs27QfHgOQRc/s320/10.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050453524511910450" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;font-size:100%;" >Livia Turco</span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Psicologa, Roma, Formata alla mediazione presso ITFS Psicoterapeuta in formazione ITFF</span></p><span style="font-size:100%;"> </span> <div style="font-family: arial;" align="justify"><div align="justify"><div align="justify"><p> </p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">Quando ho cominciato ad osservare il fenomeno del cambiamento della relazione padre e figlio in particolare in seguito alla separazione coniugale, sono rimasta colpita dalla difficoltà di rintracciare un’uniformità nel modo di osservare, concepire, vivere, oggi, la paternità.<br />Il quadro non appare di semplice lettura a causa della contraddittorietà e della grande variabilità dei modelli comportamentali, affermatisi e tuttora in evoluzione, a seguito di grandi trasformazioni storiche, sociali, giuridico-istituzionali e culturali che sono intervenute a modificare ruoli antichi e consolidati.<br />Le famiglie, è sotto gli occhi di tutti, stanno cambiando. Non esiste più un unico e rassicurante modello di riferimento.<br />Sempre più spesso assistiamo alla nascita di nuove forme di vita in comune: famiglie separate, famiglie ricostituite, famiglie “allargate”, famiglie di coppie omosessuali, nuclei familiari monoparentali e unioni di fatto.<br />Sono mutati i rapporti tra i sessi, le donne sono entrate a far parte del mondo del lavoro; le nascite sono drasticamente diminuite, si è innalzato il livello di scolarità e si è allungato il periodo di dipendenza dei figli dalla famiglia; sono cambiate le attese nei confronti della vita di coppia e le relazioni all’interno del nucleo familiare.<br />La famiglia è vista sempre più come un luogo di scambio affettivo, di costruzione di sé, di coesistenza di identità individuali, di sviluppo e di realizzazione personale. Gli uomini che decidono di “metter su famiglia” si trovano sempre più coinvolti in una paternità immediata e diretta e non, come avveniva in passato, in una paternità a distanza (autoritaria e simbolica) e posticipata all’adolescenza dei figli.<br />Oggi delimitare la funzione paterna in termini di risposta al ruolo di bisogno di autorità e di mantenimento economico dei figli è alquanto riduttivo.<br />Superato il periodo di eclisse totale, si assiste ad un rinnovato interesse verso il tema del padre come evidenziano i sempre più frequenti convegni, conferenze, dibattiti, trasmissioni televisive ed anche spot pubblicitari che si occupano in qualche modo di paternità.<br />Si fa un gran dibattere sull’esistenza o meno di un istinto paterno per certi aspetti simile a quello che consente ad una madre di essere “sufficientemente buona” (Winnicott) per ciò che riguarda la cura e la crescita dei figli.<br />Diverse ricerche fatte negli Stati Uniti, dimostrano che lì dove il padre sia posto nella condizione di doversi occupare del figlio anche molto piccolo è in grado di surrogare la madre completamente. E appare del tutto legittimo opinare che un padre sia in grado, non solo e non tanto di “surrogare” la madre, ma anche, e soprattutto, di stabilire con il figlio una relazione affettiva importante del tutto peculiare al modo di essere di entrambi: una relazione che consenta al bambino di crescere e di vivere nel modo migliore possibile.<br />A questo proposito mi ha molto colpito la testimonianza di Raul Medina Centeno, docente in Psicologia Sociale a Madrid e ricercatore presso l’università di Cambridge, il quale riferisce che si riscontra una sensibilità del tutto nuova, da lui definita come “istinto paterno”, in quei padri che, per diverse situazioni, si sono assunti totalmente la responsabilità dei loro figli.<br />Pur senza voler assegnare un valore scientifico alla sua biografia, essa mi sembra comunque utile e molto significativa ai fini dell’argomento che stiamo affrontando.<br />La sua personale esperienza è quella di padre di due bambini piccoli, di cui si è assunto molto presto la piena responsabilità in seguito alla morte prematura della moglie.<br />Questo evento molto doloroso ha cambiato radicalmente il suo modo di essere padre. In seguito alla nascita dei bambini, la coppia genitoriale aveva stabilito un accordo di divisione dei compiti impostata su un modello di famiglia piuttosto tradizionale in base al quale il padre avrebbe continuato a lavorare a tempo pieno fuori casa e la madre si sarebbe presa cura dei bambini. Essendo quest’uomo anche un padre molto affettivo, guardava con occhio di ammirazione il rapporto che la madre aveva instaurato già con il primo figlio Alex: “notavo che loro condividevano un proprio mondo, che si esplicava con un linguaggio corporeo comprensibile soltanto a loro due, come quando Alex aveva fame, sete, caldo, freddo o una colica ecc. La mia spiegazione e consolazione di tale speciale condivisione, come padre, era che fosse effetto dell’istinto materno…”. In seguito era nata un’altra bambina, Nicole e, nonostante il padre si fosse assunto più compiti rispetto al primo figlio, la suddivisione dei compiti aveva continuato ad esistere.<br />In seguito prima alla malattia e poi alla morte della moglie l’assetto familiare aveva dovuto subire un radicale cambiamento “Quella situazione mi obbligò a prendermi cura dei figli a tempo pieno e cambiò profondamente le mie responsabilità di padre. Ogni giorno imparavo qualcosa di nuovo, cambiare i pannolini o cantare una ninna nanna. Oggi, con i miei figli, abbiamo instaurato una relazione significativa che si esprime attraverso un linguaggio comune. Ad esempio, durante la notte, anche se addormentato, riesco a sentire ogni loro movimento; capisco quando sono stanchi, ammalati, quando hanno fame o sete, quando vogliono giocare dormire o riposare. Curiosamente anche loro mi ascoltano, sono al corrente di me; ciò spiega la natura interattiva della paternità.<br />D’altro canto, ho anche sperimentato dei radicali cambiamenti nel modo di esprimere i miei sentimenti a loro…Tutto questo mi fa pensare a qualcosa di viscerale che è sorto in me: probabilmente un istinto paterno”.<br />Sicuramente non è facile per i padri farsi spazio in un mondo che è da sempre appannaggio delle donne. Le figure di riferimento per i bambini, ancora oggi, sono quasi sempre ed esclusivamente femminili: le mamme, le maestre, le baby-sitter, ecc.<br />Eppure, al di là di tutte le contraddizioni insite nei periodi di trasformazione, oggi i padri dimostrano di voler esserci all’interno della rete affettiva familiare. Fin dal momento della gravidanza sono più partecipi e vicini alle loro compagne. Sono entrati in sala parto e prendono parte alla vita dei figli fin da quando questi sono ancora molto piccoli: non è più così raro vedere un padre con il neonato in braccio o che lo porta a spasso nel marsupio o nella carrozzina.<br />Questo cambiamento sembra essere soprattutto individuale e avviene con una grande variabilità che dipende da diversi fattori: le caratteristiche e le storie personali di ciascuno, la generazione di appartenenza, il livello economico e culturale, il contesto allargato di riferimento e così via.<br />Concentrandosi sull’essenza delle questioni, ritengo di poter affermare che le immagini della paternità più evocate sono quelle della presenza e della partecipazione e, contemporaneamente e specularmente, quelle dell’assenza e della perifericità.<br />Queste due posizioni solo apparentemente si contrappongono. In effetti, la consapevolezza dell’assenza paterna e la realizzazione dei costi che questa provoca all’interno della famiglia e nei figli, nasce nel momento in cui i padri si inseriscono e acquistano una loro pregnanza all’interno della rete affettiva familiare.<br />Eppure, anche se l’importanza della figura paterna nella vita dei figli è ormai individualmente ed almeno in parte socialmente riconosciuta, ancora oggi si incontrano molteplici ostacoli nel vivere un rapporto, tra padre e figlio, pienamente coinvolgente ed affettivamente importante.<br />La varietà e l’incidenza di questi ostacoli sono particolarmente evidenti nel caso della separazione coniugale. Proprio in seguito a questo evento, infatti, la relazione padre-figlio deve fronteggiare il rischio di una sostanziale rottura, a causa del persistere di pregiudizi, convenzioni, tradizioni sociali e consuetudini giudiziarie che tuttora prevalgono nelle decisioni per l’affidamento della prole, nonostante l’evoluzione oggettiva, compiuta sul piano del sentire sociale e del diritto, in direzione di una maggiore parità genitoriale.<br />Nel momento in cui la famiglia si separa sembrano riproporsi, da parte del contesto sociale, culturale, giuridico all’interno della quale essa è inserita, modelli anacronistici secondo i quali alla donna spetta la cura degli affetti e all’uomo il mantenimento economico.<br />Quasi sempre, in caso di separazione, si verifica uno squilibrio evidente a favore dell’affidamento monogenitoriale alla madre che, il più delle volte, comporta una radicale esclusione del padre dalla vita del figlio.<br />Se non consideriamo i casi di madri che rinunciano all’affidamento o il cui comportamento appare particolarmente deviante o in cui si riscontrano evidenti patologie, si può concludere che, tutt’oggi, per la nostra società, per la nostra cultura, per larga parte del nostro sistema giudiziario, i figli continuano ad appartenere ancora e soprattutto alle madri.<br />Le statistiche dell’Istat mostrano che fino al 1998 l’affidamento ai padri ha subìto un calo progressivo: nel nostro paese i figli dei separati vengono affidati nel 90,9% dei casi alle madri, nel 4,7% ai padri, nel 3,9% ad entrambi i genitori, attraverso l’affidamento alternato o congiunto, e nello 0,5% “ad altri”. Se osserviamo le percentuali vediamo che l’affidamento dei bambini al di sotto dei sei anni, alla madre, è ancora più elevata, il 94%, mentre quella al padre è al di sotto del 3%.<br />Il fenomeno che appare più vistoso, comunque, è lo squilibrio esistente a favore dell’affidamento monogenitoriale (oltre il 95%). E ciò proprio perché esso appare in contrasto con i risultati delle sempre più numerose, diffuse ed autorevoli ricerche che indicano come fondamentale, per i figli dei genitori separati, il mantenimento della “bigenitorialità” e della continuità affettiva con entrambi.<br />Molto spesso, in sede di separazione coniugale, i padri vengono relegati, da parte delle istituzioni giudiziarie, ad un ruolo del tutto marginale: la prassi vuole che un bambino figlio di genitori separati di norma veda il padre un fine settimana sì e uno no, quindici giorni l’estate e qualche altro giorno durante le feste.<br />Sappiamo d’altronde che l’ansia del cambiamento e le resistenze da esso indotte possono portare ad un modo di ragionare stereotipato.<br />Questo è esattamente ciò che sembra avvenire nei nostri tribunali quando il giudice stabilisce le modalità di affidamento dei figli in seguito alla separazione, quasi sempre alla madre, senza ascoltare i minori, quasi mai facendo ricorso alla CTU che consentirebbe di approfondire le dinamiche e la situazione familiare.<br />All’interno del sistema giudiziario gli elementi della coppia in via di separazione che vengono privilegiati, in base all’abitudine di affrontare le questioni in termini di contenzioso, sono quelli conflittuali, per cui l’esito del giudizio porterà ad individuare necessariamente una parte vincente ed una perdente; l’oggetto più rilevante di questo contenzioso spesso è proprio l’affidamento dei figli.<br /><br />Ancora oggi, come molte ricerche dimostrano, una parte dei giudici procedono all’affidamento in base a criteri rivolti ad evidenziare le caratteristiche della personalità dei due genitori attribuendogli, per di più, una valenza negativa in funzione dell’esclusione dell’affidamento piuttosto che della sua attribuzione. Questo non fa altro che aumentare i risentimenti, le frustrazioni, il senso di inadeguatezza di chi – prevalentemente il padre – si sente punito e tagliato fuori.<br />Solo in questi ultimi anni, presso alcuni tribunali, si vanno affermando i criteri della disponibilità di accesso all’altro genitore e del rispetto della bigenitorialità.<br />Tutto questo al di là delle intenzioni di ciò che e scritto è prescritto dalla legge. La motivazione che deve maggiormente condizionare la scelta delle modalità di affidamento in seguito alla separazione, è quella che si basa sull’interesse del minore: ma da nessuna parte viene descritto e definito cosa sia realmente questo tanto citato interesse.<br />E’ come se la paternità, che sta acquisendo un suo significato e una sua forza all’interno del nucleo familiare, a livello sociale e giuridico sia caratterizzata invece da una certa debolezza e da una mancanza di riconoscimento.<br />Questa frattura tra contesto individuale e familiare da una parte, e contesto sociale dall’altra, può diventare fonte di una sofferenza che va ad aggiungersi a quella della separazione quando, in seguito al mancato superamento della crisi coniugale, una relazione importante e significativa tra padre e figlio viene ostacolata, impedita, interrotta.<br />L’analisi della documentazione e delle indagini disponibili dimostra che fortunatamente non tutte le famiglie che si separano hanno problemi per raggiungere nuovi equilibri che siano adeguati per ogni componente, e che non tutti i padri separati rivendicano la loro presenza nella vita dei figli. Ma altrettanto sicuramente dimostra che molti padri che vorrebbero mantenere una continuità affettiva con i propri figli in seguito alla separazione incontrano serie difficoltà.<br />I sintomi di questo disagio sono evidenziati, tra l’altro, dalla progressiva diffusione di associazioni di genitori e, in particolare, di padri separati, che sono una delle nuove e rare occasioni in cui anche gli uomini si riuniscono per affrontare problemi legati alla sfera affettiva.<br />I casi più estremi si concretizzano nei numerosi e spiacevoli fatti di cronaca le cui motivazioni sono spesso legate alle difficoltà ed alla sofferenza conseguenti alla separazione coniugale.<br />L’associazione “EX” dal 1996 ad oggi ha raccolto in un archivio più di 500 casi di morte violenta, per un totale di oltre 600 vittime, maturate nell’ambito delle separazione.<br />Con questo non vorrei banalizzare un problema che ha determinanti molto complesse. Il disagio e le difficoltà conseguenti alla separazione solo in alcuni casi possono funzionare da miccia per l’esplosione di una violenza smisurata e incontenibile, contro se stessi o contro coloro che si ritengono responsabili della propria sofferenza.<br />Tuttavia è innegabile che i genitori che si separano, nel rivolgersi all’istituzione esterna, sono alla ricerca di un contenimento e di un sostegno che raramente e difficilmente può oggi trovare soddisfazione nelle aule dei tribunali. Questo sistema, abituato a risolvere i problemi in termini di contenzioso, finisce per porre le parti in gioco su un piano di contrapposizione, alimentando e cristallizzando il conflitto, che in queste situazioni è già fisiologicamente molto elevato, oltre che altamente disfunzionale.<br />Sarebbe viceversa essenziale poter assicurare alla richiesta di aiuto fatta in seguito alla crisi separativa, una lettura degli eventi in termini di una maggiore complessità secondo un’ottica psicologico-relazionale che, fino ad adesso, è estranea alla formazione specifica di giudici ed avvocati.<br />Per cercare di ridurre lo scarto esistente tra i nuovi modi di sentire, considerare e vivere la paternità e ciò che effettivamente avviene in seguito alla separazione coniugale, bisogna probabilmente riuscire ad ampliare quelli che sono gli ambiti angusti dei tribunali e rivolgere lo sguardo anche ad altre risorse.<br />La percezione di questa necessità non è intuibile unicamente dal punto di vista psicologico, ma è sentita anche all’interno dello stesso ambito giuridico: varie proposte di legge, tuttora in discussione, attestano della volontà diffusa del legislatore di favorire l’evoluzione di una cultura giuridica diversa rispetto al passato, e più consona alle nuove sensibilità individuali e sociali, in materia di separazione. In queste proposte viene contemplata, in varie forme e modalità, la possibilità di offrire alla famiglia dei percorsi paralleli a quello giudiziario, per aiutarla in una fase altamente delicata del suo ciclo vitale.<br />La mediazione familiare, oltre che rivelarsi uno strumento utile per trovare e formulare degli accordi adeguati, si presenta come possibilità di ascolto in una situazione di crisi e cambiamento. I padri, come le madri, come pure i figli, possono riuscire in questo contesto, privo di elementi di pregiudizio ma anche di giudizio, ad avere uno spazio dove bisogni ed esigenze possano essere riconosciuti in funzione del raggiungimento di nuovi equilibri.<br />In questo senso mi sembra che la mediazione possa essere considerata uno strumento particolarmente utile per riuscire ad accorciare il divario che esiste tra situazione separativa e nuovi modi di vivere la paternità.<br />La ricerca compiuta da R. Emery, nello Stato della Virginia, negli anni 1999/2000 è un esempio di come, la mediazione familiare, possa essere un utile strumento protettivo delle relazioni, in particolare della relazione padre-figlio in seguito alla separazione coniugale.<br />Questo risultato risulta essere ancora più significativo dal momento in cui lo scopo di questa ricerca, riportata nel Journal of Consulting and Clinical Psychology, era unicamente quello di indagare gli effetti a lungo termine della mediazione familiare nei casi di separazione giudiziale, senza che questo avesse un collegamento specifico con i cambiamenti all’interno della relazione padre-figlio.<br />Alla ricerca hanno partecipato 71 famiglie che avevano fatto richiesta di un’udienza per l’affidamento dei figli in seguito alla separazione, nel periodo 1983-1986. A 35 di queste famiglie, scelte a caso, era stato proposto un percorso di mediazione familiare; le altre 36 avevano seguito il normale iter giudiziario.<br />Le caratteristiche principali dei soggetti che hanno partecipato alla ricerca (età, numero dei figli, ceto sociale, livello d’istruzione, razza, religione, ecc.) sono simili all’interno dei due gruppi.<br />In sintesi, secondo i risultati di questa ricerca, tra le famiglie che si erano rivolte al giudice per ottenere la separazione, quelle che hanno seguito un percorso di mediazione presentano, a distanza di anni, una partecipazione diversa dei padri alla vita dei propri figli rispetto a quanto si verifica nel caso delle famiglie che non l’hanno fatta: i padri sono molto più coinvolti nelle decisioni da prendere sui figli, hanno contatti con loro più frequenti e meno rigidamente stabiliti.<br />Allo stesso tempo la coppia genitoriale è caratterizzata da una certa dose di collaborazione e di diminuzione del conflitto, riesce a comunicare meglio e presenta un maggior grado di soddisfazione rispetto agli accordi raggiunti: spesso un figlio inizialmente affidato alla madre, è potuto andare, per esempio durante il periodo adolescenziale, a vivere con il padre.<br />Il livello di conflittualità tra i genitori che hanno fatto mediazione è più basso rispetto a coloro che non l’hanno fatta, nonostante i contatti siano più frequenti.<br />La ricerca dimostra infine come la mediazione favorisca il raggiungimento di accordi duraturi tra ex-coniugi: soltanto 4 dei 35 casi che hanno partecipato alla mediazione hanno contestato in seguito quanto stabilito dal tribunale, contro i 26 casi su 36 del gruppo che ha percorso unicamente la via giudiziaria.<br />Nonostante non fosse tra gli obiettivi dichiarati della ricerca è emersa una significativa differenza di genere nel livello di soddisfazione riguardante gli accordi raggiunti: mentre per le madri dei due gruppi risulta essere sostanzialmente uguale, per i padri che hanno fatto mediazione si registra una soddisfazione maggiore rispetto a quelli che non l’hanno fatta.<br />Gli autori attribuiscono questo risultato ad una minore soddisfazione degli uomini, nei confronti di un percorso esclusivamente giudiziario, piuttosto che ad una minore soddisfazione delle donne nei confronti della mediazione.<br />E’ mia opinione che l’importanza di questa maggiore soddisfazione riguardo agli accordi raggiunti non risieda tanto negli accresciuti livelli di rispetto per l’ex coniuge, o di correttezza nelle reciproche interrelazioni, o nell’abbassamento del livello di conflittualità, ma che essa sia piuttosto e soprattutto da rintracciare nella capacità di queste famiglie di ridisegnare le relazioni e stabilire dei chiari confini che permettano di ritrovare efficacemente dei nuovi equilibri.<br />L’idea che si sta facendo strada adesso è che non è possibile separare la dinamica genitoriale dalla dinamica della coppia. Non si può e non si riesce a fare i genitori se non si è in qualche modo elaborato il distacco emotivo necessario alla separazione. Un distacco che deve compiersi non attraverso una recisione totale del legame ma piuttosto attraverso lo stabilirsi della giusta distanza.<br />Si è visto che tra le coppie separate, quelle che riescono a funzionare meglio come genitori, sono proprio quelle in cui ancora esiste un certo grado di coinvolgimento affettivo tra gli ex-partner.<br />In particolare mi sembra che i modelli di mediazione che non si occupano esclusivamente di tecniche e di metodologie ma riflettono soprattutto sui contenuti offrano lo spazio elaborativo necessario in direzione del cambiamento.<br />Tra i più rappresentativi il modello simbolico-trigenerazionale, che ha preso vita, è andato definendosi e strutturandosi nella esperienza clinica e didattica dei terapeuti dell’Istituto di Terapia familiare di Siena e di Firenze dal 1990 ad oggi.<br />I precedenti modelli di mediazione familiare operavano una sorta di taglio emotivo, simile a quello compiuto dalla coppia per riuscire a separarsi, rispetto a tutti quegli elementi che necessitavano di elaborazione.<br />In questo modello, molta importanza viene data ai vissuti, connessi, da una parte, con l’esperienza di perdita, dolore, taglio che la separazione comporta e, dall’altra, con l’esperienza di congiunzione necessaria alla sopravvivenza del sottosistema genitoriale e al senso del legame con la propria storia personale e familiare. La considerazione per quelli che sono gli aspetti di continuità e di ricongiunzione nasce dal fatto che ricollegarsi con le storie familiari e mantenere un certo livello di coinvolgimento a livello genitoriale, sono elementi importanti per il benessere delle generazioni future (i figli).<br />Lo sguardo al passato aiuta i genitori a dare un senso diverso agli oggetti del contendere, nel tentativo di trovare uno spazio di collaborazione per generare risposte efficaci alla risoluzione dei problemi.<br />Per concludere mi sembra che la mediazione familiare e in particolare il modello simbolico-trigenerazionale, fornisca un suo specifico, originale e significativo contributo alla creazione di situazioni più favorevoli al mantenimento ed allo sviluppo di relazioni genitoriali e, in particolare, di rapporti padri-figlio più consoni ai nuovi modi di vivere la paternità. Costituisce inoltre un mezzo per aiutare i sempre più numerosi “figli del divorzio”, a crescere nel rispetto dei loro diritti, tra i quali certo non ultimo la continuità affettiva con i genitori: entrambi i genitori, madre e padre.<br />Vorrei a questo punto chiudere citando lo psicologo Henry Biller, che da oltre trent’anni si occupa di paternità: “…è sempre maggiore il numero dei bambini che crescono con la metà di ciò di cui hanno bisogno. E’ probabile che essi saranno solo la metà di ciò che dovrebbero essere”.</span> </p> <p style="font-weight: bold;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p> <ul> <li><span style="font-size:100%;">ANDOLFI M. (1999) “La crisi della coppia” Raffaello Cortina, Milano.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">ANDOLFI M. (a cura di) (2001) “Il Padre ritrovato” Francoangeli, Milano.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">DE BERNART R., FRANCINI G., MAZZEI D., PAPPALARDO L. (1999) “Quando la coppia finisce, la famiglia può continuare?” in ANDOLFI M. (1999).</span></li> <li><span style="font-size:100%;">DE BERNART R., MAZZEI D. (1998) “Tra Mediazione Globale e Mediazione Parziale: un percorso diverso” in Connessioni: Unioni Conflitti Mediazione n. 4.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">EMERY R. (1988) “Marriage, Divorce and Children’s Adjustment” Sage Publications Newbury Park, Cal. (USA).</span></li> <li><span style="font-size:100%;">EMERY R. (1994) “Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari” FrancoAngeli, Milano.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">EMERY R., LAUMANN-BILLINGS L., WALDRON M., SBARRA D., DILLON P., (2000) “Child Custody Madiation and Litigation: custody, contact. and co-Parenting 12 Years after initial dispute resolution” Journal of Consulting and Clinical Psychology, University of Virginia. </span></li> </ul> <p><span style="font-size:100%;"> </span></p> </div> </div> </div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-23828417764066995472007-04-06T22:14:00.003+01:002008-12-09T00:02:32.191+01:00PERCORSI ISTITUZIONALI E PROCESSI MEDIATIVI<div style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAzU-0yNsMFi-2p3gIX51rPPysRLu_odXdG6T4m5Fc6UcCbDRWPJFb-P-Or2kLgIb7JdQNNhjAdJ4m-3_9wjRrTrAGmit5GOowcBl58AwVkirBMtrdtXu7wTemDSs-1e5VNOf5UkYOPdw/s1600-h/11.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAzU-0yNsMFi-2p3gIX51rPPysRLu_odXdG6T4m5Fc6UcCbDRWPJFb-P-Or2kLgIb7JdQNNhjAdJ4m-3_9wjRrTrAGmit5GOowcBl58AwVkirBMtrdtXu7wTemDSs-1e5VNOf5UkYOPdw/s320/11.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050707567532501570" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Berniero Ragone</span></span><span style="font-size:100%;"><br /><br /><span style="font-family: arial;">Socio Didatta A.I.M.S. Ecopsys - Napoli</span></span><br /></div><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p><div style="font-family: arial;" align="justify"><div align="justify"><div align="justify"><p> </p> <div align="justify"> <p> <span style="font-size:100%;"><b>Premessa</b><br />La presente relazione è una parziale e limitata riflessione sulle potenzialità attuali della mediazione nelle istituzioni, intesa come prassi tendente a valorizzare gli aspetti propositivi e di crescita dei conflitti. L’autore è uno psichiatra, psicoterapeuta e mediatore che nel corso della sua esperienza professionale ha attraversato vari tipi d’istituzioni, prevalentemente di cura. Nella mia esposizione segnalerò tre situazioni tipo: un’esperienza in un carcere a custodia attenuata per tossicodipendenti, un centro di riabilitazione per handicap psico-fisici, una casa di cura psichiatrica privata.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Il funzionamento delle istituzioni</b><br />E’risaputo che le istituzioni, per loro caratteristica e particolarità, rappresentano un terreno di coltura favorevole allo sviluppo e alla crescita di conflitti. Questo avviene perché l’istituzione raccoglie e gestisce alcune formazioni e processi tra di loro eterogenei: sociali, politici, culturali, economici e psichici. In spazi che necessariamente comunicano tra loro, interferiscono e funzionano logiche tra loro differenti. E’ questo il motivo, per il quale, nella logica sociale dell’istituzione possono mischiarsi e prevalere alcune questioni e soluzioni che rientrano nel livello e nella logica psichica. Nelle istituzioni una parte considerevole degli investimenti è destinata a far coincidere in un’unità immaginaria questi ordini logici diversi e complementari, allo scopo di far scomparire la conflittualità che essi contengono. Nel lavoro con le istituzioni siamo così posti di fronte a tale sovradeterminazione, a tale plurifunzionalità, a tale complessità. Dove l’istituzione maggiormente riesce a tenere separate, ma integrate tra di loro, queste logiche diverse, con adeguata risposta ai conflitti che naturalmente si determinano tra queste parti, l’istituzione dovrebbe essere sufficientemente in grado di assolvere i compiti che si propone. Questa prospettiva più che un dato di fatto reale è prevalentemente una tensione, uno sforzo, spesso paragonabile alla fatica di Sisifo. Frequentemente, infatti, è privilegiato un livello, a discapito degli altri, con grosse ripercussioni sul sistema organizzativo e sulle relazioni con conseguenti alti livelli di conflittualità e malessere generale. Ovviamente per le istituzioni valgono gli stessi presupposti, riguardo al conflitto, riscontrati in altri ambiti mediativi: a volte esso è palesemente espresso, con grosso scadimento della comunicazione e della funzionalità organizzativa, ma il più delle volte, dato la prevalenza delle dinamiche economiche, di interesse, di ruolo e di potere, tendenzialmente sommerso, evitato, se non spesso mistificato e negato. Gli effetti di queste dinamiche sono deleteri sulla comunicazione e sulla soddisfazione lavorativa e, inoltre, si ripercuotono su quelli che sono gli standard qualitativi e strutturali del compito che l’istituzione è chiamata a compiere. Infatti, questa conflittualità anche se non distruttiva, al punto che raramente mette l’istituzione stessa a rischio della propria sopravvivenza, incide in maniera determinante su due condizioni fondamentali: una è il benessere psicofisico delle persone che nelle istituzioni sono legate a esigenze di natura professionale, e secondo, ma non meno importante, l’effetto che questa conflittualità determina su quello che è il compito istituzionale. Sappiamo, infatti, che ogni istituzione ha un proprio mandato sociale, un proprio compito da espletare. Nel caso ad esempio di un carcere il mandato sociale è quello del controllo della sicurezza sociale e del recupero dei soggetti che commettono reati. Ora un’istituzione può, pur avendo vari compiti, assolvere solo qualcuno di questi mandati o compiti, o addirittura non assolvere affatto il compito principale che le spetterebbe, ma addirittura assumerne altri. Ad esempio, sappiamo benissimo che i manicomi, e tutte le strutture preposte all’accoglimento di malati mentali, dovevano assolvere funzioni di cura, che significa il trattamento di particolari situazioni psicopatologiche. Ora la 180 e’ venuta a denunciare il fatto che queste istituzioni avessero totalmente perso di vista il compito che dovevano espletare per assumerne altri come quelli di custodia, emarginalizzazione e controllo sul malato psichico. Si era in altre parole perso di vista completamente la dimensione curativa e di recupero sociale del malato psichico. Ovviamente quando ciò accade dobbiamo immaginarci che si è sviluppata una sorta di perversione istituzionale, nel senso di un’unica modalità, rigidamente strutturata ed organizzata, attraverso la quale l’istituzione può funzionare. Tale modalità di funzionamento della istituzione può addirittura boicottare il compito principale cui l’istituzione è deputata a rispondere. In fondo è ciò che Bion ha detto quando parlando del gruppo di lavoro segnalava che se prendono corpo le dinamiche interne del gruppo, nel senso di Bion di assunti di base difensivi rispetto a quello che il compito mobilita, allora è il compito stesso a essere boicottato, in quanto prevalgono le esigenze difensive organizzate dal gruppo. Per le istituzioni, dobbiamo inoltre precisare, c’è sempre stata una doppia possibilità di guardare ai fenomeni in essa presenti secondo una prospettiva di tipo psicologico o secondo una prospettiva che tenesse più conto più del funzionamento organizzativo e di potere delle logiche istituzionali. In concreto questo ha significato lavorare sulle dinamiche conscie e inconscie del gruppo istituzionale, e sulle modalità comunicative al suo interno, oppure polarizzare l’attenzione e l’intervento sulle caratteristiche organizzative e strutturali della istituzione. Infatti, nell’approccio sociologico, che rimane il modello più diffuso di intervento nelle istituzioni, l’istituzione è concepita come un corpo, dotato di organi differenziati e distinti, ognuno per sé funzionante ma riconducibile ad un unità di intenti e di compiti. Questa versione per cosi dire meccanicistica di guardare alle istituzioni non tiene assolutamente conto dell’individuo in quanto persona. E’ fondamentale invece lo studio delle norme, dei ruoli, delle funzioni, delle regole e soprattutto di come è distribuito il potere all’interno della macchina istituzionale. l’idea è che per modificare l’istituzione è sufficiente modificare una legge o crearne una nuova. Questo intervento modifica gli altri fattori e ingloba quindi dentro di sé il cambiamento. Tale approccio non tiene in conto il fatto che un istituzione, attraverso il gruppo che lo caratterizza, è soprattutto un apparato di produzione di elementi mentali ed affettivi, un insieme di esperienze collettive, che caratterizzano un processo che si svolge nel tempo. Questo modello dell’istituzione sembra valorizzare alcuni caratteri dell’istituzione stessa che divengono l’espressione più tipica, per così dire paradigmatica di essa. Un altro tipo di intervento è quello socio-analitico. Esso è il tentativo di utilizzare concetti desunti dalla psicoanalisi per applicarli alla comprensione dell’organismo istituzionale. Difatti nella storia della psicoanalisi, alcuni psicoanalisti (non senza una chiara opposizione della istituzione psicoanalitica), sono stati messi a confronto, molto presto, sul terreno delle istituzioni (di cura, di rieducazione, scolastiche, penitenziarie, ecc…) con gli effetti dell’inconscio sui soggetti delle istituzioni stesse e nello spazio loro. Tale pratica non è mai stata veramente teorizzata, forse perché screditata come ‘psicoanalisi applicata’. A tutt’oggi non esiste una teoria sistematica e relativamente completa, di stampo analitico, sulle istituzioni, e i vari contributi di psicoanalisti colgono e descrivono aspetti parziali, e non sufficientemente integrabili in una teoria unitaria, delle dinamiche inconsce che si articolano all’interno delle istituzioni. Le descrizioni di eminenti psicoanalisti: Kaes, Fornari, Bleger, Kenberg, per citarne alcuni, sono delle affascinanti descrizioni delle dinamiche inconsce che si attivano all’interfaccia tra l’inconscio soggettivo e quello gruppale. Presupposto fondamentale è, infatti, che all’interno dell’istituzione si strutturerebbe una realtà psichica, prevalentemente di natura affettivo-emotiva e fantasmatica. Questa realtà psichica si determinerebbe attraverso contributi che l’inconscio del singolo soggetto porterebbe, per il costituirsi di ciò che viene chiamato apparato psichico gruppale. Si organizzano pertanto due livelli logici che l’analisi deve prendere in considerazione e di cui bisogna tenere conto: quello della realtà psichica del singolo soggetto e quello della realtà psichica emergente come frutto del raggrupparsi. Questo doppio livello della realtà psichica istituzionale va vista sempre insieme così come si guarderebbe una figura di Giano Bifronte. Ovviamente queste concettualizzazioni sono, anche se parziali, precise descrizioni di fenomeni inconsci, raffinate ed importanti per capire come funziona la vita emotiva e fantasmatica della istituzione, più difficilmente applicabili sul versante operativo. Tendenzialmente i presupposti di fondo di tali concettualizzazioni si scontrano con le ideologie che circolano in sistemi di natura più politico ed economica ed appaiono, in definitiva, poco proponibili. Sono molto utilizzati per capire le dinamiche che si attivano all’interno di istituzioni di cura, tra sistema dei curanti e pazienti. l’approccio relazionale, invece, ha maggiormente posto l’attenzione sulla interdipendenza dei sistemi in gioco in un ecosistema, e sulla importanza degli effetti comunicativi e comportamentali di questa interdipendenza in micro e macrosistemi. Ha avuto, in Italia, un promettente inizio soprattutto con la Selvini Palazzoli, che all’inizio si interessò molto delle logiche istituzionali. E’ attualmente uno strumento di comprensione e operativo per informare e dirigere interventi. Esiste, infatti, allo stato attuale, una forte prassi tendente ad intervenire in micro e macrosistemi con una logica di tipo sistemico relazionale. La maggior parte della letteratura sistemica però, tranne sporadiche iniziative di ricerca, ha poco sviluppato il tema dell’intervento sistemico relazionale nelle organizzazioni, privilegiando l’intervento clinico nella famiglia, nella coppia e nell’individuo. La mia ipotesi è che la mediazione istituzionale, inserita all’interno del modello di lettura dei fenomeni istituzionali e sociali di stampo sistemico relazionale, parrebbe porsi nell’interfaccia tra queste varie modalità, nel senso che, pur non sottovalutando il fattore emotivo circolante all’interno del complesso circuito istituzionale, costituito principalmente da gruppi, non focalizza il suo intervento principalmente su tali aspetti. Del resto la mediazione istituzionale non costituisce neppure un mero intervento operativo e strutturale, di tipo essenzialmente ortopedico, che non tenga conto della complessa trama relazionale di un sistema organizzativo.Questo è anche possibile a mio avviso perché la mediazione istituzionale non interviene sempre su situazioni allargate, ha degli obiettivi espliciti ben precisi e molto spesso limitati. Infatti la finalità della mediazione è la diminuzione se non della conflittualità negativa in toto dell’intero sistema, di segmenti, di pezzi di conflittualità all’interno di un gruppo di lavoro, in modo che, secondo un presupposto di tipo sistemico, questo tipo di risoluzione della conflittualità possa avere ripercussioni positive su tutto il sistema istituzionale. In concreto si addiverrebbe ad un miglioramento della qualità della comunicazione, ad una migliore capacità di realizzazione del compito istituzionale, e non ultimo, alla indiretta caduta, fin dove è possibile, dei livelli di sofferenza soggettiva, sia essa psichica che somatizzata, relativa ai ben noti fenomeni del burn-out e, recentemente, del Mobbing nelle istituzioni. Dobbiamo inoltre anche tenere presente le positive ripercussioni psicologiche ed emotive che i cambiamenti in campo istituzionale comportano in quanto essi sono scelti e portati avanti dagli stessi attori istituzionali. Questo presupposto è espresso in campo mediativo attraverso il concetto di empowerment: la sensazione cioè che se non tutto, parte delle proprie vicende istituzionali è tenuta sotto il possibile controllo soggettivo. E’ risaputo che uno degli aspetti fondamentali della sofferenza isituzionale dipende dal fatto che essa ostacola e addirittura ferisce fino a mortificare dolorosamente il proprio narcisismo. Questo è valido sia quando esso sì identifica con gli aspetti di ruolo e di potere all’interno della istituzione, ma a maggior ragione quando è messa in gioco l’esigenza di mantenere una propria immagine coerente con il sé, vero o falso che sia, e quindi, in definitiva, dei propri livelli di autostima. Il percorso istituzionale può fortemente incidere su queste aree. La mediazione rappresenta in questo senso una buona possibilità di recupero di parte di rifornimento narcisistico e, soprattutto, di quella sensazione di per sé gratificante rappresentata dal fatto che, comunque vadano le cose all’interno di un campo istituzionale, ci si è sentiti in qualche modo soggetti attivi di una soluzione conflittuale. E’ la sensazione positiva che nasce da una percezione maggiore di comprensione e di controllo della realtà esterna, che sortisce inesorabilmente degli effetti anche interni. </span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Esempi di funzionamento istituzionale</b><br />Fatta questa premessa generale entriamo maggiormente nel vivo della questione della mediabilità in campo istituzionale. Parlerò della mia esperienza all’interno di istituzioni come psichiatra proponendo una serie di spunti riflessivi. Ovviamente mi riferisco ad istituzioni che hanno tra altri compiti fondamentalmente quello di cura e recupero sociale di soggetti sofferenti sul piano psicologico. Come primo esempio consideriamo una struttura carceraria per il recupero di soggetti ex tossicodipendenti a custodia attenuata che hanno commesso reati collegati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Qui ci troviamo all’interno di un’istituzione caratterizzata da una forte componente storica ed ideologica di tipo restrittivo e punitivo, con poche possibilità reali di un recupero durante la pena carceraria, e con finalità esclusiva di controllo sociale. Tutta la nuova organizzazione carceraria, tesa a favorire l’immissione di maggiori possibilità di attenzione, ascolto e recupero delle problematiche personali e sociali del detenuto ex-tossico dipendente ha creato inesorabilmente molti aspetti di conflittualità, determinando una suddivisione in gruppi tra le varie figure professionali, con una tacita ma ostile tolleranza delle diverse parti istituzionali, nelle diverse iniziative, volte a favorire l’impegno e l’attività di recupero dei detenuti ex tossicodipendenti. Un certo tentativo di avvicinamento c’ è stato quando il ministero di Grazia e Giustizia ha proposto dei corsi al cui interno erano strutturate delle potenzialità culturali di apprendimento di nuove modalità di gestione del detenuto tossicodipendente. In definitiva questi corsi effettuati in strutture carcerarie di questo tipo ed anche in ospedali psichiatrici giudiziari hanno attivato un certo interesse, ma sostanzialmente hanno poco inciso su reali e propositivi cambiamenti dell’assetto mentale operante all’interno di tali contesti istituzionali. Ovviamente qui mi riferisco ad iniziative che nulla hanno a che fare con interventi francamente mediativi. La considerazione che da questo tipo di esperienza ho tratto è che in istituzioni con caratteristiche di questo tipo è molto difficile potere configurare una possibilità di lavoro mediativo strutturato, proprio perché le logiche che sottendono questo tipo di istituzioni sono caratterizzate da una lunga storia, con modelli ideologici rigidi e difficilmente modificabili. Il tentativo di modificare il contesto attraverso questo tipo di esperienza, pure se utile appare insufficiente, poiché le modalità attraverso cui questo tipo di esperienza è stata portata avanti sono di tipo prevalentemente informativo e poco esperienziali. Questi interventi, nulla togliendo alla serietà con cui vengono proposti, peccano di parzialità e mostrano forti limiti di efficacia. In definitiva anche se questo tipo di iniziativa può fare molto rumore e muovere molta polvere, di fatto poco tocca le premesse di fondo sulle quali questo tipo di istituzione poggia, rischiando anche di irrigidire maggiormente le diverse parti conflittuali in gioco. Ci troviamo a fare qui una prima considerazione: in istituzioni caratterizzate da una lunga storia, modelli concettuali ed operativi fortemente radicati e compenetrati nel tessuto istituzionale, la mediazione diventa difficilmente proponibile, perché, così come evidente per ogni tipo di intervento si scontra con grossi livelli difensivi e di resistenza collettiva caratterizzate dal fatto che in strutture di questo tipo, fortemente irrigidite in schemi comportamentali e in prassi operative sclerotizzate, vi è un forte senso di minaccia e di preoccupazione per quelli che possono essere i cambiamenti possibili. Valgono per strutture di questo tipo quello che Eliot Jaques ha descritto verificarsi in situazioni destrutturate di cambiamento: l’attivazione di angosce profonde depressive e paranoidee. Potremmo concludere in definitiva che in situazioni così irrigidite il fattore emotivo è talmente forte da non permettere l’attivazione di funzioni mediative, nel senso che è prevalente un clima di sospetto, di angoscia, di persecuzione che può avere effetti molto paralizzanti.<br />Un’altra situazione tipo la abbiamo in quelle strutture in cui prevalgono dinamiche di potere. L’esempio che riporto è di una struttura riabilitativa per handicap-psicofisici, convenzionata con il SSN. Sullo statuto essa è una cooperativa costituita da un alto numero di soci, tutti apparentemente allo stesso livello decisionale. Essi dovrebbero eleggere un presidente e altri rappresentanti nella gestione della amministrazione liberamente e democraticamente. Di fatto il tutto è gestito, per infiltrazioni anche politiche, da un’unica persona che è diventato una specie di padre padrone, con un controllo cinico e persecutorio del proprio potere personale. Una struttura di questo tipo corrisponde a quel tipo di istituzioni che sempre Eliot Jaques ha definito organizzazioni paranogene. Sono cioè quelle istituzioni che risvegliano sospetto, rivalità, ostilità ed aggressività, ansia, frenano i rapporti sociali, riducono notevolmente la ricerca di un bene comune, e portano tendenzialmente le persone a comportamenti passivi collegati al timore persecutorio di rappresaglie. In situazioni di questo tipo, dove il clima istituzionale è fortemente intriso di atmosfere potremmo dire psicotiche, non è possibile neanche una mediabilità naturale all’interno dei rapporti tra le persone, in quanto prevale da parte del gruppo di potere un costante atteggiamento di cesariana memoria del dividi et impera. Sono sempre presenti in questo tipo di istituzioni coalizioni, attacchi indiretti, tendenza ad accattivarsi i piaceri del “padrone”da questi ad arte elargiti, fatti paventare o rifiutati. Sono altissimi i livelli di sofferenza, stress personale e collettivo e i fenomeni di Burn-out e del Mobbing istituzionale. Ovviamente in questo tipo di istituzione la teoria sistemica ci insegna che le reazioni paranoidi del gruppo dipendono e a loro volta rafforzano i comportamenti psicotici di una amministrazione non sana, al cui interno prevalgono le componenti narcisistiche di controllo paranoico della realtà esterna, di manipolazione, di uso e abuso degli altri. Anche in questo tipo di situazioni la mediazione è allo stato attuale un intervento poco proponibile, in quanto per così dire tende a non varcare la soglia istituzionale.<br />Un’altro modello istituzionale che propongo è quello nel quale prevalgono interessi di tipo economico. Si tratta di clinica per il trattamento di patologie psichiatriche di tipo privato. In contesti di questo tipo, dove prevalgono interessi di natura economica, la mediazione parrebbe più proponibile. Questa clinica privata è una società per azioni, addivenuta, attraverso successive divisioni della eredità tra i soci ad un cospicuo numero di azionisti. In una situazione meno compatta della precedente, quando era gestita da due fratelli che insieme detenevano la maggioranza ed in seguito alla rottura della alleanza tra questi due fratelli, la conflittualità si è esasperata, con varie amministrazioni succedutesi velocemente che hanno creato forti sentimenti di insicurezza e precarietà nel personale. La conflittualità tra i vari azionisti è talmente degenerata da configurare situazioni di rischio legale con la minaccia di commissariamento della struttura da parte del tribunale ordinario. Spinti dalla necessità di ridurre i danni che una siffatta conflittualità poteva sortire sulla occupazione di un cospicuo numero di famiglie, una parte di operatori si è attivata, facendo quello che in gergo mediativo è chiamata mediazione a navetta. Ci si è mossi alternativamente all’interno di questo complesso tessuto societario nel tentativo di rendere meno rigide le posizioni reciproche. Segnalo che in tale situazione, anche se il fattore economico era in primo piano, molta conflittualità era caricata da vissuti emotivi negativi collegabili al fatto che le tre famiglie societarie nel tempo avevano accumulato vari motivi di rancore e di dissidio, in una come precedentemente detto all’interno della stessa famiglia, con grossi livelli di rottura emotiva e relazionale. Ovviamente non vorrei banalizzare tutta la faccenda affermando che questi interventi hanno risolto le difficoltà societarie, ne che il tipo di intervento ha inciso sulle complicate faccende societarie di natura economica e tenute in piedi da controversie legali con tanto di avvocati e carte bollate. Posso affermare però che la possibilità di portare delle preoccupazioni realistiche, una valutazione delle problematiche più distaccata e interessata alla sopravvivenza della struttura, una dose di buon senso, ha almeno permesso che certi toni di guerra fossero abbassati con la possibilità di una più lucida constatazione realistica dell’enorme responsabilità che tale società avesse su tante persone e famiglie. Ovviamente le figure impegnate in questo tipo di situazione non erano tutti mediatori, tranne il sottoscritto. Erano presenti comunque persone con una formazione di tipo psicoterapeutico e con ruoli di autorevolezza all’interno della struttura. In questa situazione è stato facile condividere posizioni di base della mediazione, che del resto avvenivano in un contesto naturale. </span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Conclusioni</b><br />Da tutte queste esperienze personali la riflessione è che ovviamente la mediazione è un intervento utile, ed è auspicabile che esso entri maggiormente all’interno dei percorsi istituzionali. La domanda però è: in quale tipologia d’istituzione la mediazione ha possibilità di essere presa in considerazione e che cosa sarebbe possibile fare affinché essa guadagni maggiormente spazio all’interno di contesti istituzionali? Le varie istituzioni che ho segnalato, e che ovviamente non le rappresentano tutte sono quelle che io nella mia personale esperienza ho attraversato. Esse sembrano segnalare il rischio di un’esclusione assoluta della mediazione come intervento possibile richiesto dall’esterno, stante la necessità da parte del mediatore di essere investito di una certa autorevolezza. Vanno però segnalati e valorizzati, in questo tipo di situazioni, processi mediativi non strutturati, attivati all’interno dell’istituzione stessa. Questa considerazione preliminare apre due importanti punti di riflessione: il primo è che molti processi mediativi possono naturalmente comparire all’interno di sistemi istituzionali, questo è un dato sia storico sia strutturale che non va sottovalutato. E’ stato largamente espresso per la prima volta da P.C. Racamier quando parlando delle istituzioni psichiatriche di cura faceva riferimento ai circuiti mediati, cioè a situazioni dove operatori, per le loro caratteristiche di umanità e per il riconoscimento del gruppo di aspetti positividella personalità, erano in grado di depotenziare conflitti altrimenti disastrosi per il personale e per i pazienti in trattamento. In questo senso la dimensione naturale, interna dei processi mediativi, potrebbe essere potenziata e amplificata attraverso la possibilità di immettere la “filosofia della mediazione”, con un certo bagaglio di tecniche operative all’interno delle istituzioni, rendendo in questo modo gli operatori stessi in grado di gestire situazioni di impasse e trovare soluzioni alternative. C’ è da tenere però presente un punto fondamentale: nella possibile gestione di conflitti paralizzanti all’interno di contesti istituzionali viene ad essere messo in discussione il concetto di neutralità, nel senso che se un operatore esterno ha notevoli difficoltà, quando investito da un mandato istituzionale, a mantenere una posizione esterna, risulta ancora più difficile per chi fa parte di un determinato sistema, potersi muovere all’interno mantenendo una distanza equilibrata tra le parti in conflitto. Del resto in situazioni di questo tipo c’ è una sfida estrema alla possibilità di strutturare setting precisi e tecniche ad hoc, da utilizzare in situazioni e momenti differenti, per cui è necessaria una notevole flessibilità mentale e capacità di mantenere assetti mentali mediativi, di relativa neutralità, con una certa capacità creativa di trovare soluzioni valide per quella situazione specifica. Una tale possibilità potrebbe essere potenziata attraverso l’esposizione di personale istituzionale scelto a esperienze formative di mediazione. Tutto ciò potrebbe da un lato potenziare quei fenomeni naturali di mediabilità istituzionale, dall’altro permetterebbe la crescita di quella cultura della mediazione che innescherebbe processi attraverso i quali l’istituzione stessa possa in futuro chiedere dall’esterno un aiuto più strutturato di tipo mediativo. Infatti, è necessario ribadire che, come in altri ambiti di intervento della mediazione, è necessaria un’espansione culturale della mediazione affinchè essa possa entrare nella mentalità istituzionale. </span></p> <p> </p> <p><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p> <ul> <li><span style="font-size:100%;">J. Bleger, R.Kaes el.al., l’istituzione e le istituzioni, Ed. Borla, Roma, 1991.<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Didier Anzieu, Il gruppo e l’inconscio, Ed. Borla, Roma, 1990.<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Dario Di Martis, Michele Bezoari (a cura di), Istituzione, Famiglia, Equipe curante, Feltrinelli 1978.<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Paul-Claude Racamier, Lo psicoanalista senza divano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Stefano Castelli, La mediazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.<br /></span> </li> <li><span style="font-size:100%;">Fabio Bossoli,Mauro Mariotti, Roberta Frison, Mediazione Sistemica, Sapere,Padova,1999. </span> </li> </ul> <p> </p> </div> <p align="justify"> </p> <span style="font-size:100%;"><br /></span> </div> </div> </div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-68376444023062834242007-04-06T22:14:00.005+01:002008-12-09T00:02:31.983+01:00LA MEDIAZIONE NELLE ISTITUZIONI - FORMAZIONE VERSUS CONFLITTO VERSUS MEDIAZIONE<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEikDaDAb7WADJGjhakwGGN-kMYcEloAM9uV1uPMfVN9lcs18NtC0Iq3_BOoiB_hu88JhJ9Nfh4j33cFQ9sz8q4D9Rf_fBA5Na99iALmpJLKBt7_yB3_RK21RY3dUGGm4YJijmY7Df7P-98/s1600-h/12.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEikDaDAb7WADJGjhakwGGN-kMYcEloAM9uV1uPMfVN9lcs18NtC0Iq3_BOoiB_hu88JhJ9Nfh4j33cFQ9sz8q4D9Rf_fBA5Na99iALmpJLKBt7_yB3_RK21RY3dUGGm4YJijmY7Df7P-98/s320/12.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050709594757065298" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Patrizia Leopardo</span></span> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Socia Ordinaria A.I.M.S.</span></p> <p style="font-family: arial; font-weight: bold;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Sonia Rossato</span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Socia Ordinaria A.I.M.S.</span></p> <div style="font-family: arial;" align="justify"><div align="justify"> <div align="justify"><p> </p> <div align="justify"> <div align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>Il contesto, setting in cui siamo entrate<br />Che cosa abbiamo proposto<br />Per arrivare dove<br />Cosa è capitato</b><br />L’esperienza che presentiamo ha visto coinvolti complessivamente 20 operatori della pediatria di comunità e il personale dei reparti di NPI, neonatologia e pediatria dell’asl 3 di Torino in un percorso di formazione di 20 ore.<br />(Una prima fase di 20 ore per tutti gli operatori, una seconda fase di 6 ore per il personale di pediatria di comunità dei distretti 1 e 2).<br />Il nostro committente è stato il direttore del dipartimento materno-infantile dell’asl 3.<br />L’esperienza si è svolta nel periodo settembre-novembre 2000.<br /><b>“Potenziare la percezione e il sentimento degli operatori della pediatria di comunità e dei reparti ospedalieri sopracitati dell’essere parte di un unico sistema i cui soggetti è importante che stiano in rete. “<br />“Potenziare la disponibilità e la capacità degli operatori di costruire la rete e alimentarla.”</b><br /><br />Questi erano gli obiettivi del percorso di formazione.<br />L’obiettivo prendeva forma dentro ad un complesso processo di riequilibrazione organizzativa in cui il sistema era ed è impegnato.<br />Potenziare <b>la costruzione della rete, il fare rete</b> significava lavorare affinché gli operatori coinvolti, appartenenti a differenti e specifici sottosistemi del dipartimento materno-infantile. </span> </p> </div> <ol> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">guardassero un obiettivo comune (l’obiettivo del dipartimento), </span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">sviluppassero una visione più condivisa del soggetto a cui la loro azione professionale si rivolge (il bambino e la sua famiglia), </span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">si sentissero maggiormente parte di un unico e complesso sistema all’interno del quale socializzare punteggiature, differenze, specifiche professionalità ed esperienze. </span></div> </li> </ol> <div align="justify"> <p><span style="font-size:100%;">Il fine era muovere verso una visione organizzativa che meglio sentisse la propria complessità e che cercasse di apprendere attraverso la condivisione, come una delle modalità che esprime la complessità.<br />La riflessione all’interno dell’organizzazione sulla necessità di muovere verso nuovi assetti e direzioni era già da tempo avviata.<br /><br />Ora, l’espressione costruire la rete indicava per noi alcune traiettorie-direzioni di lavoro:<br />- L’attivazione di processi di comunicazione, scambio e confronto affinché da colleghi con specifiche individualità professionali gli operatori potessero pensarsi, immaginare colleghi-professionisti in rete<br />- La messa in comune di energie che attivando conoscenze e scambi stimolassero lo stare meglio connessi (rete) nell’esercizio della propria specificità professionale e nella connessione la possibilità di utilizzare meglio le proprie competenze relazionali e specifiche.<br />Da dove partire e come muoversi per percorrere tali direzioni?<br />L’idea era che ogni soggetto del sistema presente in formazione si facesse conoscere e conoscesse gli altri soggetti del sistema lì, all’interno del setting, e insieme si disegnasse la mappa che rappresenta il sistema di cui loro sono parte.<br />Il personale dei consultori della Pediatria di comunità, il personale infermieristico e medico dei tre reparti di NPI, pediatria e neonatologia presenti in formazione sapevano, è ovvio, dell’esistenza degli altri, ne conoscevano il posizionamento e le funzioni su una mappa almeno teorica dei servizi dell’azienda. Altro sarebbe stato, secondo noi, sperimentare, guardandosi in faccia, la narrazione del proprio sé professionale<br />- chi sono,<br />- che cosa faccio e dove lavoro<br />- a chi mi riferisco<br />- quali strumenti e quali modalità utilizzo.<br />Parlare di sé attraverso la propria <b>progettualità professionale</b> all’interno di un gruppo di colleghi e o operatori della stessa azienda ha la potenzialità di poter condurre ad una migliore definizione di sé dentro all’equipe, ad una migliore rappresentazione degli altri e alla reale possibilità di avvertire le reciprocità, di sottolineare le connessioni esistenti e di immaginare nuove connessioni possibili.<br />Questo è il lavoro che noi abbiamo proposto in prima seduta.<br />Lo stimolo della narrazione del chi sono professionalmente era inoltre e prima di tutto per noi lo strumento per delineare il setting: lì dentro, in quell’istanza formativa, ci saremmo impegnati ad attivare per le sette sedute di durata del percorso <b>un processo di ricerca intorno alle risorse del sistema di funzionare come sistema.</b><br />Il primo incontro ci ha consentito lo scatto di una fotografia di individui in posizioni statiche, in difesa, rigidi, divisi fra loro e in piccoli gruppi ulteriormente separati.<br />Il giro di presentazioni ha rivelato alta tensione: <b>troppo armati e attenti a non essere attaccati per vedersi e ascoltarsi.</b><br />La paura della punteggiatura dell’altro su sé, la diffidenza per timore che il giocare apertamente il confronto e le differenze risultasse squalificante, deprofessionalizzante agli occhi degli altri sottosistemi, dell’intero sistema, dei formatori non hanno permesso da subito di lavorare sull’individuazione degli altri come risorse.<br />Il secondo incontro abbiamo domandato al gruppo la costruzione di una rappresentazione grafica condivisa del contesto operativo, la costruzione della mappa insomma entro la quale ciascuno di loro, e come singolo e come parte di un sottosistema, opera<br />- dentro a quale cornice<br />- chi siamo e cosa facciamo<br />- chi interagisce con chi.<br /><b>Chi siamo e cosa facciamo.</b> Gli operatori hanno risposto faticosamente, poco capaci di vedersi e collocarsi, poiché la cornice, la punteggiatura da cui osservarsi e definirsi era l’intero sistema. Si sentivano poco capaci di vedere e collocare gli altri come elementi del medesimo sistema complesso. La difficoltà è stata<i> “Da dove cominciamo? Chi rappresentiamo per primo sul grande foglio che è la mappa? Chi e in quale posizione,… il centro del foglio coincide con la centralità di ruolo, funzione e valore professionale?… A chi attribuiamo in modo condiviso tale centralità?”</i><br />Forse solo perché non lo avevano mai fatto, forse solo perché l’angolatura proposta (tutti noi siamo parti di un medesimo sistema) era nuova.<br />Tra i tre reparti ospedalieri e i consultori di pediatria di comunità sembrava correre indiscutibile l’implicito che la centralità spettasse all’ospedale (che lavora sull’emergenza, sull’urgenza, sulla gravità!).<br />Il dilemma, la difficoltà, l’empasse era: come esplicitare, trasformare, leggere la centralità dell’uno (i reparti ospedalieri), una centralità di tempo e di funzione, senza che diventasse centralità di valore professionale e senza farle assumere pertanto connotazione deprofessionalizzante per chi in ospedale non lavora (i consultori di pediatria)?<br /><br />L’escamotage che il gruppo al lavoro si è dato è stato quello di rappresentare il territorio dell’azienda proprio per come si presenta geograficamente: l’ospedale sta spazialmente al centro, i consultori dei due distretti ciascuno su un lato dell’ospedale.<br />Il criterio “territoriale” ha consentito di rompere lo stallo, di procedere al posizionamento reciproco sulla mappa e di dare avvio all’esplicitazione per cui la centralità non andava letta in termini di valore professionale e la periferia in termini di minor conto, di pochezza, di banalità dell’intervento.<br />Nel corso delle tre ore della seduta si sono scoperti piacevolmente “dentro”, si sono scoperti invianti reciproci e microsistemi a cui inviare. Hanno disegnato la continuità entro la quale si situano.<br />Se partiamo dal presupposto che alla rappresentazione grafica corrisponda una rappresentazione interna, la seduta ha avuto per noi (ripensando anche ai rimandi esplicitati dagli operatori) la funzione di cominciare a trasformare le lontananze, le <b>contrapposizioni</b> e la paura di ciò che non si conosce o si conosce molto poco in <b>luoghi differenti</b> per funzione, competenza, modalità di intervento, in sottosistemi specifici di una complessità che, se guarda in modo condiviso il proprio obiettivo, è altro dalla somma delle parti.<br />Un elemento molto interessante è stato <b>l’emergere degli assenti</b>, il trovare posto agli assenti (i pediatri di base, i servizi sociali, il tribunale).<br /><b>Chi interagisce con chi.</b> Con estrema difficoltà hanno cominciato a tracciare le connessioni tra i diversi nuclei operativi e, come sempre accade quando si gioca in difesa, è stato più facile cominciare dal fare emergere <b>la non efficacia dei collegamenti in particolare con chi non era presente:</b><br />- I pediatri di base vengono definiti come non o poco collaborativi<br />- I direttori di distretto poco capaci<br />- Il direttore di dipartimento troppo vulcanico, desideroso di cambiamenti a cui non appartiene perché esterno, lontano dalla conduzione quotidiana del loro agire professionale.<br />Non è stato facile stimolare una punteggiatura che uscisse da una configurazione in isole, atolli (l’equipe dei due consultori di pediatria di comunità, gli operatori dei singoli reparti) impegnati in <b>alleanze molto strette all’interno del sottosistema</b> (frutto della collaborazione quotidiana, della identità dell’azione professionale, ma anche di una necessità difensiva dell’identità professionale del proprio nucleo) e complementarmente in <b>contrapposizioni</b> abbastanza evidenti già in prima seduta<b> tra nuclei operativi.</b><br />A cosa servivano le alleanze strette e, soprattutto, a cosa servivano le contrapposizioni tra sottosistemi?<br />Il clima che si percepisce è pesante, come se si avesse timore ad “esporre” la propria professionalità. Per il sottosistema dei consultori di pediatria in particolare è come se temessero di essere posizionati down nella rappresentazione che gli altri hanno di loro e questo li ponesse deprofessionalizzati all’intero del macrosistema.<br />Il nostro committente ci aveva dato pochissime notizie sugli operatori in formazione, sulla salute del sistema, sul clima di conflitto e fatica che correva tra le parti che lì si sarebbero trovate insieme rappresentate.<br />Non sentiamo facile stare lì, il modo in cui i sottosistemi si delineano ci fa sentire ingovernabile la situazione, <b>impossibile il compito: è come se ognuno domandasse di essere lasciato assolutamente per conto suo, come se dichiarasse che tutte le connessioni dotate di senso erano già state fatte, non ce ne sono altre possibili, tutto quello che non c’è, non c’è perché impossibile.</b><br />Dunque lavorare sul piano dell’auspicabile non era possibile.<br />Solo ora, a distanza di tempo e dopo aver lavorato nell’ultima parte dell’anno solo con l’equipe della p.di.c., ci sono più chiari i legami tra le parti, le letture reciproche, il punto di vista di chi in particolare all’interno del sistema si avverte come professionalmente più debole.</span> </p> <p><span style="font-size:100%;"><br />La rabbia per la difficoltà in cui stavamo, per l’ingovernabilità del contesto, rischiavano di farci riprodurre lì uno schema relazionale analogo a quello che loro ci raccontavano: se ci fossimo fermate a percepirli come nemici perché non riconoscevano la possibilità delle direzioni che noi indicavamo (da mandato del resto!) avremmo confermato all’interno del setting l’impossibilità di connessioni nuove. Abbiamo provato a superare la rabbia pensando (è banale) che ogni difesa ha una ragione e ad alleare la nostra difficoltà alla loro difficoltà, ad allearci con loro.<br />L’ascolto dell’immobilità e dello stallo, la presa in carico dei sentimenti negativi, la delineazione sulla mappa delle regioni del conflitto hanno permesso di muovere verso immagini propositive, di costruire un clima di fiducia e collaborazione prima di tutto con noi, di spostarci (toglierci) dalla funzione di chi, mandato dal direttore di dipartimento, arriva a prescrivere con facilità e come se niente fosse il cambiamento.<br />Uno dei temi che emergono è la difficoltà a comprendere cosa significa “fare rete”, quale necessità ci sia e soprattutto il sentimento di impossibilità ad immaginare in termini di connessioni e scambio più di quanto già accada.<br />E qualora il fare rete si senta comprensibile, l’aspettativa è che il formatore dica quali sono gli strumenti e le strategie.<br />Come se, in modo profondamente difensivo, gli operatori immaginassero la costruzione di una competenza che passa attraverso la relazione senza lavorare mettendosi in gioco.<br />Pertanto nelle sedute successive sono state proposte esperienze sulla comunicazione interpersonale, sui processi di aiuto e collaborazione, sugli effetti che i diversi stili relazionali hanno sulla risoluzione di un problema e sul clima, sulle strutture organizzative e sui modelli comunicazionali.<br />Hanno risposto alle proposte uscendo gradualmente dallo stallo e permettendosi la comunicazione del disagio, della non conoscenza e del conflitto.<br />Sono state rese visibili le contrapposizioni, rileggibili e governabili in chiave di differenze, e apprezzate le diversità. A poco a poco le differenze gestite nella cattiva comunicazione e fonti possibili di conflitto cominciano a venire rilette e a generare desiderio di acquisire competenze per gestire le diversità.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">E’ stato così possibile, nel corso delle sedute successive, lavorare sulla costruzione di una progettualità condivisa. Ogni equipe ha presentato la propria attività secondo gli indicatori di<br />- Posizione all’interno del sistema<br />- Competenze<br />- Potenziamento<br />- Connessioni-collegamenti<br />- Migliorabilità</span></p> <p><span style="font-size:100%;">L’obiettivo formativo che ci eravamo proposte – l’essere capaci, il diventare capaci di lavorare dentro ad una rete – l’essere buoni comunicatori e capaci di buone relazioni – lo abbiamo tradotto in<br />- Potenziamento della capacità di ascoltarsi ed osservarsi reciprocamente<br />- Potenziamento della capacità di visione dei sé-sottosistemi<br />- Potenziamento della capacità di immaginare altre e nuove connessioni possibili.<br />La traduzione è potuta avvenire percorrendo<br />- l’ascolto del disagio, l’accoglimento delle emozioni faticose, delle resistenze e della sofferenza<br />- l’esplicitazione e la definizione del conflitto.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Il percorso ha consentito l’emergere di temi particolarmente interessanti che sono stati oggetto di confronto e riflessione e che il gruppo al lavoro ha così riformulato:<br />esistono comportamenti che influenzano positivamente la comunicazione sia tra i membri del gruppo, sia tra gruppo ed esterno<br />- esistono parimenti comportamenti che agiscono negativamente sul clima del gruppo<br />- facilmente si esprimono difficoltà o rifiuto ad abbandonare la propria posizione<br />- i modi di comunicare, i comportamenti del gruppo al lavoro influenzano positivamente o negativamente il processo in cui il gruppo è impegnato.<br />- Le caratteristiche e la fisionomia che il gruppo assume condizionano la comunicazione con l’esterno, la punteggiatura che l’esterno fa del gruppo.<br />- Un gruppo fortemente coeso può prediligere la qualità della relazione, il come si sta dentro al gruppo, piuttosto che la qualità degli obiettivi da raggiungere i suoi membri possono faticare ad esprimere disapprovazione e diversità<br />- Il gruppo tende a proiettare all’esterno i tratti sentiti come poco funzionanti e tende a connotare negativamente i contributi che dall’esterno giungono.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">I temi emersi certamente rappresentano una direzione tracciata, quella direzione che ci ha permesso di percepire modificazioni di clima all’interno del setting (= contenitore di ricerca) giungendo ad un clima che consente di sentire-intravedere oltre lo stallo direzioni possibili.<br />Dalla rigidità, dalla tensione, dalla diffidenza, dal comportamento difensivo alla maggior conoscenza, alla valorizzazione reciproca dei nuclei operativi con conseguente immaginazione di connessioni nuove.<br />Ripensando al percorso fatto ed osservandolo a posteriori ci pare che strada facendo sia avvenuta una modificazione dell’assetto formativo</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Il paradigma della flessibilità è stato per noi fondamentale: muoverci empaticamente con l’aula, stare in interazione con i formandi non solo come soggetti a cui si rivolge il proprio sapere d’oggetto, (non solo perchè l’aula è strutturalmente un’interazione), ma come co-costruttori di conoscenza e di altra e nuova esperienza sensibile, come soggetti che continuamente inviano al formatore segnali (feedback) sul lavoro di sedimentazione, amalgama, messa in rete soggettiva (individuale) e gruppale a cui il processo formativo li chiama, come soggetti che innestano la proposta del formatore sulla loro visione del mondo, sul loro modo di dare ordine e di governare le relazioni e la professione, sui loro schemi e modelli interni.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Abbiamo cercato di chiamare in gioco i loro modelli interni per poter muovere autenticamente verso visioni diverse, nuove, verso apprendimenti, per poter stimolare interesse al cambiamento (la conoscenza è cambiamento!)… per poterlo pensare almeno possibile.<br />Un tale modo di stare in aula, di lavorare con l’aula non ha risparmiato flessibilità neanche ai formandi.<br />Nel formando la flessibilità è <b>lo stare nella rottura dell’attesa:</b> la formazione è un continuo chiamare in gioco e rinviare il formando alle proprie rappresentazioni interne di sé, degli altri, del mondo ed un continuo invitare all’esplicitazione e alla connessione delle reciproche rappresentazioni.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Non crediamo di aver portato contenuti particolari, la nostra attenzione e le nostre energie sono andate alla costruzione delle interazioni, per percorre con il formando i piani molteplici delle relazioni. <b>Abbiamo lavorato perché dentro l’aula si muovessero relazioni, comprensioni dei reciproci punti di vista, delle differenti necessità, perché ciascuna sponda del sistema dell’azienda, pur nella sua specificità, potesse percepirsi più vicina alle altre e insieme potessero pensarsi come complesso ingranaggio che fa rete, che serve al bambino e alla sua famiglia.</b><br />Questo crediamo possa essere promuovere apprendimento. Questo fa dell’apprendimento un processo che muove cambiamento.<br /><b>Ora come può un approccio così descritto muovere senza assumere valenze mediatorie?</b><br />Quello che si richiede al formatore è capacità di adattamento con i partecipanti, è mediazione. Che cosa è lo stare con, il viaggiare insieme, il girare, rigirare e guardare insieme l’oggetto nuovo da mettere in esperienza sensibile se non processo e lavoro di mediazione tra il mondo del formatore e quello dei formandi, tra il modo del formatore di aver fatto esperienza sensibile e conoscenza dell’oggetto e quel modo altro di farne ulteriore esperienza all’interno del setting in questione e di dargli lì una forma nuova.<br />La flessibilità a cui il formatore è chiamato è la capacità di allentare il bisogno di controllo dell’aula, di abbandonare la necessità che gli altri conoscano proprio come ha conosciuto lui. Paradossalmente (stressando tale disponibilità), nulla è predefinibile in un’aula così vissuta, nessun ordine preordinato è importabile al suo interno: la flessibilità che conduce e accompagna l’<b>incontrare</b> produrrà la forma che sta nelle possibilità del setting in quel momento t e in quello spazio lì.</span> </p> <p><span style="font-size:100%;">L’imprevisto non è pensato e vissuto come ciò che non deve accadere, come fastidioso disturbo, come ostacolo in itinere. Certo continua a far paura, ma viene immaginato e connotato come opportunità necessaria e come elemento strutturale di un percorso centrato sulle soggettività in relazione.<br />Il formatore ha un ruolo di orientamento, responsabile e flessibile, di processi aperti alla negoziazione e alla condivisione. </span></p> <p><span style="font-size:100%;">Il formando pertanto viene inevitabilmente chiamato ad una riflessione su di sé che lo porta anche a mettere a tema le questioni della sensibilità e della relazionalità come di un vero e proprio sapere.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Quello che un’aula così gestita richiede è lo sforzo ad essere sempre più attenti al come si è visti dagli altri, oltrechè al come ciascuno vede se stesso, esercizio che va al fondo di quel sapere della sensibilità che costituisce il principale terreno metariflessivo di ogni esperienza di costruzione di conoscenza.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Così la formazione si configura come un’esperienza di focalizzazione dei processi di relazione e di funzionamento dell’individuo e del gruppo.<br />Il formatore porta il formando a “fermare” il proprio funzionamento attraverso domande di processo e promuove domande di cambiamento, centrato su sé e rispondente al criterio dell’assunzione della responsabilità.</span> </p> <p><span style="font-size:100%;">Costruire la conoscenza attraverso l’esperienza sensibile ha una forte valenza trasformativa, non perché aggiunge elementi del sapere di oggetto, ma perché mette in azione un sapere di processo: un sapere di rinuncia che diventa apertura ad un nuovo punto di vista, ad un “noi” frutto della condivisione.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Questo ci sembra configuri all’interno del setting formativo l’azione mediatoria.<br />Il processo mediatorio è un processo di avvicinamento, di condivisione, è un “guardare insieme”: <b>consiste nello sviluppo di una visione contestuale attraverso la conoscenza reciproca utilizzando i paradigmi della storia e della progettualità. </b><br />- chi eravamo, da quali percorsi arriviamo, da chi ci sentiamo oppure no riconosciuti<br />- dichiarazione dell’intento<br />- dichiarazione dell’operatività<br />- esplicitazione delle competenze professionali.<br />Il processo mediatorio ha un potere trasformativo che porta alla costruzione di una mappa nuova, frutto dell’avvicinamento delle identità nel “viaggio” che permette l’incontro.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Il processo mediatorio consiste a nostro avviso nella costruzione di una cornice progettuale condivisa andando ad agire una mappa che visualizza posizionamenti, ruoli, funzioni, alleanze, ma anche contrapposizione e aree di conflitto per arrivare alla delineazione del sistema delle relazioni presenti /mancanti.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Il processo mediatorio è la riformulazione di una nuova storia condivisa</b> nella quale tutti i formandi possano riconoscersi.<br />“Essere connessi l’un l’altro, essere parte di qualcosa di più grande fa sì che la crisi individuale e professionale assuma una valenza trasformativa e l’impegno personale venga magnificato”.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Il mancante, l’assente è “nodo critico”.<br />Il conflitto è propagazione dell’onda attraverso lo spostamento e l’esportazione di esso all’esterno.<br /><b>Attraverso il processo mediatorio è possibile giungere alla lettura e alla decodifica del conflitto, passando dal paradigma dell’attribuzione di colpa a quello dell’assunzione della responsabilità.</b><br />Il conflitto genera senso di appartenenza e delimita i confini dell’operatività divenendo creatività. Il disagio quando diventa creatività è informazione per il cambiamento. La riflessione sui processi di senso può fungere da guida per operare sui processi stessi.<br />I soggetti presenti fisicamente nel percorso formativo-mediatorio non sono tutti i soggetti coinvolti dal processo osservato lì: non è possibile arrivare alla confezione di un menù condiviso -il contratto di mediazione -, ma si possono innescare le disponibilità per muovere processi di cambiamento percorribile.<br />Il formatore che assume anche la funzione di mediatore è un terzo esterno alla regione conflittuale un po’ come nella mediazione familiare, ma mentre nella mediazione familiare funzione e ruolo coincidono (gli altri hanno chiaro che il terzo entra nel sistema con ruolo e finalità mediatori), nella mediazione istituzionale il formatore- mediatore ha da non perdere il contatto con la doppia funzione e gli obiettivi che ne discendono. </span> </p> </div> <p> </p> </div> </div> </div> </div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-53572826904897026152007-04-06T22:14:00.007+01:002008-12-09T00:02:31.957+01:00DALLA VALUTAZIONE ALLA MEDIAZIONE - LA CONDUZIONE DI UN CASO DI PRE-MEDIAZIONE IN UN SERVIZIO PUBBLICO<div style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjzIGMrWltvUaubidwp7MNQ5Nz0gE8vw8ooZn3epBN9t0h0vSBlUbuLXAyUBP_VwlxWuWb6DQ5HG8Lyi2HXA0t6Dj6EA191Y70cgVHTQBVmcs1pWLsvBpKVF0x-vSJJRk1kLR8PenN309I/s1600-h/13.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjzIGMrWltvUaubidwp7MNQ5Nz0gE8vw8ooZn3epBN9t0h0vSBlUbuLXAyUBP_VwlxWuWb6DQ5HG8Lyi2HXA0t6Dj6EA191Y70cgVHTQBVmcs1pWLsvBpKVF0x-vSJJRk1kLR8PenN309I/s320/13.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050710964851632738" border="0" /></a><span style="font-weight: bold;">Mariacristina Cavicchia</span><br /></span></div><p style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;">Socio Ordinario A.I.M.S.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Quello che verrà presentato non costituisce un processo di mediazione familiare vero e proprio, si farà riferimento invece alla conduzione di un caso di Servizio Sociale nell’ambito del quale sono state attivate funzioni di mediazione ed in cui è stata privilegiata una procedura che contemplasse l’uso di tecniche e metodi di tipo negoziale.<br />Il caso ha origine da una segnalazione della Magistratura Minorile con cui veniva richiesta, ai servizi sociali di un comune della Liguria, una indagine psico-sociale in merito all’affidamento di una bambina i cui genitori, ex-conviventi di fatto (sebbene non avessero mai condiviso un’unica abitazione), si erano separati.<br /><b>Il contesto</b> di riferimento è pertanto di tipo valutativo, caratterizzato da un invio “coatto” da parte della Magistratura, circostanza questa inconciliabile con la realizzazione di una mediazione vera e propria (che presuppone invece, com’è noto, la contestuale sospensione di ogni procedimento legale, l’autonomia rispetto agli organi giudiziari e l’accesso spontaneo dei clienti). Tuttavia, l’attivazione di percorsi mediativi, nell’ambito della conduzione del caso, ha reso successivamente plausibile un invio verso la mediazione familiare, considerata, a quel punto, come la risorsa più idonea da proporre alle persone prese in carico.<br /><b>La coppia,</b> caratterizzata da una spiccata tendenza all’idealizzazione, non aveva mai costruito una progettualità condivisa anche a causa del mancato svincolo dalle rispettive famiglie d’origine.<br />Entrambi avevano mantenuto la stessa organizzazione della vita quotidiana adottata prima del loro incontro; in particolare avevano continuato a vivere in case separate, senza concordare alcun riadattamento significativo neppure dopo la nascita della figlia e, paradossalmente, la mancata rinegoziazione dei ruoli reciproci sembrava aver determinato la fine della loro relazione.<br />In modo collusivo avevano evitato, fino ad allora, il confronto dialettico, lo scambio profondo e sembrava essere mancato loro, in particolare, un modello di risoluzione dei conflitti. Tale modalità relazionale sostanzialmente elusiva, aveva comportato, tra l’altro, la mancata fissazione di regole chiare anche nei rapporti tra i genitori e la bambina alla quale, in particolare, non era ancora stata comunicata in modo esplicito l’ormai avvenuta separazione.<br />Dal punto di vista della <b>strategia operativa</b> adottata, gli operatori, in base ad una preliminare analisi della situazione, fondata sull’esame degli atti depositati presso il Tribunale per i Minorenni e su un primo colloquio con ciascun genitore, ipotizzarono che gli aspetti problematici sui quali concentrare l’attenzione non riguardassero direttamente, almeno in quella fase, la condizione oggettiva della minore quanto il conflitto in atto nella coppia, tra i cui membri si poteva comunque cogliere un clima relazionale non ancora così distruttivo da impedire un dialogo.<br />Pertanto, proprio a partire dai presupposti di base della mediazione ed in particolare dal fatto che:<br />il conflitto è visto in termini dinamici e trattabili,<br />viene promossa la collaborazione tra i genitori restituendo loro competenza e responsabilità,<br />si ritenne opportuno avvalersi, nella conduzione del caso, di strumenti e funzioni caratteristici di tale risorsa.<br />In una prima fase, nel corso di alcuni colloqui, venne ripercorsa, insieme alla coppia, parte della loro storia e quella della separazione. l’obiettivo immediato era quello di creare uno spazio di confronto e di scambio, in modo tale da attivare processi di elaborazione del lutto connesso alla separazione che consentissero, in ultima analisi, una progressiva attenuazione del clima conflittuale.<br />Successivamente si è cercato di individuare un’area tematica, inerente i bisogni della figlia, sulla quale convergevano l’attenzione e la preoccupazione dei genitori ed in relazione alla quale entrambi erano interessati a stabilire accordi condivisi.<br />Il problema principale, individuato secondo un ordine di priorità, riguardava il come ed il quando comunicare alla bambina in modo esplicito la separazione e, proprio a questo proposito, erano poi arrivati a negoziare una soluzione congruente.<br />Al termine del lavoro, dopo circa otto incontri, è stata avanzata una vera e propria proposta di mediazione familiare, specificando comunque che, in tale eventualità, si sarebbe trattato di una scelta autonoma e di un percorso sganciato da tutta la vicenda giudiziaria.<br />La coppia mostrò interesse in tal senso ed entrambi si dichiararono tendenzialmente favorevoli all’ipotesi di intraprendere un percorso di mediazione.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Alcune riflessioni.</b><br />La conduzione del caso in oggetto è stata aperta da una iniziale fase di analisi della domanda che si è tradotta, sostanzialmente, nell’’ esame del contesto di riferimento e nella scelta del percorso-procedura ritenuto più idoneo a soddisfare la duplice finalità di cui il Servizio Sociale era investito: valutazione ed aiuto.<br />L’esigenza di rimanere fedeli al mandato dell’Autorità Giudiziaria rendeva, come già anticipato, inconciliabile l’attivazione di una mediazione vera e propria. Inoltre non esisteva ancora, nella fase iniziale di conoscenza del caso, una richiesta più o meno esplicita in tal senso da parte di ciascun membro della coppia.<br />La fase di analisi della domanda è stata trasformata, pertanto, nella ricerca di quello che poteva essere, alla luce dei primi dati emersi, il percorso più opportuno e tecnicamente valido per:<br />rispondere al mandato della committenza fornendo una valutazione più puntuale e qualificata, che non fosse pertanto un mero adempimento ad un incarico;<br />attuare un lavoro di aiuto e sostegno all’utenza favorendo processi evolutivi e di consapevolizzazione;<br />cercare di prevenire i rischi legati al perpetuarsi di un clima conflittuale e confuso per la minore coinvolta.<br />Una delle conseguenze di questo maggiore confronto, attivato tramite il lavoro svolto, è stato il fatto che entrambi hanno iniziato a prendere decisioni comuni in rapporto alla bambina, rafforzando così la condivisione delle responsabilità genitoriali.<br />Inoltre l’aver preso contatto con elementi significativi della propria storia e di quella della coppia ha consentito di recuperare anche parti positive della loro relazione e tutto ciò, per ricaduta, ha inevitabilmente innescato un processo di rielaborazione del lutto connesso al vuoto ed al senso di fallimento conseguente la separazione rendendo possibile una graduale distensione del conflitto.<br />Si tratta, sia ben inteso, solo di un’attivazione di processi delicati e complessi che vanno poi sostenuti in altri contesti, per esempio proprio in mediazione, con l’obiettivo di fondo di riuscire a separasi come coppia continuando, comunque, ad essere genitori.<br />E’ un po’ come se tutto il lavoro svolto fosse stato propedeutico ad un successivo eventuale processo strutturato di mediazione familiare ed in tal senso esso può essere assimilato ad una sorta di <b>pre-mediazione</b> ed è proprio in quest’ottica che va letta, a mio parere, la proposta conclusiva fatta alla coppia di intraprendere un percorso in quella direzione.<br />Tale suggerimento è stato inoltre inserito nell’ambito delle conclusioni contenute nella relazione al TM, specificando comunque che si trattava proprio di un’indicazione, il cui eventuale accoglimento avrebbe determinato la realizzazione di un percorso sganciato dal procedimento giudiziario.<br />In altri termini si è cercato di trasformare la domanda implicita di lui (con la quale egli delegava ad un arbitro, nello specifico il Tribunale per i Minorenni, una decisione relativa alla propria figlia) in una comune domanda di mediazione familiare ed a convertire, in ultima analisi, un invio coatto in una occasione per costruire insieme alla coppia un progetto condiviso e mirato al cambiamento.<br />Alla luce delle considerazioni esposte mi pare pertanto di poter affermare che il lavoro effettuato ha assunto una <b>dimensione processuale. </b><br />Nel concludere intendo far riferimento al mio personale interesse nel trattare il caso presentato secondo le modalità descritte.<br />A mio parere gli invii ai Servizi Sociali, da parte dell’Autorità Giudiziaria, di situazioni di conflitto di coppia in cui sono coinvolti minori e di casi di separazione in cui insorgono controversie per l’affidamento dei figli, richiedono, da parte degli operatori chiamati ad occuparsene, l’acquisizione di una professionalità mirata.<br />Ritengo che possa essere produttivo, nei confronti della suddetta casistica, evitare il ricorso a forme di intervento precostituite, per sperimentare invece<b> modalità più funzionali di presa in carico,</b> avvalendosi di strumenti operativi e di tecniche specifiche in rapporto al tipo di problematica trattata.<br />In tal senso il far riferimento a modelli teorico-metodologici pertinenti può consentire di riconoscere, in modo più circostanziato, segnali di disagio, rischi ad esso connessi e di affinare la capacità di lettura delle dinamiche familiari suscitate dall’evento separativo.<br />Ciò permette inoltre di provare ad intervenire, laddove è possibile, in modo tale da riattivare le risorse della famiglia e dei singoli componenti anziché sostituirsi ad essi attraverso la prescrizione di comportamenti da tenere.<br />Il lavoro appena illustrato rappresenta proprio un tentativo di utilizzare un’ottica di intervento ispirata alla mediazione familiare, proprio perché ritenuta particolarmente congruente con il caso trattato e per la sua potenziale valenza in termini promozionali (in relazione alla possibilità di coinvolgimento degli interessati in percorsi di crescita che restituiscano loro competenza ed autonomia) e preventivi (nei confronti dei rischi connessi all’esposizione al conflitto).<br />Concordo pertanto con quanto espresso da Luigi Cancrini e Francesca De Gregorio laddove sostengono che: “l’introduzione nei servizi di concetti relativi alla mediazione familiare appare estremamente utile nel tentativo di aiutare i partner di una coppia in crisi a ridiventare protagonisti della loro storia, senza lasciarsi travolgere dalle difficoltà organizzative”.</span></p><span style="font-size:100%;"></span><p style="font-family: arial; font-weight: bold;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Note</span></p><span style="font-size:100%;"></span><ul style="font-family: arial;"> <li><span style="font-size:100%;">L. Cancrini e F. De Gregorio “La relazione di aiuto con le famiglie multiproblematiche” in M. Malagoli Togliatti e G. Montanari (a cura di) “Famiglie divise” Franco Angeli Milano 1995 p. 202. </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ul><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-44715216083787821192007-04-06T22:14:00.008+01:002008-12-09T00:02:31.320+01:00IL RICORSO AD INTERVENTI "TAMPONE" - LA STRUMENTALIZZAZIONE DELL'OPERATORE SOCIALE NEL CONFLITTO CONIUGALE<div style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-9Jnqc9gebookHqCXt1NCmGo9H40ieRgrvolitRzoK4dyuwEmIIfQzmGlJU9MNBg5QTtMadSqnpi_GE7SM21usOZPkh7o_lH1ssMTrNOM7bPi067TxHPHrbXWsNJ9M8HXTneAAx7Iqe4/s1600-h/14.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-9Jnqc9gebookHqCXt1NCmGo9H40ieRgrvolitRzoK4dyuwEmIIfQzmGlJU9MNBg5QTtMadSqnpi_GE7SM21usOZPkh7o_lH1ssMTrNOM7bPi067TxHPHrbXWsNJ9M8HXTneAAx7Iqe4/s320/14.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050713430162860658" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Anna Verrengia</span></span><br /> </div><div style="font-family: arial;" align="justify"><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socia in formazione A.I.M.S.</span></p><div style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;"><span style="font-weight: bold;">Vera Pacilio</span></span><br /></div><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socia A.I.M.S.</span></p><div style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;"><span style="font-weight: bold;">Maria Rosaria Menafro</span></span><br /></div><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socia Didatta A.I.M.S. Istituto di Terapia Familiare di Napoli <a href="mailto:itfnap@tin.it">itfnap@tin.it </a></span></p><span style="font-size:100%;"><br /><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Il nostro intervento vuol essere una testimonianza di come sia ancora poco diffuso il ricorso, da parte della magistratura, ad interventi specialistici sul conflitto che scaturisce dalla separazione e dal divorzio.<br />Sono invece ancora molto frequenti le richieste di interventi “tampone”, volti cioè ad affrontare la specifica difficoltà posta in un determinato momento dal dispiegarsi del conflitto piuttosto che a ricercare e rimuovere le dinamiche psicologico-relazionali che lo hanno generato e lo mantengono.<br />L’esperienza operativa di uno degli autori della presente comunicazione mette in evidenza come questi interventi “tampone” si rivelino non solo inutili, ma a volte estremamente dannosi sia per la coppia che per gli operatori stessi, laddove questi non siano stati adeguatamente formati ad affrontare le specifiche dinamiche delle coppie conflittuali o almeno sensibilizzati attorno alla complessità di questo genere di conflitti. Una corretta opera di sensibilizzazione consentirebbe difatti agli operatori dei Servizi Territoriali di effettuare un invio rapido e pulito al mediatore professionista e, quindi, di non addentrarsi in territori sconosciuti del tutto ignari dei pericoli in cui possono incorrere e delle conseguenze negative che possono produrre.<br />Il caso che riportiamo illustra chiaramente quanto sopra esposto.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Descrizione del caso</b><br />Il Servizio Sociale Territoriale riceve dal Tribunale Ordinario la richiesta di far svolgere gli incontri tra un padre non affidatario e i figli presso i locali del Servizio, considerato che gli stessi non erano potuti avvenire in altro ambito a causa del conflitto in atto tra i due ex coniugi.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Storia della coppia che esprime il conflitto</b><br />Entrambi i membri della coppia si sposano in età post-adolescenziale. I primi 10 anni trascorrono in maniera più o meno tranquilla: il marito è spesso fuori casa per motivi di lavoro; la moglie si occupa a tempo pieno della gestione della casa e della cura dei figli.<br />La crisi matrimoniale inizia quando lei scopre che il marito ha una serie di relazioni extra-coniugali.<br />Ciò rappresenta per la donna il crollo del suo mondo, la scoperta di non essere affatto, come lei aveva sempre pensato, il centro dell’universo del marito e soprattutto di aver vissuto accanto ad un uomo completamente diverso da come lo aveva sempre creduto. Del resto, l’immagine di uomo devoto che la signora si era andata costruendo del marito era stata generata e alimentata dalla sollecitudine di questi a soddisfare ogni esigenza o desiderio di moglie e figli, dal suo lavorare duro per non far mancare mai nulla alla famiglia.<br />Dopo la scoperta del tradimento, il matrimonio continua ancora per qualche anno, anche per effetto dell’opera di convincimento svolta dalla famiglia d’origine di lei che non ritiene l’infedeltà un motivo valido per far cessare il matrimonio, vissuto non tanto come vincolo affettivo, quanto come istituto necessario a garantire alla donna un ruolo sociale di rispetto.<br />La signora, però, non riesce più a vivere serenamente la condizione coniugale, anche perché il marito continua a tradirla, non ritenendo importanti, e quindi offensive nei confronti della moglie, quelle che lui definisce solo delle “scappatelle”. Cominciano quindi le prime discussioni che scaturiscono dalla subentrata esigenza di lei di conoscere gli spostamenti del marito nonchè le persone con le quali si incontra e dal rifiuto di lui di farsi controllare.<br />L’esasperarsi del rapporto tra i due spinge la donna ad andarsene di casa portando con sé i figli, cosa questa che suscita nel marito un forte rancore nei suoi confronti. Egli, che si è sempre vissuto come marito e padre perfetto, non si riconosce assolutamente nell’immagine di uomo inadeguato che la moglie gli rimanda e anzi l’accusa di non avere per lui quel sentimento di gratitudine che ritiene di meritare per aver sempre garantito alla famiglia una buona posizione sociale ed economica.<br />Durante la separazione di fatto il marito fa numerosi tentativi di riportare la moglie a casa, ma questa, ritenendo di essere stata troppo umiliata, persiste nella sua decisione. Si arriva così alla separazione legale.<br />Durante questa fase, lui, disattendendo le disposizioni del giudice, si rifiuta di passare gli alimenti alla moglie e provvede solo in maniera diretta al mantenimento dei figli comprando loro tutto quello di cui hanno bisogno.<br />Ricorre inoltre all’Autorità Giudiziaria accusando la moglie di non permettergli di prendere con sé i bambini.<br />Quello che in realtà succede è che l’uomo si rifiuta di andare a prendere i figli presso l’abitazione dei nonni, dove la moglie è ritornata a vivere, e pretende che sia lei ad accompagnarli nella vecchia casa coniugale, spinto dalla speranza di riuscire a convincerla a rimanervi. La signora, d’altro canto, volendo far pagare al marito tutti i suoi atteggiamenti prepotenti, neppure può pensare di risolvere quietamente la questione facendo accompagnare i bambini presso la casa coniugale da una terza persona.<br />Entrambi utilizzano quindi i figli per agire il conflitto non riconoscendo affatto il loro bisogno di continuare ad avere rapporti continuativi con il padre: se lui, attraverso di loro, tenta di riappropriarsi della moglie, lei, d’altro canto, se li vive come una possibilità di rivalsa nei confronti del marito.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Storia personale dell’operatrice che interviene sul conflitto</b><br />L’assistente sociale vive, diversi anni prima di incontrare la nostra coppia, una crisi coniugale di seria entità che la porta a prendere in considerazione l’idea di separarsi.<br />Bisognosa di essere aiutata a chiarire i motivi della crisi per capire se la separazione sia l’unica soluzione possibile o se esistano ancora risorse da mobilitare per recuperare il rapporto, decide di chiedere la consulenza di uno psicologo. E’ spinta a formulare questa richiesta anche dal fatto che la figlia esprime il disagio familiare attraverso una condizione depressiva di tipo reattivo.<br />Da buona cattolica praticante, si rivolge ad un consultorio familiare cattolico dove sostiene più colloqui con un prete-psicologo.<br />Questi attribuisce maggior importanza alla sfera genitoriale che non a quella coniugale rimandandole il messaggio che una donna/madre è prima madre e poi donna e deve quindi relegare in secondo piano le sue esigenze di coppia per non allontanare i figli dal padre, soprattutto quando poi il padre, come nel suo caso, si dimostri un buon genitore.<br />Aderendo pienamente alla visione del prete-psicologo, la nostra operatrice decide quindi per la non separazione e trova una soluzione di compromesso che consiste nel rimanere con il marito, ritagliandosi al contempo maggiori spazi di vita autonoma e indipendente rispetto a lui.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Incontro tra l’operatrice e la coppia</b><br />L’operatrice, rispondendo al mandato del Giudice, invita separatamente i due coniugi presso il Centro di Servizio Sociale per concordare con loro orari e modalità degli incontri tra padre e figli.<br />Nel corso del primo colloquio con l’assistente sociale il padre esplicita il suo desiderio di riappacificarsi con la moglie e le chiede di essere aiutato a realizzarlo, riuscendo a passare un’immagine di sé positiva sia come marito che come padre.<br />L’operatrice, sensibile al discorso dell’unione familiare, accoglie la richiesta dell’uomo e così, andando oltre il mandato del giudice, convoca i due coniugi assieme per tentare una riappacificazione che possa “salvare” il matrimonio.<br />L’incontro si rivela però un’ulteriore occasione di scontri accesi tra i due coniugi, scontri che lei si trova assolutamente impreparata a gestire e da cui viene anche emotivamente sopraffatta.<br />L’esperienza traumatica la spinge pertanto a proporre all’A.G. di inviare i coniugi presso un Centro di Mediazione Familiare dotato di figure specializzate nella gestione di coppie altamente conflittuali.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Conclusioni</b><br />Il caso appena esposto dimostra quanto sia importante creare una rete di Centri di Mediazione Familiare diffusi sull’intero territorio dove operatori specializzati nel campo della conflittualità possano svolgere interventi volti alla sua risoluzione, piuttosto che a “tamponare” le emergenze che da essa scaturiscono.<br />Una rete capillare di servizi siffatti consentirebbe di ridurre efficacemente il disagio di genitori e figli, nonché di prevenire quello degli operatori sociali che attualmente si trovano a gestire i conflitti senza esservi minimamente preparati.<br />Difatti - come testimonia il nostro caso - se il rischio per la coppia è di vedere ulteriormente amplificato il livello di conflittualità preesistente, quello per l’operatore è di venire strumentalizzato alla stessa stregua dei figli.<br />Si rende pertanto necessario, per tutelare famiglie e operatori, che siano chiamate ad intervenire sul conflitto familiare figure professionali con una formazione specifica. Questa, a nostro avviso, va intesa non solo come apprendimento di teorie e metodi operativi, ma anche come momento di presa di coscienza dei propri pregiudizi e miti familiari, i quali potrebbero minacciare il mantenimento di una posizione imparziale tra le parti in contesa.<br />Ritornando al nostro caso, e’ evidente come proprio la credenza forte che una coppia unita sia condizione necessaria per una serena crescita dei figli abbia reso l’operatrice facilmente reclutabile dall’uomo come preziosa alleata per il raggiungimento dei suoi scopi.<br />Ci appare allora indispensabile che il mediatore professionista sappia come la sua storia personale ha influenzato i suoi pregiudizi e può, quindi, influenzare il suo operato.<br />La nostra operatrice aveva, come atto di fede, fatti propri i pregiudizi del prete-psicologo considerandoli non come costruzioni di una particolare dottrina ed etica religiosa, ma come verità assolute e astratte alla quali ogni individuo dovrebbe informare la propria vita.<br />Un operatore sociale siffatto può essere paragonato ad un “centro trasfusionale”, ad un ente attrezzato cioè per incamerare, conservare e distribuire, a seconda delle necessità, verità e certezze; un ente che etichetterà magari come strani o disturbati coloro che, pur versando in condizioni di grave malessere, non accetteranno di essere trasfusi del “siero” che risana.<br />Se ridefiniamo il conflitto interpersonale come scontro tra idee, convinzioni, visioni del mondo diverse, allora pensiamo al mediatore professionista come ad un operatore sociale capace di mediare tra i pregiudizi che portano le parti in conflitto, ma, prima ancora, di mediare tra i suoi pregiudizi e quelli degli altri.<br />Solo così difatti ci potrà essere un intervento di mediazione tra due sistemi di pregiudizi- quelli delle due parti in contesa – piuttosto che l’intervento nel conflitto di un terzo sistema di pregiudizi- quello dell’operatore – che, andandosi a scontrare con uno o entrambi, determinerà, inevitabilmente, l’inasprimento del conflitto stesso.<br />Non è sicuramente richiesto al mediatore, come lo è invece al terapeuta, di conoscere e utilizzare le reazioni emotive suscitate dall’incontro con l’altro. Ci appare però necessario che egli abbia almeno un buon livello di conoscenza della propria concezione del matrimonio e del divorzio, così come si è formata nel corso della propria storia personale, sulla scorta delle esperienze vissute in seno alla famiglia d’origine e a quella di nuova costituzione, nonché in base ai valori della cultura e religione di appartenenza.<br />Se è inevitabile che i pregiudizi intervengano, allora è necessario che questi vengano riconosciuti e utilizzati, non imposti a mò di crociata salvifica. Il rispetto che il mediatore mostrerà per i punti di vista di ciascuna delle due parti, pur non nascondendo di avere pregiudizi comuni ad una sola di loro o diversi da entrambe, sarà per le persone in conflitto un valido modello che potrà elicitare in ognuna di loro lo stesso atteggiamento rispettoso per il modo di pensare e di vivere dell’altro. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p style="font-weight: bold;"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p><span style="font-size:100%;"></span> <ul><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">ANDOLFI M., ANGELO C., Tempo e mito nella psicoterapia familiare, Bollati<br /> Boringhieri, Torino; 1987.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">BASSOLI F., MARIOTTI M., FRISON R., Mediazione Sistemica, Edizioni Sapere,<br /> Padova; 1999.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">CECCHIN G., LANE G., RAY W. A., Verità e pregiudizi, Raffaello<br /> Cortina Editore, Milano; 1997. </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">HAYNES J., BUZZI I., Introduzione alla mediazione familiare, Giuffrè,<br /> Milano; 1996.</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;">RUGGIERO G., Il conflitto familiare: dalla valutazione al processo di<br /> mediazione, Animazione Sociale; Maggio 1997. </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> </ul><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-11248064118344890972007-04-06T22:15:00.001+01:002008-12-09T00:02:31.170+01:00TRA CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE LA PRASSI NELL’UFFICIO DI SERVIZIO SOCIALE PER I MINORENNI DI VENEZIA<div style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt_8Z06GlQRFaaSliaeLHSwxwQMzps7bB38-jVf5rih7yI7E66QeyJSrS8uSmvYr9OgVf5C5no0jQhSJ0jy8ws0wEAgVa1whjXPoPkoTW3kvQCubtf399KIguYRaxFQ7zDb72r6QldtP4/s1600-h/15.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt_8Z06GlQRFaaSliaeLHSwxwQMzps7bB38-jVf5rih7yI7E66QeyJSrS8uSmvYr9OgVf5C5no0jQhSJ0jy8ws0wEAgVa1whjXPoPkoTW3kvQCubtf399KIguYRaxFQ7zDb72r6QldtP4/s320/15.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050715259818928770" border="0" /></a><span style="font-weight: bold;">Simona Ceccanti</span><br /></span> </div><div style="font-family: arial;" align="justify"><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Psicologa. Ufficio Servizio Sociale Minorenni Tribunale di Venezia</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Nel cominciare a parlarvi di che cos’è la prassi della mediazione penale così come si va articolando da alcuni anni in Italia all’interno del sistema penale minorile del quale io faccio parte, devo fare riferimento al contesto delle norme giuridiche nel quale questa prassi va a collocarsi, che sono vincolo e risorsa. Più avanti capirete meglio perché insisto in questo caso a parlare di prassi e di come questa abbia trovato uno spazio proprio all’interno del contesto penale minorile, anche se poi farò riferimento all’esperienza specifica di Venezia, poiché altri Uffici in Italia hanno operato scelte molto diverse dalle nostre.<br />Innanzitutto è necessario andare a definire il significato dei termini mediazione e conciliazione. Interessante e denso di spunti in tal senso è il modo come vengono definiti questi termini dal vocabolario della lingua italiana Zingarelli.<br />Il verbo <b>mediare</b> viene definito come: “arrivare ad un’intesa con la mediazione di qualcuno.<br />Non esiste il corrispettivo verbo <b>conciliare</b>, esiste solo come sostantivo e fa riferimento al concilio vescovile!<br />Mediatore è definito come “intermediario che contribuisce al raggiungimento di un accordo”, mentre <b>conciliatore</b> è definito come “che concilia. Giudice. Chi concilia”<br />La parola <b>mediazione</b> è definita come “attività del mediatore”, mentre la parola <b>conciliazione</b> è definita come “raggiungimento di un accordo”.<br />Come è facile dunque evincere dall’approfondimento del significato di questi termini, mentre la mediazione è una attività che viene svolta da un soggetto che è per definizione terzo (intermediario) e che può avere varie e diverse finalità tra le quali “il raggiungimento di un intesa” che è comunque quella che le parti scelgono liberamente, la conciliazione si configura già come risultato (raggiungimento di un accordo) in cui il conciliatore non viene definito come intermediario ma come colui che “agisce “questo accordo (conciliatore è colui che concilia – il giudice).<br />Questo aspetto non è di secondaria importanza nella prassi operativa in quanto, come vedremo più avanti, a dispetto di spazi di riflessione comune<br />tra gli operatori del mio servizio, vi sono sicuramente differenze significative nel modo in cui viene declinato il mandato della Procura.<br />Questa infatti ci segnala i casi per i quale ritiene fattibile una <b>conciliazione</b> con questa dicitura: “si prega in particolar modo di valutare la possibilità di una conciliazione tra le parti”.<br />Rispetto a questa richiesta l’operatore può decidere di proporsi alle parti come <b>conciliatore</b><b>mediatore</b>, considerando la conciliazione uno dei possibili obiettivi ma non l’unico, come del resto vedremo nel caso che porterò ad esempio. Intorno ai due estremi di un continuum ideale che va dal conciliatore al mediatore, gli operatori del mio servizio si collocano in modo differente a seconda della formazione professionale ed anche delle personali convinzioni.</span> ovvero come sostituto del giudice, oppure come </p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Il primo vincolo giuridico con il quale si scontra chi fa’ mediazione penale è uno dei principi cardine dell’ordinamento giuridico italiano:<b>in Italia vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.</b><br />Questo implica che la Procura non può autonomamente decidere quali reati perseguire e quali no. Nel momento in cui riceve una notizia di reato il pubblico ministero deve avviare le indagini e questo atto introduce immediatamente il conflitto all’interno del sistema giudiziario.<br />Questo spiega perché, pur essendoci un grosso dibattito ormai da anni all’interno della giurisprudenza sulla opportunità di arrivare alla costituzione di uffici di mediazione penale, di fatto non si sia mai riusciti a produrre una legge che li istituisse.<br />In ogni caso, pur avendo presente questo vincolo forte, chi si occupa di mediazione penale deve tenere conto di un concetto fondamentale introdotto da Vittorio Cigoli: quello di <b>transfert sulla giustizia.</b><br />Nel caso della mediazione penale in ambito minorile dobbiamo prendere in considerazione almeno due soggetti che stanno “trasferendo” qualcosa sul sistema giudiziario: il minore e la parte offesa. Un terzo soggetto sono poi i genitori del minore.<br />Per quanto riguarda l’adolescente noi sappiamo che l’atto deviante si configura come comportamento comunicativo forte che attiva delle risposte altrettanto forti dal punto di vista istituzionale. Mazzei a questo proposito parla dei due aspetti insiti in un messaggio: il rumore ed il contenuto. Per poter capire il senso del comportamento deviante e poterlo restituire all’adolescente è necessario partire dal rumore per leggerne il contenuto e restituirlo al minore ed ai suoi genitori.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Se ciò che viene preso in considerazione è solo il rumore che il comportamento dell’adolescente ha prodotto, questi sarà successivamente costretto ad aumentarlo con l’intento implicito di far arrivare agli adulti quella parte del messaggio che egli voleva comunicare.<br />Per quanto attiene invece alla parte offesa, questa a sua volta nel momento in cui si rivolge alla giustizia attraverso la denuncia/querela, trasferisce su di essa una serie di bisogni, aspettative e richieste che debbono essere ascoltate, lette e restituite perché possa avviarsi un vero processo di mediazione.<br />Possiamo quindi già sintetizzare sommariamente il primo compito di chi si occupa di mediazione penale come quello di capire il tipo di transfert che viene portato sul sistema giudiziario dai diversi soggetti interessati nel conflitto.<br />Il processo penale minorile contiene al suo interno alcune brecce che hanno consentito di avviare una sperimentazione sulla mediazione penale nonostante il forte vincolo di cui abbiamo precedentemente parlato.<br />Le brecce sono costituite da alcuni articoli di legge che mostrerò brevemente attraverso i prossimi lucidi e che sono gli stessi articoli di legge sui quali si fonda il lavoro degli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni in Italia.<br />Gli USSM sono Uffici alle dipendenze del Ministero della Giustizia che si occupano di quei minori che entrano a qualche titolo nel sistema penale minorile in seguito a denuncia o ad arresto. Gli USSM lavorano su segnalazione della Procura e/o del Tibunale per i Minorenni, ma sono autonomi nella loro organizzazione e gestione.<br />Gli articoli del DPR 448/88 che regola il processo penale minorile che ci interessano per il nostro discorso sono tre:<br />Art. 9 (Accertamenti sulla personalità del minorenne) – “Il Pubblico Ministero e il Giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili.”<br />Art. 27 (Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto) – 1 - “Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il Pubblico Ministero chiede al Giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne”.<br />2 – “sulla richiesta il Giudice provvede in camera di consiglio sentiti il minorenne e l’esercente la potestà dei genitori, <b>nonché la persona offesa dal reato</b>”.<br />Art. 28 (Sospensione del processo e messa alla prova) – Il Giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova …. Con il medesimo provvedimento il Giudice può impartire <b>prescrizioni</b> dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la <b>conciliazione</b> del minorenne con la persona offesa dal reato.”<br />Prima che si decidesse di aprire uno spazio alla mediazione penale la prassi degli operatori del nostro Servizio era a grandi linee questa:<br />la procura segnalava i minorenni al nostro servizio per svolgere l’indagine psico-sociale sulla base dell’art. 9 che abbiamo visto sopra. Il servizio convocava il minorenne e la sua famiglia ed iniziava quella fase di conoscenza che poi poteva arrivare alla presentazione di un progetto di messa alla prova nel corso del processo. I tempi dell’intervento del Servizio venivano essenzialmente scanditi da:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><ol style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">la gravità del reato e/o della situazione personale e familiare del minore</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">i tempi processuali.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Questo, alla luce anche del carico di lavoro notevole del Servizio stava a significare che i tempi della presa in carico delle situazioni meno problematiche oppure per i reati più lievi, venivano essenzialmente scanditi dall’iter processuale. Tanto per dare un es. nel nostro Trib. Possono passare anche due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio del PM alla fissazione dell’Udienza preliminare.<br />Pertanto questi minorenni attendevano in un limbo senza alcuna possibilità di dare un senso all’agito deviante. D’altro canto la parte offesa vedeva comunque lese le sue richieste ed i suoi bisogni che aveva proiettato sulla Autorità giudiziaria in una generica attesa di “giustizia”, poiché al suo atto (la denuncia) non faceva apparentemente seguito niente.<br />Nel 1996 il dott. Gustavo Sergio, procuratore presso la procura minorile di Venezia, presentò ad un convegno una relazione dal titolo “La criminalità minorile in veneto – concrete ipotesi di mediazione”.<br />Successivamente vi fu un incontro tra il nostro ufficio e la Procura nel quale venne concordata una ipotesi di prassi diversa che avesse alla sua base dei principi comuni ispirati al DPR 448/88. Tali principi possono essere così sintetizzati:<br /><br /></span> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">- importanza di una rapida uscita del minore dal circuito penale;<br />- dare voce alle esigenze ed ai bisogni della parte offesa che spesso rimane nell’ombra nel corso del procedimento penale;<br />- rendere il minore protagonista del proprio percorso educativo;<br />- dare un significato diverso alla rilevanza sociale del fatto che, attraverso la ricomposizione del conflitto, viene ad essere attenuata;<br />- evitare la delega totale al penale di conflitti che potrebbero essere gestiti all’interno del tessuto sociale delle parti.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Con la Procura si è quindi avviato un confronto che ha riguardato:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><ol style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">la tipologia dei reati da segnalare;</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">la modalità attraverso la quale questi reati debbono essere segnalati al Servizio;</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">di quali informazioni necessita il Servizio per poter intervenire.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">A questi incontri ha fatto seguito la messa a punto di una prassi di mediazione penale che è il frutto di diversi momenti di riflessione e condivisione all’interno dell’Ufficio. Tali momenti hanno però riguardato più “che cosa si fa” piuttosto che il “<b>come</b> si fa” e sicuramente è mancata una seria definizione al nostro interno relativamente ai ruoli di “mediatore” o di “conciliatore”.<br />Ho sottolineato precedentemente che la Procura segnala al servizio la possibilità di tentare una “conciliazione” tra le parti. I reati che generalmente vengono segnalati sono di gravità medio-lieve, con alcune eccezioni che vedremo. Per i reati lievi il PM può già chiedere autonomamente un proscioglimento sulla base dell’art. 27 (irrilevanza del fatto).<br />Il principio giuridico in cui si è inserita la possibilità di conciliazione all’interno del penale minorile è quello di considerare che laddove vi sia stata una ricomposizione del conflitto che ha dato origine all’azione penale, la rilevanza sociale del fatto viene ad attenuarsi.<br />Prende corpo quindi l’idea che è il contesto sociale che fattivamente si assume la responsabilità di decidere quali azioni sono o non sono rilevanti (e non il giudice in sé sulla base di principi astratti) ma soprattutto si apre uno spazio affinché le parti possano riprendersi e riconoscere quei bisogni che avevano trasferito sulla giustizia.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">I reati segnalati dalla Procura si suddividono pressappoco al 50% tra reati procedibili d’ufficio e reati procedibili su querela.<br />Questo dato si è rivelato molto importante rispetto al significato che può avere l’avvenuta ricomposizione o meno del conflitto tra le parti. Infatti, se nel caso di un reato procedibile su querela, l’avvenuta conciliazione può portare il querelante a rimettere la querela, “costringendo” il giudice a prendere atto e a non procedere oltre nell’iter penale, nel caso di reati procedibili d’ufficio, il servizio trasmette alla Procura relazione sull’avvenuta conciliazione, fornendo tutti i dati necessari relativi agli accordi delle parti, dopo di che è il PM prima ed il giudice dopo che decide se ratificare o meno tale accordo, in che modo ed in che sede (con il proscioglimento per irrilevanza del fatto in sede d’indagini preliminari o con la concessione del perdono giudiziale in sede di Udienza Preliminare).<br />Il mediatore penale, pertanto, deve sempre tenere presente che opera all’interno di un contesto giudiziario e che qualsiasi sua scelta o mossa può andare o non andare ad incidere sulle scelte ultime del giudice. Vi è una sostanziale differenza con l’ambito civile, per es. nei casi di separazione e divorzio, nel quale i coniugi che scelgono di rivolgersi al mediatore gli chiedono di operare in un ambito extragiudiziale; qui siamo già completamente all’interno del sistema giudiziario e di fatto le parti della mediazione sono tre e non due (non parte offesa – reo, ma parte offesa – reo e autorità giudiziaria, oltre che naturalmente Servizio Sociale).<br />Se dovessimo pertanto fare un’analogia tra la mediazione penale ed altri interventi che coinvolgono in qualche modo la giustizia, la mediazione penale ha molte più similitudini con l’intervento nell’ambito della CTU che non con la mediazione civile vera e propria.<br />Le fasi dell’intervento di mediazione vero e proprio sono:<br />- segnalazione della Procura1; Alla richiesta la procura allega il modulo con la notizia di reato.<br />- Assegnazione ai singoli operatori (o a più figure professionali, es. assistente sociale-psicologo);<br />- Primo contatto con le parti (per lettera o telefonicamente) e convocazione del minore e dei suoi genitori;<br />- Uno o più colloqui con minore e genitori;<br />- Uno o più colloqui con la parte lesa;<br />- Incontro congiunto di mediazione ed eventuale stipula dell’accordo.<br />In tutte queste fasi la nostra attenzione è orientata a capire quali bisogni portano le parti, a consentirgli di esprimerli ed ha decodificare in termini di significato le eventuali richieste reciproche (es. di risarcimento economico).<br />Con il minore in particolare fin dal primo colloquio, pur premettendo che il nostro compito non è quello di valutare la veridicità dei fatti, cerchiamo di capire se egli riconosce la propria responsabilità rispetto ai fatti attribuitigli ed in che misura. Infatti, per poter procedere nella mediazione è necessario, per ovvi motivi, che egli riconosca almeno in parte la propria responsabilità, anche se non necessariamente negli stessi termini che gli viene attribuita dalla parte offesa.<br />Il colloquio con il minore è inoltre orientato fin dall’inizio al tentativo di inserire il reato nel contesto più ampio della fase di vita che egli sta attraversando, oltre che a capire che tipo di relazioni c’erano o ci sono tuttora con la parte offesa.<br />La mediazione penale minorile a mio avviso, pur se con le debite differenze deve poter mantenere al suo interno quegli aspetti educativi a cui si ispira tutto il DPR 448/88. La nostra funzione rimane quindi quella di comprendere il significato del reato ed a partire da questo fare delle proposte che vadano nella direzione del sostegno e del controllo. La mediazione, quindi, non deve essere per l’adolescente un modo per sfuggire ad una punizione supposta ma deve aiutarlo a divenire protagonista delle sue azioni, attraverso un percorso di comprensione e di riflessione a posteriori del suo comportamento.<br />In questo senso l’incontro per la mediazione può divenire il preludio a successive forme di intervento più mirato sulle singole situazioni e lo spazio di ascolto concesso può finalmente mettere la famiglia nella condizione di poter chiedere aiuto rispetto ad un momento di difficoltà in questa fase del ciclo vitale.<br />Ho tralasciato di parlare in questo intervento di quelle mediazioni che hanno per oggetto un conflitto tra minori e istituzioni od organizzazioni (che divengono parte offesa), perché merita un discorso a parte. Anche in questo caso, comunque, è utile utilizzare il concetto di transfert sulla giustizia, per es. per leggere il tipo di difficoltà che spingono alcune istituzioni, come ad esempio quella scolastica, a fare ricorso ad un’autorità esterna (il giudice) per far fronte a conflitti con la propria utenza (l’adolescente), dopo aver fallito tutte le altre risorse educative.<br /><br /></span> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Un esempio “anomalo” di mediazione penale.</b><br />Il caso che ho deciso di illustrarvi si presenta come un po’ anomalo, per vari aspetti, in riferimento alle consuete segnalazioni per la conciliazione. La prima anomalia è il tipo di reato segnalato, piuttosto grave “atti di libidine violenta” compiuti da un gruppo di sette minorenni ai danni di una coetanea; la seconda riguarda le modalità della segnalazione ed infine la terza anomalia è relativa alla modalità con la quale abbiamo deciso di intervenire.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Il fatto</b><br />E’ avvenuto circa un anno e mezzo fa, in una sera d’estate, nella piazza del paese di un piccolo comune del Veneto. In quell’occasione un gruppo di sette minorenni costringe con la forza una ragazza del paese, quattordicenne (che chiameremo Martina) ad appartarsi in una zona buia della piazza, la collocano su un muretto e iniziano una serie di atti violenti, tra cui palpeggiamenti, penetrazione di dita nella vagina e nell’ano. Qualcuno la tiene ferma, altri le tengono la bocca chiusa, altri ancora si limitano ad assistere alla scena. Dell’episodio sembrano accorgersi un amico e un amica della ragazza che però non intervengono, sostengono, per paura.<br />Un’altra ragazza viceversa, che si rende conto di quanto sta accadendo, intima ai giovani di lasciare Martina ed il fatto si interrompe. M. rientra sconvolta al Bar del paese. Poco dopo le si avvicina uno dei ragazzi protagonisti della vicenda che lei conosceva e, vista la ragazza sola e disperata insiste per riaccompagnarla a casa.<br />M. non racconta niente ai genitori per alcuni giorni. Il giorno successivo al fatto, lo stesso ragazzo che l’ha riaccompagnata a casa (che chiameremo Luca) le si avvicina chiedendole scusa. Si dice sconvolto per quanto ha fatto e dice di non riuscire a capire neanche lui come ha potuto commettere un gesto del genere. E’ l’unico dei sette ragazzi che nell’anno e mezzo successivo ha fatto un gesto di riconoscimento nei confronti di M., così come i suoi genitori che, una volta venuti a conoscenza dell’accaduto si sono spontaneamente recati a casa di M. con il figlio per esprimere il loro grande rammarico per il suo comportamento ed hanno poi preso dei provvedimenti educativi nei confronti dello stesso.<br />Gli altri ragazzi (in particolare uno) nei giorni successivi avevano raccontato il fatto nel bar del paese come una prodezza, descrivendo la vittima come consenziente.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>La denuncia</b><br />Una volta venuti a conoscenza dell’episodio i genitori di M. decidono di sporgere denuncia con l’intento dicono “che ai ragazzi arrivasse un segnale forte dal Tribunale che li costringesse a riflettere sull’accaduto”.<br />Dopo circa una settimana dalla denuncia, vedendo che l’atteso segnale non arrivava e di fronte alla figlia che stava sempre più male, era spaventata, non usciva più di casa, si rivolgono nuovamente ai CC con l’intento di ritirare la querela perché non intendevano sottoporre la figlia ad ulteriori stress che un eventuale processo avrebbe comportato. Resi edotti dell’impossibilità del ritiro, in quanto reato procedibile d’ufficio, d’accordo con il Maresciallo, decidono di far aggiungere una postilla alla denuncia in cui dichiarano le loro intenzioni ed in cui ne precisano le motivazioni non perché il fatto non sia avvenuto ma per non provare ancora di più la figlia.<br />M. frattanto acconsente di essere vista da una psicologa privatamente per essere aiutata a superare il momento di forte disagio. Farà complessivamente dodici sedute a cadenza settimanale.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>La segnalazione</b><br />Il Procuratore chiede al nostro Ufficio, ad un anno e mezzo dal fatto, la disponibilità a convocare la ragazza ed i suoi genitori per capire quali sono attualmente le loro idee rispetto al procedimento penale, come sta la ragazza e se vi è lo spazio per tentare una conciliazione tra le parti.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>I colloqui con Martina e i genitori</b><br />Nei colloqui avvenuti con M. ed i suoi genitori (M. è figlia unica) oltre ad informarli della richiesta della Procura, si è cercato di ricostruire la modalità con la quale hanno affrontato all’interno della famiglia tutta la situazione che è seguita all’episodio: i loro sentimenti, quelli di M.; come hanno supportato la figlia a superare il momento difficile, i sentimenti nei confronti dei ragazzi e delle loro famiglie.<br />Si è inoltre cercato di capire prima con i genitori e M. poi solo con la ragazza il senso del loro chiedere la chiusura di tutto.<br />Sono emersi in primo luogo i sentimenti di paura:<br />delle ritorsioni dei ragazzi con l’idea che, imputandola responsabile di un eventuale processo a loro carico, avrebbero ricominciato a sparlare di lei. Inoltre la paura, fortissima, di dover raccontare nuovamente i fatti in un aula di tribunale, davanti a molte persone ed ancora un grande timore di soffrire nuovamente adesso che aveva ritrovato una certa serenità.<br />Tutto questo la spinge a dire che non le importa che i ragazzi vengano condannati o meno, tantomeno le interessa il tipo di punizione tanto lei rimane convinta che questi ragazzi non saranno mai in grado di pensare al danno che le hanno provocato.<br />Gli obiettivi del lavoro con M. saranno quindi quelli di:<br />- aiutarla a far emergere la rabbia che sembra congelata dal sentimento di paura in relazione con una immagine interiorizzata dei ragazzi molto potente e pericolosa;<br />- una volta emersi ed espressi i sentimenti di rabbia, consentirle di accettare quello che in terapia familiare si chiama “confine generazionale”, attraverso il suo potersi affidare ad un tribunale che giudicherà i ragazzi “non in nome suo” (vendetta) ma “in nome del popolo italiano”.<br />- Permetterle comunque di avere un ruolo attivo nell’iter penale, esplicitandole il fatto che parallelamente all’attività di sostegno con lei, il Servizio (nella persona di una educatrice e di uno psicologo) avvierà un intervento con i ragazzi e le loro famiglie sul cui esito informerà la Procura. La ragazza viene inoltre informata del fatto che io parteciperò alle équipe con i colleghi che seguiranno i ragazzi e che le équipe saranno il luogo dove si tenterà di ragionare insieme sui reciproci vissuti, aspettative, preoccupazioni ecc.<br />Aiutarla a connettere le percezioni relative ai ragazzi avute nel corso di quest’ultimo anno e mezzo (alcuni di loro abbassano lo sguardo quando la vedono come se si vergognassero, altri hanno tentato di salutarla, altri ancora conosciuti per le loro difficoltà ed insicurezze) con un immagine interna statica di soggetti immutabilmente potenti e pericolosi. Attraverso una “riconciliazione” ed un ridimensionamento di questa immagine interna potrà infatti diminuire quel vissuto di ansia e di paura che comunque l’accompagna.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Colloqui con i minori e con i loro genitori</b><br />Non mi dilungherò sui colloqui avuti dai colleghi con i minori e le loro famiglie i cui obiettivi erano essenzialmente:<br />- l’atteggiamento dei ragazzi rispetto al reato contestatoli (riconoscimento o meno della responsabilità individuale ed in quale misura);<br />- se vi erano stati, nel tempo, dei mutamenti rispetto all’atteggiamento nei confronti del reato;<br />- i sentimenti espressi nei confronti della vittima;<br />- se e che tipo di risposta educativa era stata data dai genitori alla notizia dell’episodio;<br />- se avevano mai pensato o cercato di contattare la vittima o i genitori della vittima e se no perché.<br />Le famiglie erano informate dei colloqui che in parallelo avvenivano con la parte offesa e con i suoi genitori ed anche dell’aspettativa principale che li aveva spinti a far ricorso alla giustizia: “non per ottenere vendetta ma per dare un segnale forte ai ragazzi che li permettesse di riflettere sul loro comportamento”.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Risposta alla Procura</b><br />La conclusione di questi colloqui preliminari con le parti ci ha spinti a valutare che:<br />- il desiderio della ragazza e dei suoi genitori di non procedere nell’iter penale era dettato da sentimenti di paura (espressi) e da una rabbia molto forte (non espressa). Tale rabbia, che se resa esplicita avrebbe potuto lasciar trasparire desideri di vendetta, li aveva portati a confondere vendetta e giustizia, come se da loro esclusivamente dipendesse la sorte dei minori (da qui di nuovo il timore di ritorsioni). Era pertanto importante che l’Autorità Giudiziaria si definisse ed operasse delle scelte tenendo conto dei bisogni della parte offesa ma senza confermare l’idea che necessitasse della sua “autorizzazione a fare giustizia”.<br />- Un eventuale percorso riparativo indiretto dei ragazzi avrebbe potuto aiutare anche la vittima a ridimensionare l’immagine introiettata dei minori vissuti in modo onnipotente (proprio perché l’avevano ridotta all’impotenza).<br />- Tale percorso riparativo andava però collocato in un contesto Istituzionale formale (l’Udienza Preliminare) nel corso del quale i minori riconoscessero formalmente le loro responsabilità e si assumessero degli impegni davanti all’autorità Giudiziaria.<br />- Non escludevamo a priori la possibilità di un incontro conciliativo vero e proprio tra i ragazzi e la ragazza ma solo dopo che questi avessero fatto un percorso di significazione del reato e se e quando la ragazza, attraverso un percorso parallelo di elaborazione, fosse stata pronta ad affrontare tale incontro. </span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Conclusioni</b><br />Si è trattato questo di un caso di mediazione penale? Io credo di sì, poiché fin da subito si sono prese in considerazione entrambe le parti del conflitto e si è cercato con loro di lavorare avendo in mente anche l’altra parte.<br />La preoccupazione di uno sbilanciamento verso la vittima nel caso di un reato così forte mi ha spinto a chiedere aiuto ai due colleghi ed ha trasformato il mediatore in un équipe di mediazione che ha tenuto conto del lavoro reciproco ed ha lavorato passando all’utenza quest’idea di un percorso di tessitura dei diversi punti di vista in incontri congiunti tra i professionisti che stavano conducendo l’intervento.<br />C’è stata un’opera di rilettura in itinere della richiesta iniziale della Procura che ci ha portato ad effettuare proposte diverse ma condivisibili con l’Autorità Giudiziaria che, crediamo, le consentiranno di muovere delle scelte più legate ai reali bisogni delle parti.<br />Una eventuale messa alla prova che dovesse essere concessa ai ragazzi nel corso di una udienza preliminare, consentirà loro di assumersi concretamente delle responsabilità, di attribuire un senso al comportamento deviante all’interno della loro storia e di consentirgli fattivamente di operare una riparazione (seppur indiretta) rispetto al danno prodotto.<br />Nell’ultimo colloquio con Martina, quando le è stato spiegato il tipo di proposta che l’équipe intendeva fare alla Procura (compresa la disponibilità dei ragazzi e delle famiglie ad una eventuale messa alla prova), ella si è finalmente potuta permettere di dire “avessi dovuto decidere io non so che tipo di punizione gli avrei dato, comunque so che qualsiasi cosa non sarebbe stata abbastanza per farmi stare meglio”.<br />Martina rimane giustamente perplessa del reale “pentimento” dei ragazzi (o almeno di alcuni di essi) ma si è sentita sollevata del peso che i suoi sentimenti di rabbia, mai veramente espressi, le inducevano: rimanere immobile per non agirli, sentirsi responsabile di tutto, anche della sorte di chi le aveva fatto male, confondere un legittimo desiderio di giustizia con il desiderio di vendetta che non poteva essere placato.<br />Questo è il primo passo, a mio avviso, perché ella possa elaborare i sentimenti depressivi connessi con la violenza subita (forse la riparazione dentro di me è possibile), in una fase delicata della vita com’è l’adolescenza. </span></p><span style="font-size:100%;"></span> <p style="font-weight: bold;"><span style="font-size:100%;">Note</span></p><span style="font-size:100%;"></span> <ol><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li><span style="font-size:100%;"> Il PM può solo segnalare al Servizio di prendere in considerazione<br /> questa opportunità (la conciliazione), ma non può imporla.<br /> La valutazione ultima relativamente alla fattibilità spetta al servizio. </span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span> </ol><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-528095253141977032007-04-06T22:15:00.002+01:002008-12-09T00:02:31.076+01:00L’ISTITUZIONE DI UN SERVIZIO PER LA FAMIGLIA IN UNA STRUTTURA PUBBLICA<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgLlplHCktrspaHc1B9RCxXz4eMWf0JrNvwnbWfEz74qdPjYvMMm4u24Z3wDXIF3A5Nu6NSGi0znG4ozLAObF8LjtWMA319GNLFNnrwTWAS3Jyewvkas_TCopqpak08nB9LV-rel3kNdQE/s1600-h/16.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgLlplHCktrspaHc1B9RCxXz4eMWf0JrNvwnbWfEz74qdPjYvMMm4u24Z3wDXIF3A5Nu6NSGi0znG4ozLAObF8LjtWMA319GNLFNnrwTWAS3Jyewvkas_TCopqpak08nB9LV-rel3kNdQE/s320/16.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050716428050033298" border="0" /></a></span><span style="font-family: arial; font-weight: bold;font-family:Arial, Helvetica, sans-serif;font-size:100%;" >Tea Baraldi</span><span style="font-weight: bold;font-size:100%;" ><br /><br /></span><span style="font-family: arial; font-weight: bold;font-family:Arial, Helvetica, sans-serif;font-size:100%;" >Daniela Fedrigo</span><span style="font-weight: bold;font-size:100%;" ><br /></span><p style="text-align: left; font-family: arial; font-weight: bold;"><span style="font-size:100%;">Daniela Giacobbe</span></p><span style="font-size:100%;"><span style="font-family: arial;">SociaOrdinaria A.I.M.S. Alessandria</span><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Questo contributo si propone di illustrare le modalità di lavoro del ‘Servizio per la famiglia’, creato dal CISSACA (Consorzio Intercomunale dei Servizi Socio Assistenziali dell’Alessandrino), che intende offrire ai cittadini nuove tipologie di intervento, in risposta a bisogni diversificati da quelle storicamente di carattere assistenziale.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">In modo particolare, si intende presentare un modello di lavoro dove la contiguità con il sistema giudiziario e forense è stata considerata come una possibile risorsa e dove, attraverso una rete di relazioni costruita negli anni, si è creato un modello di intervento che ha l’obiettivo di raccogliere, nel rispetto dell’autonomia, tutte le sinergie possibili tra operatori sociali, psicologici e giudiziari.<br />Il presente intervento analizza in modo particolare due delle varie tipologie di intervento offerte dal ‘<b>Servizio per la famiglia’</b> – la mediazione e l’utilizzo del luogo neutro –, centrando l’attenzione soprattutto sulle interazioni nel merito tra sistema sociale e sistema giuridico e forense.<br />Fino a pochi anni fa, l’accesso al servizio pubblico per problematiche familiari era strettamente correlato al ceto sociale – medio/basso – o a obblighi giudiziari demandati ai Servizi dal Tribunale Ordinario o – più sovente – dal Tribunale per i Minorenni.<br />Negli ultimi anni, in concomitanza ad una crisi della famiglia sempre più marcata - le cui cause sono da individuare anche a livello strutturale -, la tipologia di richieste al Servizio Pubblico si è differenziata ampiamente e la categoria del censo non rappresenta assolutamente più una discriminante.<br />Una matrice pressoché comune a tutte le richieste è relativa alla esigenza di ascolto in una situazione di confusione personale e di crisi delle relazioni, dove l’elemento della solitudine è connesso alla sofferenza e alla pena di fronte “alla gestione della fine del legame coniugale”</span><span style="font-size:100%;">1, spesso in assenza del sostegno delle generazioni precedenti.<br />L’accesso ai Servizi è spontaneo, laddove qualche membro del nucleo si è reso disponibile a riconoscere il disagio e la crisi, richiedendo aiuto; in altri casi è “coatto”</span><span style="font-size:100%;">2, dove cioè si tratta di un obbligo, di un’imposizione da parte della Magistratura Ordinaria o Minorile.<br />Questa ultima particolare modalità di accesso ci ha consentito di costruire nel tempo una rete di relazioni proficua e stimolante con i giudici che si occupano di problematiche familiari nella nostra città.<br />Contestualmente, ci ha anche permesso di avviare un rapporto di conoscenza e di scambio di informazioni con alcuni avvocati familiaristi più sensibili alle problematiche sociali e psicologiche della separazione e del divorzio, connesse soprattutto all’attenzione nei confronti dei bambini coinvolti.<br />Questa amplia rete di relazioni ha stimolato un reciproco confronto sulle esperienze, ma ha anche amplificato le richieste sul versante giudiziario e forense nei nostri confronti, ponendoci nella necessità di affrontare una casistica molto amplia e diversificata.<br />Un ostacolo importante alla costruzione di risposte adeguate e costruttive era dato dalla dispersione dei vari operatori in servizi e aziende differenti: la rete delle relazioni è stata coltivata per diverso tempo grazie alle iniziative e alle energie personali, che hanno permesso di mantenere attivi i rapporti di lavoro e le comunicazioni finalizzate ad interventi comuni.<br />La creazione, dunque, di questo servizio per la famiglia, con personale proveniente da enti differenti, ora in grado di lavorare insieme anche attraverso precisi accordi di programma formali, sembra costituirsi come una risposta più precisa e mirata alle nuove domande poste da difficili e dolorose situazioni familiari. Contemporaneamente, è anche un esempio della capacità di collaborazione tra istituzioni diverse di fronte ad un progetto definito e preciso, che rimanda anche un’immagine di modernità ed efficienza al più allargato contesto sociale.<br />Desideriamo utilizzare il concetto di Cigoli ovvero “l’attenzione allo scambio tra le generazioni” per illustrare l’evoluzione della nostra équipe di lavoro.<br />Dieci anni fa, l’assistente sociale e la psicologa, coetanee, hanno iniziato un lavoro comune, costante e continuativo con le famiglie problematiche: dapprima esclusivamente come operatori del servizio pubblico; successivamente e con sempre maggiore frequenza in collegio peritale nelle consulenze richieste dai giudici dei Tribunali Ordinari e Minorili e, più recentemente, anche delle Procure nell’ambito di situazioni che vedano coinvolti bambini e adolescenti.<br />Tre anni fa, in concomitanza di un caso di consulenza tecnica d’ufficio piuttosto complesso, le due professioniste, concordemente, si sono accorte che era necessario un ulteriore apporto e che, pertanto, occorreva aprire l’équipe ad una terza persona, di professionalità differente e con strumenti di lavoro diversi. A partire da quel momento abbiamo dunque costruito un triangolo, dove il terzo operatore è più giovane, con una professionalità - l’educatore professionale - di più recente costituzione nell’ambito della storia dei servizi.<br />D’altro canto, l’assistente sociale e la psicologa hanno a loro volta ricevuto ‘dei doni’ di sapere ed esperienza da una collega ormai in pensione da diversi anni, che li ha trasmessi loro con l’obiettivo condiviso della costruzione di servizi sempre più vicini alle persone e rispettosi dei loro bisogni.<br />Ci piace dunque pensare alla nostra équipe come ad un modello triangolare di lavoro, dove lo ‘scambio tra le generazioni’ in ambito professionale promuove un concreto investimento produttivo sul futuro.<br />Tutto ciò è stato, ed è tuttora, fonte di soddisfazione e di gratificazione professionale per tutte noi, ed ha costituito un valido aiuto per affrontare sia la disperazione sottesa a molte vicende familiari che abbiamo incontrato, sia la tortuosità della storia delle istituzioni cui apparteniamo, spesso confusa e disordinata, non sempre capace di proiettarsi in avanti in azioni propositive.<br />La costruzione di un servizio per la famiglia è invece una di queste ed è l’esito anche di quel proficuo scambio generazionale iniziato diversi anni fa.<br />Il CISSACA, nell’ambito dei programmi di politica sociale a favore della famiglia e dei minori, anche in ottemperanza alla legislazione vigente in materia, accanto ed in sintonia con le numerose attività da tempo in atto nel settore, ha deciso di potenziare gli interventi di sostegno alla famiglia e alla genitorialità attraverso l’istituzione di un <b>Servizio per la Famiglia</b>, quale “spazio” per realizzare una serie di interventi di sostengo ai minori e ai nuclei familiari. In particolar modo ci soffermeremo sugli interventi di mediazione e di incontro fra genitori e figli in uno spazio neutro. Tale progetto rientra in un più vasto processo di implementazione della Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo del 1989, ratificata dall’Italia con la Legge n.176/91, la Convenzione Europea del 1995, nonché l’attuazione delle Leggi italiane più significative in materia (n. 151/75 n. 184/83, n.66/96 n 285/97, n.451/97, n. 476/98) che in questi anni hanno contribuito a creare una nuova cultura sulle problematiche familiari e minorili. Tra le varie finalità, questa normativa ha posto in risalto l’esigenza di tutelare i diritti dei bambini e, tra l’altro, le Leggi più recenti sottolineano la necessità di assicurare loro la continuità e la stabilità dell’ambiente affettivo e relazionale in cui crescono, nonché mantenere e sviluppare rapporti con entrambi i genitori e con le rispettive famiglie d’origine.<br />La mediazione avviene in un contesto strutturato, dove gli operatori, denominati appunto mediatori, in possesso di una formazione specifica, si pongono come terzo neutrale e aiutano i genitori ad elaborare in prima persona un programma di separazione soddisfacente per loro stessi e per i figli, di cui possono esercitare la comune responsabilità genitoriale. Tale percorso si articola in un periodo di tempo determinato, concordato e contenuto. Tutto ciò nella garanzia del segreto professionale, della massima riservatezza ed in autonomia dall’ambito giudiziario. La scelta operativa e metodologica di questo servizio, in allineamento con altri, è di co-mediazione: i conduttori sono, infatti, rappresentati da due figure professionali diverse tra loro, che pongono le singole competenze specifiche al servizio di un arricchimento del processo di mediazione.<br />Un gruppo di lavoro composto da più mediatori, consente di far fronte alla necessità di turn-over degli operatori, di gestire adeguatamente le situazioni di incompatibilità determinate da conoscenza personale e/o professionale tra l’operatore e la persona, nonché rispondere alla necessità di integrare le varie figure professionali, in un clima di scambio costruttivo, di riflessione e di elaborazione.<br />Al servizio di mediazione si possono rivolgere coppie in procinto di separazione, genitori già separati, ma ancora alla ricerca di un accordo. L’intesa raggiunta attraverso il lavoro di mediazione riguarda la sostanza delle decisioni: la definizione e l’integrazione giuridica è demandata agli operatori del diritto, autonomamente attivati dai genitori stessi, con i quali si cerca di stabilire, ove necessario, momenti di integrazione e collaborazione.<br />L’accesso al servizio può essere spontaneo, su proposta di altri operatori dei Servizi territoriali, su invio di avvocati, magistrati.<br />Le risposte devono essere tempestive e non dovrebbero verificarsi lunghe attese.<br />Nell’esperienza del CISSACA, nell’ambito di un rapporto di stretta collaborazione con la Sezione famiglia del Tribunale Civile di Alessandria sulle tematiche delle separazioni, si registra da tempo un invio, non coatto, di coppie in mediazione.<br />Il lavoro con i magistrati della separazione è contrassegnato da un rapporto di collaborazione e di autonomia. Il giudice, durante la procedura, con iniziativa propria o su sollecitazione di una delle parti, illustra e propone l’attività di mediazione e se entrambi i genitori sono d’accordo, ne prende atto e dispone un congruo rinvio dell’udienza successiva per dar loro modo di intraprendere, senza sovrapposizioni e interferenze giudiziarie, la mediazione. L’esito del percorso viene riferito al magistrato dai genitori stessi (tramite i propri legali) attraverso la presentazione dell’elenco degli accordi raggiunti, sottoscritti da entrambi e dai mediatori. Qualora il Tribunale invii al servizio l’ordinanza nella quale è prevista la mediazione, anche lo stesso servizio - oltre ai genitori - invia al Giudice copia dell’elenco degli accordi raggiunti e sottoscritti e dai mediatori e dagli interessati, dopo avere informato questi ultimi. Inoltre i mediatori si impegnano a non presenziare mai ad udienze testimoniali in cui sono coinvolti genitori che hanno seguito il percorso di mediazione.<br />Con i giudici della separazione è risultato importante avere incontri regolari su temi generali inerenti all’impegno comune, per confrontare punti di vista, verificare la collaborazione, calibrando alcuni aspetti quali le modalità più opportune dei tempi e dei modi dell’invio.<br />Anche con gli avvocati, dopo un primo momento di incontro con l’Ordine professionale per la presentazione del servizio, si tengono rapporti di collaborazione e trasparenza di intenti, ma la mediazione in sé, ossia i suoi contenuti e le caratteristiche del suo svolgimento, sono protetti dal segreto professionale e dalla tutela rigorosa della neutralità del mediatore.<br />Questa linea vale anche nei confronti di eventuali Consulenti tecnici d’ufficio del giudice e/o Consulenti di parte, eventualmente presenti nella procedura giudiziaria.<br />Il Servizio spazio neutro d’incontro ha come finalità quella di costruire un ambito mirato a facilitare il riavvicinamento relazionale ed emotivo tra genitori o adulti di riferimento e figli che hanno subito, o hanno in corso, un’interruzione di rapporto, determinata da dinamiche gravemente conflittuali interne al nucleo familiare. Si tratta pertanto di uno spazio esterno, un luogo terzo, un territorio che non appartiene a nessuno dei contendenti, dove gli incontri possono avvenire senza particolari traumi per il bambino, se non il disagio (in questo caso considerato il “male” minore) di incontrare i genitori in un luogo protetto sì, ma inconsueto, e fuori dal contesto familiare. Si tratta pertanto di un ambito dove la presenza di operatori, adeguatamente formati, assume la funzione di sostegno emotivo al bambino e facilita il concretizzarsi delle condizioni per un incontro positivo, privilegiando -a seconda delle situazioni- l’aspetto della tutela, dell’osservazione, del supporto.<br />La gamma di interventi da attuare al riguardo è estremamente ampia ed è così esemplificabile:<br />- supporto al mantenimento e alla ricostruzione della relazione con il genitore non affidatario, in situazioni di separazione conflittuale;<br />- ricostruzione della relazione con uno o entrambi i genitori a seguito di allontanamenti prescritti dalla magistratura, con conseguente interruzione di rapporto;<br />- mantenimento della relazione con uno o entrambi i genitori, in situazioni di rischio per i minori;<br />- costruzione della relazione con un genitore mai conosciuto per un riconoscimento tardivo, o per altre vicende familiari particolarmente complesse;<br />- riconsegna del bambino al genitore affidatario dopo lunghi periodi di lontananza a seguito di sottrazione di minore e/o “rapimenti”;<br />- riconsegna dei minori ai genitori naturali a seguito di ricorsi alla dichiarazione di adottabilità per minori collocati in affido pre - adottivo dal Tribunale per i minorenni, in presenza di sentenze non definitive.<br />Il contesto degli interventi ha sempre una connotazione coatta: l’invio da parte della magistratura lo delinea e definisce eventuali limiti alla potestà genitoriale (nel caso di invii da parte del Tribunale per i minorenni, in relazione agli articoli 330 e segg. del Codice Civile). Nel caso di procedure civili di divorzio e separazione (Tribunale civile) o di separazione in famiglie di fatto (Tribunale minorenni) indica la regolamentazione dei rapporti con il genitore non affidatario.<br />L’obiettivo è comunque quello del riconoscimento del bisogno del bambino di veder salvaguardata, per quanto e fin quando possibile, la relazione affettiva ed educativa con entrambi i genitori, al di là delle vicende che potrebbero impedirne la continuità, come condizione che maggiormente garantisce una prospettiva di crescita sana ed equilibrata, nonché l’acquisizione di un’identità adeguata.<br />Si tratta di un intervento complesso che non può prescindere dall’utilizzo di tecniche di mediazione nelle relazioni fra i vari sistemi coinvolti quali la Magistratura ordinaria e Minorile, operatori psico-sociali, educativi, ma ancor prima il minore, la sua famiglia, la famiglia allargata, affidataria ecc.<br />In questa intervento è stata illustrata la creazione di un Servizio per la Famiglia, in grado di offrire aiuto e sostegno in quelle situazioni in cui il legame tra coniugi e tra le generazioni</span><span style="font-size:100%;">3 viene fortemente attaccato, con il rischio di gravi ripercussioni psicologiche a partire dai più giovani per arrivare ai più anziani. Non molti mesi fa, si è assistito sui media ad un’ondata di stupore un po’ ingenuo di fronte al dato di un’elevata percentuale di disagio psichiatrico presente all’interno di questa società.<br />In quegli stessi articoli e réportages, è rimasta solo sullo sfondo la riflessione riguardante l’importanza del contesto di vita quotidiana delle persone rispetto al loro benessere o malessere psichico.<br />Abbiamo spesso rilevato come fasi critiche della vita coniugale e familiare, che possono poi esitare nella separazione e nel divorzio, rischiano di essere i detonatori di disagi psichici individuali, recuperabili solo successivamente in tempi molto lunghi e con costi emotivi ed economici non indifferenti.<br />L’attacco al legame, infatti, è un attacco a radici profonde costitutive l’identità della persona; è una rottura delle relazioni</span><span style="font-size:100%;">4 tra ‘chi è generato’ e ‘chi ha generato’, soprattutto sulle coordinate di onnipotenza/impotenza</span><span style="font-size:100%;">5; è una frattura con una parte della propria stirpe. Un Servizio per la Famiglia oggi in un Ente Pubblico è pertanto una doverosa risposta a questo diffuso disagio psicologico e sociale.<br />Il percorso che ci ha guidato si è rivelato quanto mai interessante ed intrigante, dove accanto all’acquisizione di una rigorosa impostazione metodologica – ad esempio, la scansione molto precisa delle tappe del percorso di mediazione</span><span style="font-size:100%;">6 -, è stato importante l’apprendimento della lettura delle interazioni tra i diversi sistemi che, a vario titolo, sono chiamati ad intrattenere su queste situazioni di conflittualità. L’arte di coniugare gli affetti e le emozioni con la ‘legge’ è molto difficile da esercitare, pure se, come ha affermato il dottor Pappalardo è importante “assumersi il rischio di fare”, avendo come riferimento portante le norme e le regole che, attraverso i Codici, garantiscono la tutela di tutti i cittadini.<br />I contributi teorici incontrati in questo cammino, contributi poi utilizzati a sostegno della prassi quotidiana, si sono rivelati estremamente stimolanti, aprendo nuove prospettive e nuovi percorsi di intervento. Le scriventi, da diversi anni, hanno prestato particolare attenzione per i temi della ‘memoria’ e delle ‘radici’ come elementi importanti della vita dei bambini e degli adulti.<br />L’incontro con le teorizzazioni di V. Cigoli e dell’approccio simbolico – relazionale ha contribuito a rinnovare in loro sentimenti di sorpresa e meraviglia ogni volta che si avvicinano, con prudenza, al ‘famigliare’.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial; font-weight: bold;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p><span style="font-size:100%;"></span><ol style="font-family: arial;"> <li><span style="font-size:100%;">Cigoli V., Pappalardo L. “Per un uso clinico della consulenza tecnica d’ufficio” in Cigoli V. (1997) Intrecci Familiari Milano: Raffaello Cortina Editore pg. 147</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Questo termine è stato coniato alla fine degli anni’80 da Cirillo per indicare tutte quelle situazioni in cui la richiesta di valutazione, di presa in carico o di trattamento non era assolutamente spontanea, ma imposta da obblighi di carattere giuridico. Fino ad allora, tali situazioni erano ritenute ‘casi impossibile’ e raramente venivano accettate in sedi di tipo terapeutico. Cirillo S., Di Blasio P. (1989) La famiglia maltrattante Milano: Raffaello Cortina Editore</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Per l’approfondimento di questo tema cfr. Scabini E., Cigoli V. “Il famigliare. Legami simboli tradizioni” (2000) Milano: Raffaello Cortina Editore</span></li> <li><span style="font-size:100%;">E’ stata molto interessante la distinzione tra ‘rapporto’, ‘relazione’ e ‘legame’ illustrata dal dottor Luca Pappalardo nel seminario del 6 maggio 2000 presso il Centro studi Eteropoiesi</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Tema nuovamente trattatato dal dottor Luca Pappalardo nel seminario del 6 maggio 2000 presso il Centro studi Eteropoiesi</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Il secondo anno del corso è stato centrato prevalentemente su questo aspetto. </span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-18671859819584147292007-04-06T22:16:00.001+01:002008-12-09T00:02:30.910+01:00IL CASO DI A. E B. UNA MEDIAZIONE NELLA MEDIAZIONE UNA MEDIAZIONE “DI GENERE”<div style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHizdGXs7tXl_uxOwpzOm7xK6dznbNZodRBDOaYN_J6izWdtyzBWKnXli63BZ8BqKQ23wVCqnWM35mY7nLzUjn-8aSvInOh12q5kAfNBbiZ6upEqWMMN99suRWEZxNzgDqstV4RaSywMo/s1600-h/17.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHizdGXs7tXl_uxOwpzOm7xK6dznbNZodRBDOaYN_J6izWdtyzBWKnXli63BZ8BqKQ23wVCqnWM35mY7nLzUjn-8aSvInOh12q5kAfNBbiZ6upEqWMMN99suRWEZxNzgDqstV4RaSywMo/s320/17.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050717600576105122" border="0" /></a><span style="font-weight: bold;">Alessandra Risso</span></span></div><p style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;">Socio Ordinario A.I.M.S., Genova <a href="mailto:alessandra.risso@tin.it">alessandra.risso@tin.it</a></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Vorrei utilizzare questo spazio gentilmente assegnatomi per delineare alcune tappe di un percorso di mediazione familiare avviatosi nel 1999 i cui attori erano la sottoscritta, ancora allieva in formazione, una mediatrice familiare ed una coppia di genitori algerini di religione musulmana, sposatisi nel 1989 in Algeria, migrati in Italia nel 1991, separati ufficialmente dal 1997 su iniziativa della moglie, supportata dalla rete sociale locale, a seguito dei continui maltrattamenti e violenze subiti dal marito.<br />Vorrei inoltre brevemente soffermarmi sulla scelta di presentare un’esperienza iniziata ormai 2 anni e mezzo e conclusasi nel giro di 5 incontri. Se da un lato il riferirsi ad un passato non remoto ma prossimo può limitare il ricordo del dettaglio e l’immediatezza delle emozioni provate durante il processo, dall’altro ha rappresentato un’importante occasione per far sedimentare alcune istanze emotive che indubbiamente hanno animato l’esperienza, permettendo di ripercorrere con distanza ma chiarezza i nodi conflittuali attraverso una ricostruzione del percorso a posteriori. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">L’esperienza di qui vi parlerò si è rivelata fortemente complessa ed impegnativa, tanto da configurarsi fin dall’inizio come una “mediazione nella mediazione”. Nel corso di tutte le fasi del processo è stato infatti necessario ricorrere costantemente alla decodifica e comprensione di linguaggi, comportamenti, valori, significati fortemente differenziati tra loro, dedicando ampio spazio alla definizione, ridefinizione e negoziazione di regole e contesto tra tutti i soggetti coinvolti nel sistema mediazioni, quindi tra le due mediatrici, tra queste e la coppia, tra i due ex coniugi stessi.<br />Per tale ragione riterrei opportuno raccontare l’esperienza attraverso alcuni elementi metodologici di contesto e di processo, strettamente correlati tra loro, rivelatisi potenziali fattori di rischio ma anche fattori propulsivi al cambiamento ed alla ricerca a soluzioni nuove o rinnovate.<br />Tra i dati di contesto si sono rivelati di particolare interesse:</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"> <p> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><ol style="font-family: arial;"> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">La presenza di due mediatrici, l’una con funzione di osservatrice partecipante e garante del processo, l’altra come referente per la coppia, maggiormente incentrata sui contenuti, accanto alla figura dell’ex moglie, che ha delineato un sistema relazionale a prevalenza femminile, sperimentando un modello di mediazione di “genere”</span> </div> </li> <li> <div align="justify"> <span style="font-size:100%;">Il peso ed i significato attribuiti alla mediazione dagli immigrati di cultura islamica: per chi migra il processo di mediazione viene già attivato al momento della decisione di lasciare il proprio paese di origine, e continua con l’arrivo in Italia. Nel caso dell’Islam, occorre evidenziare come la disponibilità al confronto con la cultura ospitante sia spesso delegata a figure di leaders riconosciuti dalla comunità di appartenenza, ma anche alle figure femminili che, avendo maggior facilità di entrare nei tradizionali circuiti di socializzazione, assumono sia il compito di tutela e controllo dell’identità islamica nella sfera educativa, sociale, morale, che quello di comunicazione e mediazione con l’alterità, attraverso il rispetto dei divieti e la difesa delle regole (interessante a tale proposito risulta la funzione attribuita al velo)<br /></span> </div> </li> <li><span style="font-size:100%;">La storia dei due ex coniugi è la storia di un conflitto antico, radicato nelle singole storie individuali e generazionali, ancora prima che di coppia (per lei, le ricorrenti violenze subite come figlia, come moglie, come nuora, la costrizione nella scelta tra lavoro e matrimonio, per lui il tradimento delle aspettative della famiglia di origine nella scelta di un matrimonio non condiviso, la rinuncia alla propria patria e la condizione di rifugiato politico)</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Ma è anche la storia della difficoltà o addirittura dell’impossibilità a riconoscere e ad agire il conflitto, perché fortemente legato alla scelta tra tradizione e modernità, tra controllo e libertà, due dimensioni spesso per loro non accostabili ed inconciliabili. E’ quindi la storia della difficoltà od impossibilità a mediare il conflitto tra due stili di vita profondamente diversi, quello moderno dell’Occidente, quello antico della cultura islamica tradizionale, dove spesso il solo desiderarne uno implica il rifiuto a priori dell’altro, e qualora una posizione venga assunta, è comunque motivo di emarginazione dal sistema da cui ci si vuol differenziare.Tutto questo perché differenziarsi è spesso associato a tradire, ed è quindi inaccettabile; l’alternativa è quindi quella della presa di distanza e del distacco, spesso anche geografico, attraverso la migrazione.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Numerosi sono i dati di processo strettamente connessi con il contesto:<br /><br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><ol style="font-family: arial;"> <li><span style="font-size:100%;">Dopo essere inizialmente entrati in contatto con il sistema locale di tutela del minore (alludo all’Autorità Giudiziaria che si è fatta carico di tutelare i diritti delle figlie minori al momento della separazione dei genitori), i due ex coniugi hanno attivato il processo di mediazione su suggerimento degli operatori del servizio territoriale con cui erano in contatto. Ciò ha evidenziato la necessità di distinguere il contesto dell’aiuto istituzionale (il servizio pubblico), dal controllo (l’Autorità Giudiziaria), dall’”autoaiuto” (se così lo posso impropriamente definire) della mediazione, inteso come creazione di una condizione di maggior benessere. Di fondamentale importanza si è rivelato sia il rapporto di fiducia instauratosi tra la coppia e gli invianti sia la centratura della mediazione sul tema dell’assunzione delle decisioni per le figlie, il solo riconoscibile come bisogno e condivisibile da entrambi<br /></span></li> <li><span style="font-size:100%;">La stretta connessione, soprattutto nella fase di raccolta dei dati e di individuazione dei nodi conflittuali, tra la dimensione emotiva, morale, della memoria a livello individuale e collettivo, ponendo particolare attenzione alla dialettica costante tra amore e potere sia in termini temporali (rapporto tra passato e presente) che spaziali (continuità e rottura tra realtà di provenienza e di arrivo)<br /></span></li> <li><span style="font-size:100%;">L’articolazione delle fasi all’interno del processo non è stata rigidamente osservata: largo spazio è stato dato, come ho detto in precedenza, alla definizione e ridefinizione dei ruoli dei soggetti coinvolti, del contesto e degli obiettivi a della mediazione, permettendo così di costruire un contesto di fiducia, accogliente e neutrale, dove poter attivare un lavoro sui conflitti.<br /></span></li> <li><span style="font-size:100%;">Durante tutto il percorso particolare attenzione è stata posta dalla coppia ai sistemi valoriali ed emotivi coinvolti nella storia della loro separazione. Descritta attraverso i contrasti tra amore e potere, illusione e delusione, fiducia e tradimento, la loro storia è stata ripercorsa attraverso sentimenti ancora coesistenti fra loro in eguale intensità, forse troppo vivi per essere esaminati con lucidità, esprimendo poi un forte senso di sospensione, discontinuità, perdita, solitudine, delegittimazione che non sempre è possibile affrontare con quello che Cigoli definisce “spazio- tempo di passaggio” che è la mediazione.<br /></span></li> <li><span style="font-size:100%;">Il processo di mediazione si è interrotto al momento dell’esplorazione delle opzioni alternative. Il forte legame con i sentimenti del passato, la prevalenza di alcune istanze emotive su altre, il significato della migrazione come perdita di identità per l’uno, acquisizione o scoperta di un’identità nuova per l’altra, sono risultati condizionare ancora fortemente il presente dei due ex coniugi, ognuno in modo diverso, impedendo loro di porsi in una logica futura di condivisione di una dimensione “nuova” della coppia, quella della “sola” genitorialità.<br /></span></li> <li><span style="font-size:100%;">Nonostante l’interruzione, il percorso di mediazione ha comunque innescato un processo di cambiamento per la coppia, che ha portato nel tempo all’assunzione di responsabilità e di decisioni sia sul versante personale (inserimento sociale attraverso il lavoro per lui, perfezionamento della pratica di separazione con l’acquisizione della necessaria documentazione per lei) che familiare (maggior chiarezza nell’organizzazione del tempo dedicato alle figlie).</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">A conclusione di questa analisi, riterrei opportuno ribadire la completezza del modello di mediazione familiare di tipo sistemico-relazionale che, applicabile alla mediazione di conflitti presenti in contesti differenziati, risulta particolarmente adeguato a fronteggiare processi complessi e multidimensionali quali la mediazione familiare interculturale.<br />A tale proposito è emersa la necessità di superare, nel processo di mediazione interculturale, il concetto di mediazione specialistica od esperta, dotandosi di strumenti di processo, di comunicazione e relazione, oltre che di competenze e strategie. Essi infatti dovrebbero risultare pienamente calati nel sistema di provenienza dei protagonisti del processo di mediazione, tali da considerare le diverse dimensioni, i diversi modelli culturali e le diverse culture della mediazione che, in alcune realtà, rappresentano delle vere e proprie strategie di sopravvivenza individuale e familiare. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-83242789445814679732007-04-06T22:16:00.003+01:002008-12-09T00:02:30.678+01:00LA MEDIAZIONE FAMILIARE CON LE FAMIGLIE DI ORIGINE<div style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7W4s2WQ5rV0eMrYy1MbDBIgHD7ojXSFeRvF6EZk0F_19Xj3mNUucNJt3KyI2Uxy7nio8yAt6QKWcT1XSFpxXAnrnRxJvKSFNy0hBu6q_UrxzKMNZ-EAJ5X_YcZSaPcgWhKKIuFPHjkFM/s1600-h/18.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7W4s2WQ5rV0eMrYy1MbDBIgHD7ojXSFeRvF6EZk0F_19Xj3mNUucNJt3KyI2Uxy7nio8yAt6QKWcT1XSFpxXAnrnRxJvKSFNy0hBu6q_UrxzKMNZ-EAJ5X_YcZSaPcgWhKKIuFPHjkFM/s320/18.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050718682907863730" border="0" /></a><span style="font-weight: bold;">Maria Rosaria Menafro</span></span> </div><p style="text-align: left; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;">Didatta A.I.M.S. Istituto di Terapia Familiare di Napoli <a href="mailto:itfnap@tin.it">itfnap@tin.it</a></span></p><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><a href="mailto:itfnap@tin.it"><br /></a></span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Gestire Servizi di Mediazione Familiare pubblici, ossia Servizi Territoriali, ci ha consentito di contattare un numero sufficientemente significativo di famiglie tale da poter sperimentare con ciascuna tipologia familiare il nostro modello di mediazione per risolvere le problematiche emergenti. Abbiamo infatti utilizzato la mediazione familiare in situazioni di adozioni difficili, di affido familiare, di gestione dell’anziano o del paziente portatore di handicap, nonché nei conflitti intergenerazionali.<br />Pur perseguendo sempre gli stessi obiettivi, che possiamo sintetizzare con la seguente definizione:<br /><b>“utilizzare il conflitto per favorire l’evoluzione degli individui sostenendo la crescita differenziata di ciascun membro della famiglia nel rispetto delle sue esigenze e della sua personale fase di sviluppo”, </b><br />la mediazione familiare, se applicata a problematiche diverse dalla separazione e dal divorzio, presenta delle differenze metodologiche che interessano<br />- la struttura del setting,<br />- la motivazione dei partecipanti,<br />- il programma complessivo dell’intero processo di mediazione.<br />Non intendiamo approfondire in questa sede le differenze e le caratteristiche specifiche di ogni intervento in relazione al tipo di famiglia a cui è rivolto, ma ritenevamo comunque opportuno restituire all’uditorio un dato rilevante sulle possibili applicazioni dell’intervento<b> “mediazione familiare”:</b> dalle statistiche in nostro possesso, possiamo affermare che tale metodologia può avere successo nei casi suddetti, (adozioni, affido, ecc.) solo a condizione che sia stata preventivamente creata una corretta integrazione tra gli operatori coinvolti nei casi seguiti in mediazione. </span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>a) La Mediazione nella separazione coniugale: tipologie di conflitti.</b><br />Vorrei dunque portare la vostra attenzione sugli interventi di mediazione rivolti esclusivamente alle famiglie in via di separazione o già separate/ divorziate.<br />In questa area particolare, dalle osservazioni da noi condotte, abbiamo individuato quattro dinamiche specifiche di conflitto, che abbiamo così denominato:<br /><b>A</b> conflitto evolutivo<br /><b>B</b> conflitto da triangolazione<br /><b>C</b> conflitto da negazione<br /><b>D</b> conflitto da invischiamento.<br />E’ importante sottolineare che l’intervento di mediazione può essere caratterizzato da alcuni aspetti tecnici specifici in relazione al tipo di conflitto presente nella famiglia.<br />Nella prima tipologia, <b>conflitto evolutivo</b>, rientrano quelle famiglie in cui il <b>conflitto è espresso principalmente da uno dei due ex coniugi</b>, che viene osteggiato dall’altro ogni qual volta cerchi di assumere responsabilmente il proprio ruolo genitoriale. In questi casi infatti il timore dei genitori è principalmente quello di essere spodestati, esclusi dalla vita dei figli, e tale vissuto appartiene più frequentemente al genitore non affidatario. L’altro, invece, incoraggiato dalla conferma sociale proveniente da un organo ufficiale, il Tribunale appunto, tende ad amplificare la propria onnipotenza e a ritenersi unico destinatario di verità pedagogiche indiscutibili. Naturalmente tale posizione relazionale può variare in base alla fase del ciclo vitale in cui si trova la famiglia al momento della separazione: più i figli sono piccoli, maggiore sarà la contrapposizione tra i genitori in riferimento alla propria competenza.<br />Abbiamo definito questa tipologia evolutiva in quanto è stato possibile osservare in queste famiglie una buona capacità di differenziarsi e di conseguenza di appartenersi, le coppie sono formate da individui che al momento della separazione vedono minacciata l’unica appartenenza che in quel momento riconoscono, quella con i propri figli e che, nel tentativo di garantirne la continuità manifestano comportamenti ambivalenti di inclusione/esclusione dalla vita familiare: tale configurazione si rivela transitoria e favorisce nei figli lo sviluppo graduale di una doppia appartenenza ai due nuovi sistemi, quello del padre e quello della madre, ancora in embrione, che si andranno poi a costituire con maggiore definizione successivamente.<br />Appartengono alla seconda tipologia, <b>conflitto da triangolazione</b>, quelle famiglie in cui <b>ad esprimere il conflitto è uno dei figli,</b> magari attraverso il rifiuto di rispettare il diritto di visita del genitore non affidatario, o viceversa, lamentando l’eccessiva severità dell’altro. Il dato clinico è facilmente rilevabile in quanto i figli, essendo apertamente schierati, manifestano il loro dissenso in maniera chiara ed inequivocabile con frasi agghiaccianti del tipo “non ti voglio vedere mai più e comunque con te non ci parlo” rivolte all’uno o all’altro genitore, oppure richiedono continuamente di telefonare, durante la permanenza con uno dei due, all’altro genitore, per rivolgergli qualsiasi richiesta, anche di banalissima e futile entità. Naturalmente, a conferma di un innesco relazionale sufficientemente disfunzionale, alle richieste del figlio il genitore che viene contattato risponde in maniera diametralmente opposta a quanto detto dall’altro, con un interessantissimo effetto ping-pong!!<br />In questi casi la contrapposizione tra i due ex-coniugi viene rappresentata da uno dei figli che inconsapevolmente “agisce” l’aggressività dei suoi genitori. Generalmente tale configurazione è il risultato di una triangolazione precoce in cui i figli sono stati intrappolati nel conflitto genitoriale ancor prima della separazione e pertanto, quando questa ha luogo, il movimento di alleanza si accentua producendo ansia e angoscia nei figli, che vedono concretizzarsi la spaccatura solo virtualmente rappresentata quando la famiglia era ancora unita.<br />Da questa tipologia escludiamo naturalmente i casi in cui il rifiuto dei figli di recarsi da uno dei genitori sia la risposta ad una reale inadempienza da parte di questi, quando la relazione con i figli è gestita in maniera eccessivamente frustrante, come nei casi in cui i genitori promettono tanto e producono concretamente poco, o vanificano sistematicamente le aspettative dei loro bambini. In questi casi sono proprio i comportamenti dei figli a rivelarsi ottimi indicatori di patologie personali o di gravi ed incolmabili distanze affettive che richiedono una specifica ed approfondita valutazione psicodiagnostica.<br /><b>Il conflitto da negazione</b>, terza tipologia, si verifica quando l’evento separativo è stato particolarmente traumatico perché improvviso e apparentemente inaspettato, ed attribuito essenzialmente all’arrivo di un nuovo partner, e dunque, ad un tradimento affettivo di uno dei coniugi.<b> Il conflitto viene espresso da uno dei due genitori</b> con possibili alleanze che interessano la famiglia nucleare, i figli ad esempio, una o entrambe le famiglie di origine, il parentado esteso, la rete amicale, con significativi sviluppi a lungo termine del movimento adattativo dei membri alla separazione. Abbiamo infatti definito questa configurazione “negazione” in quanto per anni può perpetuarsi un rifiuto categorico dell’evento separativo con attribuzione indebita della totale responsabilità al nuovo partner, che, automaticamente, diviene capro espiatorio di circostanze che lo hanno solo tangenzialmente investito. In tal modo però il “genitore tradito” può sottrarsi sistematicamente alla personale responsabilità che ha poi contribuito, nella dinamica relazionale della coppia, alla “fuga” silenziosa dell’altro. Le conseguenze più vistose riguardano gli effetti che tale dinamica comporta nella gestione dei figli che rifiutano di incontrare il nuovo partner perché questo potrebbe significare per l’altro genitore un ulteriore tradimento! E ancora, è ostacolata qualsiasi forma di elaborazione del lutto separativo, con grandi resistenze al cambiamento incluso il tentativo operato dall’intervento di mediazione. Questo viene richiesto, solitamente, dal coniuge che ha “tradito” ed accettato dall’altro solo in funzione della possibilità di incontrare l’ex e tentare un estremo ultimo slancio per recuperare la relazione affettiva perduta, con manovre seduttive o provocatorie. In questi casi la mediazione deve essere a maggior ragione preceduta da più incontri di consulenza per dissipare ogni barlume di fantasia riparatoria del precedente rapporto e chiarire le finalità dell’intervento. </span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>b) Il caso. </b><br />Per descrivere la quarta tipologia, <b>conflitto da invischiamento,</b> abbiamo preferito citare un caso seguito presso uno dei nostri Servizi pubblici di Mediazione. Si tratta di quelle famiglie in cui <b>il conflitto è manifestato dai nonni per la mancanza di una chiara delimitazione dei confini</b> con le rispettive famiglie di origine dei due ex coniugi.<br />Maria e Franco, così chiameremo la coppia in questione, sono i giovanissimi genitori di Anna e Luca, rispettivamente di 4 e 7 anni. Giungono in mediazione su indicazione del Tribunale per i minori in quanto erano ormai trascorsi due anni da quando, dopo la separazione, lo stesso Tribunale aveva affidato i due bambini ai nonni paterni. Tale decisione all’epoca, era scaturita da un evento doloroso: il ricovero coatto della madre dei bambini per uno stato alterato di coscienza. La donna aveva infatti manifestato idee suicidarie e ripetute crisi depressive: la sua fuga dalla casa dei genitori, con i quali viveva insieme ai due bambini non poté che allarmare tutti i familiari... Il suo ricovero durò circa un mese, ma dopo la dimissione Maria recuperava con grosse difficoltà il suo equilibrio psicologico, e furono necessarie cure idonee ed un altro ricovero perché la crisi rientrasse del tutto.<br />Avendo ormai ritrovato una condizione di relativo benessere, Maria inoltrò al Tribunale la richiesta di avere in affidamento i suoi bambini che, negli ultimi due anni, aveva incontrato con continuità ma per poche ore solo la domenica. Il Tribunale a tale richiesta rispose con una convocazione congiunta di Maria e Franco. Durante il colloquio emersero atteggiamenti di ambivalenza da parte di entrambi al punto che il Giudice dubitò della loro determinazione a restare separati e, per valutare correttamente le loro intenzioni li inviò al nostro Servizio.</span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>c) Inizio dell’intervento di Mediazione: 1° fase.</b><br />La prima fase del nostro intervento si rivelò presto molto conflittuale proprio per l’ambiguità dell’uno nei confronti dell’altra, e, dall’analisi attenta degli scambi tra Maria e Franco apparve chiaro che l’indecisione era solo un pretesto per tornare nuovamente a parlarsi e lasciarsi alle spalle le rispettive famiglie di origine.<br />Questo intento però, paradossalmente li riportava sempre più vicini ai propri nuclei familiari, e dunque, ricongiungersi o separarsi non era solo un logorante dilemma ma un vero e proprio circuito relazionale a doppio legame. Ecco come esempio uno spaccato di una delle interazioni più ricorrenti:<br />- “Capisco bene perché non vuoi far pace, per non darla vinta a me ma ai tuoi genitori. Come glielo racconti che stiamo di nuovo insieme? Magari proprio a tuo padre che mi ha sempre odiato e crede che sia io la causa delle tue crisi!?!” Urlava Franco con rabbia e sdegno.<br />- “Senti un po’ chi parla! Proprio tu che per non lasciare mammina tua hai rifiutato un lavoro di prestigio che avrebbe risolto tutti i nostri problemi!”, tuonava inferocita Maria.<br />Quale poteva essere allora la via di uscita per entrambi? Quale risposta competeva al mediatore in una simile conflittualità? In fondo, di cosa discutevano Maria e Franco?<br />Erano paralizzati nelle loro decisioni perché qualunque fosse stata la scelta dell’uno, all’altra appariva come l’effetto della manipolazione della sua famiglia d’origine. Svelare questa complessa dinamica permise ad entrambi di vedere lucidamente in quale assurdo meccanismo erano intrappolati, e quasi improvvisamente sembrarono risollevati da quell’incarico fin troppo oneroso: continuare a farsi la guerra perché vincessero non loro, certamente, ma.. “i nonni”! Per Maria e Franco capire chi c’era veramente dietro le quinte fu molto spiacevole ma altrettanto produttivo: decisero di comune accordo di separarsi, certi che questa scelta li avrebbe ben presto tirati fuori dai guai…purtroppo i problemi seri erano invece appena cominciati.</span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>d) Ridefinizione della richiesta: 2° fase della Mediazione.</b><br />Se la conflittualità era elevata nella prima fase, nella seconda divenne a dir poco esplosiva! <b>I bambini</b>…..: a chi andavano affidati? Questa volta, nell’illusione di esser loro gli unici protagonisti, Franco e Maria scesero in campo ancora più agguerriti, e consideravano legittima ed autentica qualsiasi personale affermazione.<br />- “Non penserai che io sia qui per far valere i diritti dei miei genitori,” sosteneva con fermezza Franco,<br />- “ma certamente non puoi negare che se li sono cresciuti finora con tanta devozione, e non sarebbe giusto, proprio adesso che si sono abituati, sottrarre loro i dolci nipotini!”<br />- “Nient’affatto” ribatteva Maria,” proprio perché se li sono goduti finora, i figli miei, miei, chiaro!?! miei, è giusto che tornino con me!”<br />Questa volta non fu più sufficiente ridefinire, chiarificare, esplicitare i vari livelli della comunicazione per sedare il conflitto, che ormai si estendeva fino ad includere in maniera determinante anche i nonni, e, pertanto, il mediatore decise di convocare le rispettive famiglie di origine separatamente. </span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>e) Le famiglie di origine in Mediazione</b><br />Quanto fossero coinvolte nella gestione dei bambini era molto evidente, ma ancor più vistosa era l’arroganza con la quale sia i genitori di Franco che di Maria ritenevano di essere maggiormente capaci di loro nell’educare i nipotini, riuscendo a svilire con grande destrezza il loro operato.<br />Posta in questi termini l’onnipresenza delle famiglie di origine appariva quasi come una necessità determinata dall’incapacità dei due giovani di “fare i genitori”, ostacolati nel disperato tentativo di crescere e… di far crescere i propri figli. Mentre il mediatore rendeva gradualmente visibili questi intrecci relazionali, i nonni indietreggiavano progressivamente, per dissipare anche il minimo sospetto che i rispettivi figli fossero inadeguati, poco efficienti, o addirittura immaturi!<br />E’ interessante notare che in loro presenza, sia Franco che Maria tendevano a nascondersi dietro “l’autorità” del mediatore per far capire ai propri genitori che in fondo volevano sentirsi liberi di decidere.<br />Si era venuta a creare una dinamica speculare molto interessante: così come le famiglie di origine volevano ancora governare la loro vita, anche Maria e Franco volevano decidere sul futuro dei propri figli! Questa realtà li rese consapevoli dell’eredità emotiva che ciascuno portava come un fardello ingombrante nei nuovi rapporti con i propri figli, e che solo sganciandosi una volta e per tutte dalle aspettative dei “nonni” potevano scegliere in piena autonomia. Quando si ritrovarono di nuovo soli con il mediatore capirono che l’unica vera autorità era quella che ciascuno, personalmente ed individualmente, poteva acquisire sostenuto da un’assunzione responsabile del proprio ruolo genitoriale, e dunque, che non dovevano più nascondersi dietro qualsiasi adulto, mediatore incluso, per ottenere il riconoscimento della <b>propria competenza.</b><br />“Promossi genitori” sul campo, dopo lunghe e talvolta estenuanti discussioni, giunsero alla conclusione che un affidamento congiunto li avrebbe tranquillizzati maggiormente: sentirsi sullo stesso livello in termini di responsabilità contribuiva a creare il giusto confine anche con la famiglia estesa, e nei confronti dei bambini potevano recuperare quell’immagine sana di coppia matura e quindi unita per una giusta causa.<br />La frase conclusiva di Maria fu molto eloquente:<br />“Chiunque di noi due avesse portato a casa sua i bambini li avrebbe sottratti all’altro per consegnarli ai nonni, e quindi li avrebbe comunque persi.<br />Così saranno solo nostri e poco importa in quale casa si trovino: su di loro veglieremo insieme!”</span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Conclusioni</b><br />Abbiamo sostenuto nella prima parte che ad ogni tipologia di conflitto corrispondeva una specifica modalità di intervento della Mediazione. Nel caso illustrato, l’unico che ha approfondito l’aspetto tecnico è fondante l’esplorazione compiuta dal mediatore, durante i colloqui, delle dinamiche relazionali che sostenevano il conflitto.<br />Nella letteratura esistente sulla Mediazione si sottolinea l’importanza della “definizione del problema” come punto di partenza, di avvio del processo mediatorio.<br />Riteniamo però sia opportuna una concettualizzazione differenziata tra <b>“definizione del problema”</b> e <b>“dinamica del conflitto”.</b><br />I contenuti che solitamente vengono ritenuti dalla coppia gli elementi significativi del “problema” che scatena il conflitto, potremmo paragonarli ai sintomi che in ambito psicoterapeutico descrive il paziente imputandoli come unici ostacoli al proprio benessere: interessano la parte manifesta, esplicita delle difficoltà che la coppia nel caso della mediazione, il paziente nel contesto terapeutico, rilevano nella loro esperienza e poiché questi contenuti sono per loro familiari è più facile che il mediatore o il terapeuta vi acceda per creare il giusto contatto con la famiglia.<br />Portare la coppia a definire il problema è l’aspetto che tecnicamente ha la priorità su qualsiasi altra area perché permette al mediatore di stabilire alcune regole del setting. Inoltre, ammettere di avere un problema è la premessa per chiedere aiuto, ed anche se non sempre la coppia riconosce come tale lo stesso problema, non può non riconoscere di avere in comune l’esigenza di essere sostenuta in quella fase specifica.<br />Valorizzando tale esigenza come espressione di una discreta maturità, il mediatore inizia a costruire quel clima di fiducia indispensabile anche per porre le premesse della fase successiva, l’esplorazione delle dinamiche che sostengono il conflitto.<br />Nel caso illustrato se non fossero emersi gli aspetti collusivi delle famiglie di origine nella difficoltà della coppia a separarsi, intanto, dai propri genitori e poi l’uno dall’altra, l’evoluzione dell’intervento mediatorio rischiava di lasciare irrisolti i veri problemi che alimentavano la conflittualità, ed anche se la coppia avesse raggiunto una decisione comune circa l’affidamento dei bambini, tale accordo non avrebbe avuto lunga durata ma rischiava di rompersi alla prima, inevitabile incomprensione.<br />La Mediazione Familiare è realmente un processo di cambiamento solo se può garantire a lungo termine la stabilità delle relazioni, perché è questa la fonte di sicurezza per i figli, al di là dell’organizzazione di vita prospettata dai loro genitori.</span></p> <p style="font-family: arial; font-weight: bold;"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p> <ul style="font-family: arial;"> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Andolfi M., Angelo C., Saccu C. (a cura di) “La coppia in crisi”, Roma ITF, 1990;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Ardone R. Mazzoni S. “La Mediazione Familiare. Per una regolazione della conflittualità nella separazione e nel divorzio”, Milano, Giuffrè Ed., 1994;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Bateson G. “Mente e natura”, Adelphi, 1984;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Bernardini I. “Una famiglia come un’altra”, Rizzoli, 1997;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Brustia Rutto P., “Genitori”, Torino, Bollati Boringhieri Ed., 1996;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Busso P. “Una nuova figura: il mediatore” da Animazione Sociale, 6/7, 1995;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">CAM, a cura del, “L’affido familiare: un modello di intervento”, Milano, Franco Angeli Ed., 1998;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Canevelli F., Lucardi M. “La mediazione familiare - Dalla rottura del legame al riconoscimento dell’altro” - Ed. Bollati Boringhieri;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Cigoli V., Galimberti C., Mombelli M. “Il legame disperante”, Milano, Raffaello Cortina Ed., 1988;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Dell’Antonio A., Vincenzi Amato D. “L’affidamento dei minori nelle separazioni giudiziali”, Milano, Giuffrè Ed., 1992;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Donati P. “La famiglia nella società relazionale”, Franco Angeli Ed., 1991;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Ghezzi D., Vadilonga F. “La tutela del minore. Protezione dei bambini e funzione genitoriale” Raffaello Cortina Ed.,1996;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Giuliani C., Iafrate R., Marzotto C., Mombelli M. “Crisi di coppia e separazione coniugale: effetti e forme di aiuto”, Milano,Vita e Pensiero, n. 14, 1992;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Grimaldi S. (a cura di) “Adozione: teoria e pratica dell’intervento psicologico”, Franco Angeli Ed., 1996;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Guggenbuhl-Craig, Kugler, Wuehl, Stein, Hillman “Trappole seduttive”, Milano, Vivarium Ed., 1996;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Gulotta G., Santi G. “Dal conflitto al consenso”, Giuffrè Ed., Milano 1988;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Gurman A.S., Kniskern D.P. (a cura di) “Manuale di terapia della famiglia”, Torino, Bollati Boringhieri, 1995;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Gus e Zamperini “La relazione di coppia”, F. Angeli, Milano, 1995;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Haley J. “Terapie non comuni”, Astrolabio, 1985;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Haynes J., Buzzi I. “Introduzione alla Mediazione Familiare”, Giuffrè Ed., 1996;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Maggioni G., Pocar V., Ronfani P. “La separazione senza giudice”, Milano, Franco Angeli Ed., 1990;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Malagoli Togliatti M., Montinari G. “Famiglie divise”, Milano, Franco Angeli Ed., 1995;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Marzotto C. “La Mediazione Familiare in Europa: modelli di pratica e di formazione” da Politiche Sociali e Servizi, n.1/1994,</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Milano, Vita e Pensiero;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Monelli L., a cura di, “Il bambino sacrificato”, Roma, Edizioni scientifiche Magi, 1998;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Norsa D., Zavattini G. C., “Intimità e collusione”,Milano, Raffaello Cortina Ed., 1997;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Onnis L., et al. “L’approccio relazionale e servizi socio-sanitari”, Bulzoni, 1979;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Parkinson L. “Separazione, divorzio e Mediazione Familiare”, Trento, Edizioni Centro Studi Erickson, 1995;</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Scabini E. (a cura di) “L’organizzazione famiglia tra crisi e sviluppo”, Milano, Franco Angeli Ed., 1991; </span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Winne L.C., McDaniel S.H., Weber T.T. “System consultation. A new perspective for family therapy”, Guilford, New York, 1986. </span></div> </li> </ul> <p style="font-family: arial;"> </p>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-91361346788258871492007-04-06T22:17:00.001+01:002008-12-09T00:02:30.485+01:00L'INCONTRO TRA LE CULTURE - TRA CONFLITTO E MEDIAZIONE L’INTERFERENZA UTILE DEL MEDIATORE CULTURALE<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhFTvp08kWXrAQ5kWRXYWySyYjM4bY3d-OddSKzmhS7s1cMlBUwtqfaGEva32haW2z2x9ztYAZNMSlamPfYnoorJOOinj7GnjqkqvYEiuGN0-JtnpCcPZC4f7dnAt7oRTXImNRyeqP0ilU/s1600-h/19.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhFTvp08kWXrAQ5kWRXYWySyYjM4bY3d-OddSKzmhS7s1cMlBUwtqfaGEva32haW2z2x9ztYAZNMSlamPfYnoorJOOinj7GnjqkqvYEiuGN0-JtnpCcPZC4f7dnAt7oRTXImNRyeqP0ilU/s320/19.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050721959967910658" border="0" /></a><span style="font-weight: bold;font-family:arial;" >Giancarlo Francini</span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"><div style="text-align: left;"> </div><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socio Didatta A.I.M.S. Istituto di Terapia Familiare di Siena Responsabile Settore Intercultura Istituto di Terapia Familiare di Firenze <a href="mailto:itfs@itfs.it">itfs@itfs.it </a></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p><span style="font-size:100%;"><b>Le somiglianze tra le differenze</b><br /><i>L’interferenza viene definita come: fenomeno costituito dal sovrapporsi di due elementi, forze o azioni, che si possono sommare, limitare o distruggere a vicenda con particolari effetti e risultati.</i><br />Sicuramente l’incontro tra le culture è caratterizzato dalla percezione di somiglianze e differenze (<a href="http://www2.blogger.com/post-edit.g?blogID=3586955526807222377&postID=9136134678825887149#tab">tab. I</a>).<br />La <b>somiglianza</b> che noi percepiamo attiene al genere, al ruolo, all’esperienza di vita stessa oltreché all’universale a cui ognuno di noi si riferisce quando cerca di comprendere il mondo che lo circonda.<br />La <b>differenza</b> attiene per lo più al culturale, al somatico e di nuovo all’esperenziale.<br />Quando nel quotidiano della nostra percezione, le somiglianze e le differenze si sovrappongono, l’effetto che ricade su di noi e pervade la nostra sensazione conoscitiva è proprio quello dell’interferenza; essa può evolvere in paura o soltanto provocare in noi confusione.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p><span style="font-size:100%;">La <b>confusione del migrante</b> è quella dello “stare tra” due lingue, due tempi, tra il definitivo e il transitorio, tra il qui e l’altrove, tra la stima e la vergogna, tra il fallimento ed il successo, tra la maledizione e la benedizione del denaro guadagnato.<br />Il migrante vive in una condizione di precarietà come colui che sta seduto tra due sedie1: non sta né qua nel paese d’accoglienza, né là nel paese d’origine, e finisce poi per sentirsi straniero sempre e comunque. La sua condizione è quella di un’ambivalenza tra lo stare definitivamente in un luogo e sentirsi invece transitoriamente ospiti in attesa di ritornare altrove.<br />Il migrante finisce poi per essere definitivamente emigrato pur sperando di tornare in “patria”, e al contempo definitivamente straniero, intriso com’è della sua cultura, anche se il suo stare altrove non è più (e forse non lo è mai stato), transitorio.<br />Le differenze e la battaglia interiore tra questo stare definitivo ma transitorio, (e transitorio ma definitivo), lo porta a sentirsi “diviso” tra questa appartenenza ed un’altra appartenenza, tra un inserimento ricercato ed una differenza vissuta come necessaria.<br />E’ un conflitto tra coerenze, come quello tra una cultura interna ed una acquisita, ed anche il ritorno a casa spesso non serve a ricomporre o annullare il conflitto. Anzi la cultura acquisita ha inciso irrimediabilmente le sue abitudini, i suoi ritmi, i suoi mille “tic” del quotidiano e il suo confronto con la terra dov’è nato si fa complesso e pieno di ri-adattamenti necessari; anche il paesaggio è cambiato nei suoi occhi che vanno alla ricerca dei punti di riferimento che ha acquisito, come al momento dell’arrivo nel suo nuovo paese vanno alla ricerca dei punti di riferimento precedenti, riferimenti che aveva assorbito nascendo e crescendo guardandosi intorno (il mare, i monti, gli alberi, o altro).<br />Già il viaggio che lo ha portato qua ha fatto di lui una “persona diversa”, sia rispetto a ciò che era prima, sia rispetto alla sua famiglia, ai suoi amici e ai compaesani. Non c’è dubbio che il viaggio, sia esso avvenuto in gruppo, da solo o con qualche altro familiare, sia un’esperienza d’autonomia, una specie di iniziazione che segna, drasticamente, il confine tra un prima ed un dopo. Al contempo, però, segna anche la prima frustrazione poiché nessuno, di quelli che rimangono a casa, potrà mai capire il suo viaggio né la sua nuova condizione.<br />L’arrivo rappresenta spesso un’altra delusione e frustrazione, rispetto a tutto ciò che era stato fantasticato di trovare.<br />Ogni suo tentativo di “adeguarsi” corrisponde ad una delusione di non accettazione vissuta;<br />ogni tentativo di differenziarsi rischia di diventare un rinchiudersi nel ghetto.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">La <b>confusione dell’indigeno</b> si esprime per lo più in paure e disorientamento.<br />Comune è la reazione alla confusione cercando una improbabile razionalizzazione, rifugiandosi in conoscenze culturali o etniche, che altro non sono che la <b>“cosalizzazione”</b>2 dell’altro: nelle azioni umane non c’è niente di tipico e tutte le volte che diciamo che quel comportamento è tipico per una certa cultura, lo stiamo “cosalizzando”. Il tentativo di inquadrare e raggruppare incasellando i fenomeni complessi in categorie più semplici o comprensibili è pur sempre un’azione tesa a rassicurarci dalla paura dello sconosciuto. Il rischio però è quello di determinare l’altro come fenomeno o oggetto e non come persona.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Un’altra reazione è quella della <b>paura del razzismo</b> che può albergare dentro di noi, e l’incontro con questo sentimento complesso fa paura. D’altra parte la paura di ciò che è diverso è antica quanto il mondo (e non solo quello umano ma anche quello animale), quindi è sicuramente umano anche reagire con paura e rifiuto. Allora quando ci accorgiamo di temere la prossimità con l’altro e sentiamo dentro di noi ciò che viene definito comunemente (ma anche moralisticamente) come razzismo, ci difendiamo, non ci riconosciamo in esso e cerchiamo altre spiegazioni.<br />Di fatto l’ospitalità, l’accoglienza è necessariamente problematica ed ogni riduzionismo è banalizzazione o difesa personale.<br />L’indigeno si trova ad <b>oscillare tra assimilazione dell’altro e il governo delle autonomie</b><br />In fondo questi sono i due modelli di riferimento nell’occidente: il tentativo di negare la differenza e riconoscersi tutti uguali non solo nei diritti e nei doveri ma anche nelle necessità: tutti francesi, quindi tutti secondo i ritmi e i tempi francesi, le abitudini i gusti e così via. In questo senso il migrante deve assimilarsi alla cultura ospitante.<br />L’altra tendenza invece è quella di tutti diversi e quindi a ciascuno secondo la sua differenza, favorendo la creazione di varie comunità locali culturalmente determinate: i cinesi con i cinesi, i senegalesi con i senegalesi. La società è multiculturale, ma ritorna in un certo senso ad essere anche coloniale</span> coloniali.</p> <p><span style="font-size:100%;">Anche in buona fede, o addirittura intenzionalmente, l’atteggiamento della società ospitante è quello dell’<b>assoggettamento</b> del più povero, del più debole, del diverso:<br /><br />“Non c’è società che non abbia tentato si padroneggiare<br />culturalmente il mondo. Ma questa tentazione deriva non tanto dal desiderio di<br />conoscere ma dal bisogno di <b>riconoscersi</b> in questa immagine del mondo – sostituendo<br />alle indefinite frontiere di un universo in fuga, la sicurezza totalitaria dei<br />mondi chiusi”3</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Più in generale l’indigeno rimane confuso dalla <b>paura della perdita d’identita’</b> per l’invasione degli altri, per la rottura delle frontiere, per la perdita di confini chiari e rassicuranti</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Messe a confronto le confusioni del migrante e quelle dell’indigeno, ci danno un’immagine inaspettata: nell’incontro i due si danno di spalle e non riescono ad incrociare i loro sguardi: il migrante è potenzialmente sempre rivolto al passato e ad esso tende, l’indigeno è tutto rapito dalla gestione del futuro o di un presente abbastanza futuro.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Il conflitto culturale</b><br />Nel tentativo di individuare di cosa si componga il conflitto culturale ho individuato alcune categorie:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><blockquote style="font-family: arial;font-family:arial;" > <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>A il bisogno di riconoscersi (nel senso di annettere) nell’altro</b><br />Non c’è società che non abbia tentato di padroneggiare intellettualmente il mondo.<br />Ma questa tentazione deriva non tanto dal desiderio di conoscere ma dal bisogno di riconoscersi in questa immagine del mondo. Gli uomini non desiderano tanto conoscere il mondo quanto piuttosto riconoscersi in esso.<br />Il fatto è che chi si riconosce nella sua azione di “conoscenza” non si accorge di appartenere ad un mondo chiuso ma si pensa invece come universale e senza riconoscimento reciproco.<br />In un certo senso coloro che si riconoscono negli altri, partono dalle somiglianze per negare o subordinare le differenze: sono come noi solo che sono inferiori culturalmente etc. etc.<br />Il conflitto qui è potenziale, ma può emergere concretamente qualora il subordinato reclami parità.</span></div> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>B l’altro come minaccia</b><br />Se è vero che l’individuo acquista senso nella relazione, è anche vero che questa non ha senso senza di lui. E, inversamente, l’identità non si valuta che al confine del sé e dell’altro, ma questo stesso confine è essenzialmente culturale. Traccia l’insieme dei luoghi problematici di una cultura. Questo insieme lo possiamo considerare sicuramente il confine all’interno dell’incontro, della relazione che si instaura tra l’indigeno ed il migrante.<br />M. Augè ha ben individuato questi luoghi dell’incontro (o non incontro) come luoghi non definiti, non pensati e non disegnati, e li ha definiti appunto i “non luoghi”. E’ lì, nei non luoghi, che l’altro, come alterità da noi, è una minaccia. </span></div> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>C l’altro come altro da non vedere</b><br />L’immigrato, prendendo le mosse dal suo vissuto di disequilibrio e dissonanza (che ha ben descritto Ciola) sente di poter essere solo emarginato, isolato, estraneo.<br />Di fatto si isola e si ritiene non in grado di dare qualcosa a questa cultura ospitante, sentendosi sempre più inutile finchè non si sente “altro”.<br />Oppure l’estremizzazione delle separazioni tra comunità culturali conviventi, porta alla radicalizzazione del non rapporto con conseguente escalation simmetrica e evoluzione verso il conflitto.</span></div> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>D Conflitto come confusione e disorientamento</b><br />Un conflitto tutto psichico, tutto interno, di colui che non appartiene più alla sua cultura d’origine e non appartiene ancora alla cultura d’appartenenza.<br />Il conflitto tra le due (o più) sue anime che si dibattono in lui.</span></div> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>E Conflitti di prossimità</b><br />Conflitti che si originano nell’esperienza di prossimità spaziale tra culture diverse, tipici della convivenza:<br /><br />• Conflitti dati da rituali;<br /><br />• Conflitti della vita quotidiana dati dalle differenze nelle abitudini,<br />nei ritmi e nelle esigenze personali;<br /><br />• Conflitti nel ciclo vitale; spesso differenze di sperimentazione e vissuti<br />rispetto alle fasi del ciclo vitale (identiche nelle culture anche le più diverse),<br />provocano confusione e rigetto dalla cultura ospitante o dalla cultura del migrante<br />Sarebbe comunque un errore che questi conflitti siano a senso unico, rappresentino cioè solo il “sentire” dell’indigeno e non quello del migrante. Non c’è una sostanziale differenza nel disagio che entrambi queste rappresentanze sociali provano nell’incontro.<br />Così i sentimenti descritti possono appartenere indistintamente ad entrambi, seppure con diversa coloritura e diverse risorse o diverso potere contrattuale.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>La Mediazione</b></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><blockquote style="font-family: arial;font-family:arial;" > <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Cos’è?</b><br />La creazione di un terreno comune all’interno del quale incontrarsi e riconoscersi reciprocamente, attraverso il “dare a Cesare quel che è di Cesare” (vd. <a href="http://www2.blogger.com/post-edit.g?blogID=3586955526807222377&postID=9136134678825887149#tab">Tab I</a>) e l’analisi dell’emotività prodotta dall’incontro, con l’aiuto di un’interfaccia responsabile.</span></div> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Lo specifico sistemico</b><br />L’altro lo si incontra sul confine<br />Le culture si incontrano sui confini, sulle molte soglie della società complessa come la nostra.<br />Lì i “mondi” si toccano: abbiamo la necessità di considerare ogni mondo come parte di uno stesso universo caratterizzato da interazioni, relazioni, contaminazioni e feedback<br />Nella misura in cui prendo in considerazione l’insieme, riuscirò a prendere in considerazione il conflitto culturale.<br />In fondo l’incontro permette il contatto non solo tra quegli individui e questa cultura ma anche dei mondi lontani che sono rimasti a casa. Come quei mondi lontani influenzeranno gli individui qui? Come la cultura qui influenzerà il mondo lontano e ne sarà a sua volta influenzata? Non possiamo incontrare l’altro se non ci poniamo queste domande.</span></div> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Lo specifico relazionale</b><br />Esiste uno specifico legame tra la forma ed il significato della sofferenza (o malattia) e la cura specifica per quella sofferenza, in una data cultura.<br />Per esempio nella famosa ricerca di E. De Martino4 sul fenomeno del tarantismo in sud Italia, una crisi nevrotica (il tarantolato) veniva letta dalla comunità di appartenenza del soggetto e dal soggetto stesso, come legata ad un simbolismo culturalmente determinato (il morso della taranta); allo stesso tempo il superamento di tale stato era affidato a rituali culturalmente condizionati (la musica) ma ugualmente condivisi tra i praticanti, il soggetto e la loro comunità di appartenenza.<br />In un certo senso la “terapia” e la “cura” sono veicolate da sistemi di comunicazione condivisi e culturalmente caratterizzati.<br />Se, cioè, il sistema di cura non parla un linguaggio appartenente alla comunità alla quale è applicata, rischia di essere inefficace o anche rigettato, come un corpo estraneo o un organo trapiantato ma rifiutato dall’organismo5.<br />Tra l’indigeno ed il migrante avviene un confronto tra mappe (epistemologie locali) diverse, che può, se favorito, evolvere alla ricerca di una comunicazione comune, attraverso la quale conoscersi.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>Gli ambiti della mediazione6</b><br />In questa situazione sociale dove ognuno di noi incomincia a confrontarsi non solo con il fenomeno diffuso dell’immigrazione, ma anche con una serie di problematiche connesse con le seconde o terze generazioni della migrazione, rischiamo di ritenere la mediazione una panacea per tutte le situazioni e a ritenere la necessità della presenza di mediatori culturali ovunque e di qualsiasi tipo.<br />E’ allora interessante incominciare a definire una serie di ambiti specifici per un intervento di mediazione, in grado anche di differenziare le diverse tipologie di mediazioni culturale. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><ol style="font-family: arial;font-family:arial;" > <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">azione di intermediario in situazioni dove non c’è conflitto (per es. i programmi di accompagnamento sociale dell’immigrato; sostegno all’inserimento etc.)</span></div> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;">Sono interventi predisposti dai servizi, sulla base delle conoscenze dei dati statistici. In fondo sapendo che il 30% dei bambini presenti nelle scuole dell’infanzia di un comune, sono figli di famiglie straniere o miste, aspettarci che questo 30% sarà presente anche nella scuola dell’obbligo nei prossimi anni, non è assolutamente la previsione di un’emergenza ma dovrebbe essere alla base di una programmazione di servizi e di progettazione pedagogica.<br />Quindi quel comune dovrebbe sapere di aver bisogno anche di personale che:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><blockquote style="font-family: arial;font-family:arial;" > <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>A</b> sostiene i cittadini provenienti da culture diverse a vivere in quella realtà usufruendo dei servizi messi a disposizione e a conoscere la particolarità di quella zona;<br /><b>B</b> sostiene gli operatori già in forza in quel comune a confrontarsi con culture diverse;<br /><b>C</b> ad affrontare particolari esigenze;<br /><b>D</b> ad osservare l’emergere di pericolose situazioni sociali che potrebbero sfociare in conflittualità.<br /><b>E</b> Strutturare interventi di prevenzione sanitaria e sociale.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;">Questi diventano luoghi all’interno dei quali interviene il mediatore culturale. Esempi già ci sono, di interventi nella scuola, nelle carceri, nei plessi sanitari e socio assistenziali, o in certi servizi ai cittadini per il lavoro, l’anagrafe, o altro ancora.<br />Qui possiamo parlare a tutti gli effetti di luoghi, poiché i luoghi esistono già e sono identificati per la funzione che essi svolgono; là avviene l’incontro tra persone di culture diverse per la necessità o l’obbligo che ognuno di loro ha di recarvisi;<br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><ol style="font-family: arial;font-family:arial;" > <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">azione all’interno delle situazioni conflittuali per la loro risoluzione, tra famiglia immigrata e società o all’interno della stessa famiglia. </span></div> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;">Quando la conflittualità è all’interno della famiglia si tratta di intervenire a livello di mediazione familiare o a livello di intervento terapeutico.<br />Qui il dibattito attuale è tra l’utilizzo di mediatori di madrelingua oppure mediatori culturali specificatamente formati ma non di madrelingua.<br />In realtà riteniamo che la differenza sia in fondo superabile in quanto nell’uno e nell’altro caso il mediatore deve essere formato a stare nella relazione e a leggere la domanda che viene posta dall’incontro tra persone o gruppi di culture diverse, con un’attenzione particolare a capire il quid culturale degli altri.<br />Fanno parte di questi interventi:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><blockquote style="font-family: arial;font-family:arial;" > <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>A</b> mediazioni familiari con coppie miste7 o coppie di culture diverse da quella ospitante;<br /><b>B</b> interventi sulla genitorialità inerenti conflitti generazionali culturalmente determinati;<br /><b>C</b> specifiche conflittualità in quartieri particolari o in certe situazioni in cui si scatenano conflitti di prossimità.<br /><b>D</b> Interventi nelle relazioni in cui l’incomprensione linguistica culturale provoca disorientamento e conflitto (per esempio gli interventi delll’interprete –mediatore come vengono descritti dagli operatori di Appartenances)8; </span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;">Problema specifico spesso diventa, nell’ambito di alcuni di questi interventi, quello dei luoghi della mediazione poiché essi non sono né identificati né pre-costituiti. Essi assomigliano molto a quelli che Augè ha definito non luoghi.9</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><ol style="font-family: arial;font-family:arial;" > <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">nel processo di creazione di ambiti collaborativi tra le parti in causa, finalizzato alla risoluzione dei problemi.</span></div> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;font-family:arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;">E’ questo l’ambito di interventi concordati, dove si va a stimolare la presa di coscienza, la conoscenza nella reciprocità e la collaborazione su progetti concordati.<br />L’intento è quello anche di sollecitare il migrante in un processo dinamico attivo per raggiungere la dimensione esistenziale in cui egli non senta solo di prendere qualcosa dalla società ospitante ma anche di essere in grado di dare ad essa qualcosa.<br />Rientrano in questa tipologia: </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><blockquote style="font-family: arial;font-family:arial;" > <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>A</b> gli interventi gruppali descritti da Edelstein10 su ciclo di vita, migrazione, cooperazione;<br /><b>B</b> gli interventi grippali descritti dal Centro Appartenances di Losanna sull’esperienza migratoria;<br /><b>C</b> interventi educativi in particolari situazioni11;<br /><b>D</b> strutturazione di collaborazioni sul piano culturale e divulgativo, con le comunità culturali presenti sul territorio12.<br />In questo tipo di interventi il luogo viene concordato e in un certo senso costruito insieme, e solo per questa opera concordata quel luogo assume un significato particolare per i partecipanti a quell’esperienza.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span></blockquote><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;" face="arial" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>Il Mediatore Culturale ovvero l’interfaccia</b><br />Il dizionario di informatica Mondadori dà questa definizione di interfaccia: l’interfaccia è “la facciata che due entità offrono l’un l’altra nelle reciproche interazioni”.<br />Il dizionario Zingarelli recita invece:<br /><br />“l’insieme dei punti di due superfici, che permettono il contatto in<br />presenza di una qualsiasi differenza”.<br />Per Bateson13 l’interfaccia indica “confini di sistemi definiti da scambi di informazione e da cambiamenti di codifica, piuttosto che indicare delimitazioni come la pelle. Perciò interfaccia diventa il termine per indicare il luogo dell’interazione sistemica”. Per Bateson l’interfaccia permette la comunicazione tra Pleroma (il mondo materiale, caratterizzato dalla regolarità descritte dalle scienze fisiche) e Creatura (il mondo della comunicazione). Seguendo la suggestione di Bateson, allora, l’incontro tra il migrante e l’ospite potrebbe essere visto come un sistema di scatole cinesi in cui più volte si ha l’incontro di Pleroma e Creatura, dove le diverse culture, le diverse ritualità e le diverse disposizioni individuali, costituiscono la difficoltà della relazione.<br />L’interfaccia va a cercare di connettere Pleroma e Creatura tentando di far dialogare le differenze: ogni incontro però provoca necessariamente una trasformazione che poi equivale ad una differenza.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Ma non si tratta solo di assumere una epistemologia: il mediatore è esso stesso “l’interfaccia”; è esso stesso attraversato da una serie di informazioni provenienti da una parte, che entrano in risonanza dentro di lui e vengono filtrate per poi essere di nuovo trasmesse all’altra parte, inevitabilmente masticate, elaborate: più l’interfaccia è parte costituente del territorio collaborativo, del territorio specifico di quella relazione e più sarà obbiettivo; più l’interfaccia riesce a metacomunicare su di sé e più la sua azione sarà oggettiva, o meglio, consapevolmente soggettiva.<br />In questo senso è condivisibile la definizione di Bateson come “confini che contengono sistemi definiti da scambi di informazione e da cambiamenti di codifica”.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Il mediatore culturale non è mai neutrale, anche se di fatto rimane interfaccia che permette lo scambio, poiché si tuffa nella cultura del migrante e spesso anche sua, ma appartiene anche alla cultura ospitante che in qualche modo rappresenta per l’opera stessa che sta svolgendo (e non può certo tirarsi indietro). In questo senso la sua posizione può dirsi semmai responsabile.<br />Possiamo inoltre dire che il mediatore ha imparato a star seduto bene ora su una sedia ora sull’altra.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Il mediatore Culturale di approccio sistemico relazionale, cerca di far comunicare, funzionando lui stesso come interfaccia, il sistema del migrante col sistema dell’ospite, sta nella relazione tra la cultura dell’uno e quella dell’altro ma anche nella specifica relazione tra quella persona e l’altra.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Lo specifico dell’incontro: la complessità dell’interfaccia</b><br />In campo antropologico, il concetto di identità è impossibile coglierlo una volta per tutte o in maniera universale, è quindi da considerarsi “mutevole e fluttuante e quindi indeterminabile se non attraverso le sue specifiche attualizzazioni, contestuali e temporalmente delimitate”14.<br />Comunque anche nella contestualizzazione dobbiamo entrare nella relazione tra individuo e le diverse collettività a cui egli appartiene (fratria, lignaggio,età, clan, villaggi etc.etc.) ed anche nel rapporto tra individuo e altri individui15 Già Mauss16 aveva descritto tutta la difficoltà ad isolare un concetto come quello di persona o “io”, e aveva affrontato il problema cercando di darne le varie sfaccettature e le varie componenti, rimandando quindi all’intreccio per cui, all’interno di una persona, si va formando l’idea di identità </span></p> <p><span style="font-size:100%;">Da un punto di vista psicologico, d’altronde, l’identità è una conquista che avviene nel tempo e nella formazione e che quindi di nuovo subisce variazioni nel tempo.<br />Ah a che fare con la propria storia, con le esperienze che facciamo nel rapporto col contesto e con gli altri, subisce l’influsso dei propri vissuti emotivi e produce a sua volta vissuti che acquistano significato e significatività. Nasce nell’interazione fondamentale col contesto familiare, con i “miti” e le abitudini familiari, ed è figlia del passato nel senso della cultura familiare (e non solo) almeno trigenerazionale Anche se contemporaneamente si confronta col presente e si immagina nel futuro.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Sappiamo, che ci sono varie parti del sé attive contemporaneamente e che sono appunto attivate dalle relazioni di cui viviamo. Sappiamo inoltre che il sé si forma in relazioni (almeno triadiche)17 e si nutre delle rappresentazioni di queste relazioni nello scambio interattivo con l’altro.<br />C. Edelstein recentemente18 ha segnalato vari livelli del sé:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><ul style="font-family: arial;font-family:arial;" > <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Il sé universale: lo specifico umano (filosofia; etologia);</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Il sé locale: lo specifico culturale (nel senso di Bateson19 – l’epistemologia locale); l’etnopsichiatria ci ha insegnato che c’è uno specifico culturale che non è assolutamente assimilabili universalmente a costo di ridurre la personalità;</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Il sé individuale: l’unicità dell’esperienza e del vissuto di quella persona;</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Il sé relazionale: la specifica relazione che costituisce fondamento per la personalità; il terreno all’interno del quale si formano significati e nessi.Da questo punto di vista anche il sé individuale può essere letto come il luogo della co-presenza.20</span></div> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ul><span style="font-family: arial;font-size:100%;" ><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;">Tentando una difficile sintesi tra queste due discipline possiamo dire (ed è mia intenzione dire), che esiste un territorio condiviso21, che spesso è rappresentato dallo spazio dell’incontro, che acquista uno specifico significato per via dei “linguaggi” e dei significati elaborati e condivisi tra i partecipanti a quella relazione. </span></p> <p><span style="font-size:100%;">In mediazione culturale abbiamo molte identità che si incontrano, compresa quella del mediatore-interfaccia; perché quell’incontro possa favorire lo scambio, necessitiamo di mettere in discussione la nostra identità nel senso di confrontarla con l’altro.<br />Per questo l’ascolto in gruppo della propria e dell’altrui esperienza migratoria assume un altro significato in grado di veicolare la conoscenza ma anche il riconoscersi, il sentirsi appartenente alla propria cultura ma anche alla cultura specifica di quell’incontro e quindi di una parte di società che si è incontrata e che è in quell’incontro rappresentata.<br />In fondo, se il passare dallo stare scomodamente seduto tra due sedie alla dimensione di riuscire a stare comodo su entrambe le sedie, (come dice Ciola) è dato dal sentire di aver qualcosa da dire e dare alla società ospitante e dal riconoscere l’avere da prendere e apprendere qualcosa dal migrante, allora ogni lavoro che permetta questa elaborazione sull’identità nella sua evoluzione (e complessità) favorisce questo passaggio.</span></p> <p><span style="font-size:100%;">Questa impostazione della mediazione culturale implica una maggiore attenzione alla relazione che si instaura con l’altro, rispetto ad un approccio alla mediazione che privilegia invece gli aspetti meramente linguistici e quelli culturalmente determinati.<br />Diverso è anche l’atteggiamento del mediatore e soprattutto diversa è la necessità di una sua rielaborazione interna della relazione con gli utenti. Compito primario del mediatore è quello di sapersi tuffare nella molteplicità del sé, suo e dell’altro, di avere una curiosità empatica ed una capacità d’ascolto, tali da far sentire gli altri (indigeni o migranti) a casa propria.<br />Là dove dovesse scattare il giudizio, lo schieramento ideologico, il riduzionismo antropologico, il mediatore culturale perderebbe la sua funzione. Devereux fondatore riconosciuto dell’etnopsichiatria, affermava appunto che lo specifico dello psichiatra fosse appunto l’ermeneutica dell’incontro, e più specificatamente nell’ambito dell’incontro tra culture diverse riteneva che indispensabile fosse l’atteggiamento etnologico di chi non cerca conferme alle proprie tesi culturali ma di chi va alla ricerca del confronto e delle eterogeneità e incomprensioni che da esso sorgono. Questo vale anche per la mediazione culturale, là dove essa dovesse assurgere a teoria in grado di spiegare o peggio giustificare fenomeni sociali complessi, allora perderebbe il suo specifico valore di interfaccia tra domande reciproche, tra lingue e significati che se non sostenuti nell’incontro, finiscono per darsi di spalle.<br />In questo senso il mediatore sta nella relazione con l’altro è esso stesso interfaccia viva, e quindi, necessita dell’osservazione del suo stare nella relazione con l’altro; anche l’analisi della domanda, fondamentale (come per ogni altro incontro umano e come per ogni altro tipo di mediazione), per poter cogliere lo specifico del disagio e della difficoltà insita nell’incontro tra persone o gruppi di culture diverse, è al contempo lettura del contesto ma anche lettura delle proprie reazioni e interazioni con l’altro di fronte a noi.</span></p><p><span style="font-size:100%;"><br /></span></p> </div><span style="font-weight: bold;font-family:arial;" >Note</span> <ol style="font-family: arial;"><br /><li>A. Ciola “Stare<br /><div align="left"> qui stando là” in Terapia Familiare n°54, 1997, APF Roma,<br />1997; A. Ciola “Comment etre bien assis entre deux chaises” in<br />InterDialogos 95-2, 1995</div><br /></li><br /><li>L’espressione<br /><div align="left"> è di Pietro Clemente: seminario presso l’ITF di Firenze, Gennaio<br />2002</div><br /></li><br /><li>Marc Augè<br /><div align="left"> “Il senso degli altri” Anabasi, Milano, 1995)</div><br /></li><br /><li>E. De Martino<br /><div align="left"> “La terra del rimorso” Il saggiatore, Milano, 1961</div><br /></li><br /><li>G. Francini “Strumenti<br /><div align="left"> e relazioni. Ricerca ed intreccio in De Martino” in Ossimori 9/10,<br />Protagon Editori Toscani, Siena, 1997 </div><br /></li><br /><li>Anna Belpiede<br /><div align="left"> “La professione di mediatore culturale in ambito sociale” (Torino)<br />in Prosp. Soc. San. N°2/1999 Milano</div><br /></li><br /><li>C. Edelstein “Le<br /><div align="left"> coppie miste” in E. Cassoni Dedicato alla coppia ; Quaderni di Psicologia,<br />analisi transazionale e Scienze Umane, n°31; Edizioni La vita Felice,<br />2000</div><br /></li><br /><li>J.C. Metraux;<br /><div align="left"> F.Fleury “L’interprete mediatore (…) mette in comunicazione<br />due parti,permettendo loro di capirsi, tramite domande che elgi comep responsabile<br />fa ad entrambe le parti”</div><br /></li><br /><li>M. Augè<br /><div align="left"> “Nonluoghi” Eleuthera, Milano, 1993</div><br /></li><br /><li>C. Edelstein “Il<br /><div align="left"> pozzo: uno spazio di incontri” in Connessioni, n°6, Centro Milanese<br />di Terapia Familiare; Milano, 2000<br /><br />C. Edelstein “Il ciclo di vita: progetto di sensibilizzazione e conoscenza<br />tra donne italiane e immigrate” in Convenzione Donne di Bergamo “Donne<br />Migranti” Quaderni della Porta; Fondazione Serughetti La Porta, Bergamo,<br />2000</div><br /></li><br /><li>G. Francini “L’affido<br /><div align="left"> di adolescenti immigrati” in AA.VV “Il minore affidato”;<br />Centro Documentazione OASI, Firenze, 1998</div><br /></li><br /><li>Interessante a<br /><div align="left"> questo scopo il Progetto della Regione Toscana “Porto Franco”.</div><br /></li><br /><li>Bateson G. e Bateson<br /><div align="left"> M.C. “Dove gli angeli esitano” Adelphi, Milano, 1989</div><br /></li><br /><li>Giordano Meneghini<br /><div align="left"> ‘Identità e tossicodipendenza’, tesi di Laurea, Università<br />di Siena, Dipartimento di Demo Antropologia, Rel. Prof. Pietro Clemente.</div><br /></li><br /><li>Marc Augè<br /><div align="left"> “Il senso degli altri” Anabasi, Milano, 1995</div><br /></li><br /><li>M. Mauss, “Teoria<br /><div align="left"> generale della magia ed altri saggi”, Einaudi, Torino, 1965</div><br /></li><br /><li>E. Fivaz-Depeursinge;<br /><div align="left"> A.Corboz-Warnery “Il triangolo primario”, Raffaello Cortina Editore,<br />Milano, 2000</div><br /></li><br /><li>C. Edelstein “La<br /><div align="left"> costruzione del sé nella comunicazione interculturale” (in press)</div><br /></li><br /><li>G. ; M.C. Batesono<br /><div align="left"> “Dove gli angeli esitano”; Adelphi, Milano, 1989</div><br /></li><br /><li>U. Telfener;A.Ancora<br /><div align="left"> “La consulenza con gli extracomunitari” in Psicobbiettivo, volXX<br />n°1; Cedis, Roma, 2000</div><br /></li><br /><li>G. Francini; B.Taddei<br /><div align="left"> “Il giroscopio” in Ecologia della mente, n°1/99, Pensiero<br />Scientifico, Roma, 1999 </div><br /></li><br /></ol>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-25555926889847932002007-04-06T22:17:00.003+01:002008-12-09T00:02:30.251+01:00LA MEDIAZIONE CULTURALE, L'ESPERIENZA NELL’ ATTIVITÀ CONSULTORIALE<div style="text-align: left; font-family: arial;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOOJck32WG2JMRzhxA3QNq_zRNtwZgppke2_BvRkW64lE8Dskyn47TscP0BVxUijEf0m4ozyFGKHms8J3gmo_jw18BaVOL8qZDXXa7GvtZ7wKK4yg1xkBl9mK1a3jzIqSVpy849l4Hkn0/s1600-h/20.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOOJck32WG2JMRzhxA3QNq_zRNtwZgppke2_BvRkW64lE8Dskyn47TscP0BVxUijEf0m4ozyFGKHms8J3gmo_jw18BaVOL8qZDXXa7GvtZ7wKK4yg1xkBl9mK1a3jzIqSVpy849l4Hkn0/s320/20.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050724816121162546" border="0" /></a><span style="font-weight: bold;">Moira Puntelli</span></div><div style="font-family: arial;" align="justify"><div style="text-align: left;"> </div><p style="text-align: left;">Settore Intercultura Istituto di Terapia Familiare di Firenze</p> <p> </p> <p align="justify"><br /></p><p align="justify">Le frasi che vi farò vedere sono frasi prese dalla strada, pronunciate spesso senza astio nella vita quotidiana, e possono essere pronunciate anche con preoccupazione rivolta verso la condizione di alcuni stranieri.<br />Quanti di voi, tra i presenti hanno pronunciato frasi simili a queste, o le hanno approvate durante una discussione?<br /></p> <p align="justify"><i><b>“In sostanza c’è che sono diversi da noi e non possono andare d’accordo<br />con noi... e poi sono troppi..”<br /></b>(La diversità come mostruosità)</i><br /><b><i>“In realtà è che non hanno voglia di lavorare e faticare... a fare la prostituta guadagnano sicuramente di più...”<br />I venditori ambulanti?.....<br />chi...? i marocchini...?<br />Sei proprio uno zingaro vestito in questo modo!!!!!<br /></i></b><i>(processi di categorizzazione/generalizzazione)</i><br /></p> <p align="justify"><b><i>“D’altronde non sono a casa loro, e quindi si devono adattare alle nostre usanze, alle nostre leggi..”<br />“ma ora che sono qui, che necessità c’è di mettersi il velo o non mangiare carne di maiale... qui sono liberi, d’altronde si devono integrare alle nostre tradizioni..”<br /></i></b><i>(il noi, il nostro contesto)</i><br /></p> <p align="justify">La nascita del pregiudizio deriva anche dal graduale assorbimento di luoghi comuni, dalla valutazione della propria cultura di appartenenza come superiore, più moderna, più adeguata, dalla paura di perdita delle proprie tradizioni, e quindi da un irrigidimento dei propri parametri di normalità, che non si possono confrontare con il diverso, perché l’altro è sicuramente primitivo, selvaggio, non adeguato. E’ significativo infatti l’uso di un linguaggio dicotomico tra un Noi ed un Loro, tra il nostro paese ed il loro.. tra un qui ed un là, ed un pensiero semplificato per categorie, dove spesso si identificano e mescolano più persone diverse tra loro, tradizioni differenti, popoli diversi... (i marocchini, gli albanesi, i mussulmani, gli orientali...)<br />Senza voler addentrarci nella discussione teorica di cosa significa integrazione, e quando questa è possibile, vorrei fare una breve riflessione sulle dimensioni emotive in cui si muove il popolo “accogliente”, e quello “accolto”, termini a larga misura utilizzati, nei laboratori teorici di studio dei processi migratori. Per comodità di esposizione utilizzerò, seppur in modo non appropriato, il termine “paese accogliente” od “ospitante”.<br /></p> <p align="justify">La parola immigrazione/emigrazione spesso è sinonimo di malessere, fisico e psicologico, tanto che l’identità dello straniero si costituisce e definisce con i termini della SOLITUDINE della DEPRESSIONE e della NOSTALGIA, che diventano gli elementi costitutivi e non solo compartecipanti l’identità stessa del migrante. In questo modo viene negata una parte importante della storia stessa dell’immigrato, carica di sentimenti ambivalenti legati alla speranza ed al dispiacere di lasciare la propria terra, famiglia, affetti. Agli attributi negativi (spesso ben individuabili) della storia della migrazione si contrappongono attributi positivi legati alla spinta stessa della migrazione che se da una parte spesso scaturisce da una saturazione di difficoltà incontrate nel paese di origine, altrettanto spesso contiene in sé la carica della SPERANZA di un miglioramento, del DESIDERIO di scoperta, di CURIOSITA’ verso ciò che è altro, di RICERCA di una nuova possibilità. Il migrante inoltre non parte sterile e vuoto dal proprio paese, ma porta con sè storie familiari, l’esperienza di una cultura, occhi diversi per l’osservazione dei fenomeni, una conoscenza empirica della propria terra, e questo, quando la diversità non è solo mostruosità, non può che arricchire la cultura ospitante. Voglio ricordare una ipotesi a cui io tengo molto, rispetto all’arricchimento ed alla trasformazione della società in seguito ai processi migratori, trasformazione (negativa o positiva che sia valutata) che spesso con pensiero Eurocentrico o meglio Occidentale, si considera avvenga solo nei paesi ospitanti, in realtà sono convinta che le migrazione modifichino direttamente ed indirettamente sia il paese ospitante che il paese di origine dei migranti, una trasformazione processuale, sofferta e longitudinale, che porta alla formazione di una società, che ha e mantiene le radici nella stessa terra di nascita, ed i germogli nei colori e sapori di altre terre.Una trasformazione dunque lenta, che prosegue per prove ed errori, sicuramente diversa dalle trasformazioni fino ad ora avvenute in seguito alle colonizzazioni od evangelizzazioni, diversa nella misura in cui la dignità dei popoli e della cultura di cui sono portatori, possa essere confrontata su uno stesso piano, ed attraverso una lenta poliedrica che faccia vedere di ciascun individuo la molteplicità degli elementi socio-culturali, e personali-familiari di cui è il prodotto. Per questo quando si parla di percorsi di integrazione bisogna partire dalla quotidianità, dalle piccole cose di tutti i giorni, per cercare poi di trarre da queste esperienze ipotesi teoriche su cui agire, per lavorare come gli artigiani del mosaico con pazienza a tutti i tasselli, piccoli ma fondamentali che costituiscono le persone, i popoli, le società e le loro credenze.<br />Quando si parla di stranieri, si è propensi a pensare di attivare strategie di aiuto per raggiungere, questa famosa e non ben definita, chimera dell’integrazione, e spesso gli operatori sociali, fondano la loro conoscenza dell’altro, e le basi della relazione di aiuto, dal momento dell’arrivo in Italia, volgendo il proprio sguardo in avanti, verso il futuro (“le cose che si devono o possono fare per aiutarti a vivere qui”), quando il migrante ancora sta guardando le cose che ha lasciato, ed elaborando il proprio distacco dal cordone ombelicale della propria terra... ecco che la relazione di aiuto fallisce, perché gli sguardi hanno verso e direzione opposta. Si delinea, dunque, sempre più importante la condivisione e la conoscenza di tutte le tappe del “viaggio” affrontato dalla persona, soffermandosi in particolare sui preparativi della “valigia”, cosa che ci permette di scoprire con quale bagaglio emotivo-psicologico-sociale ci si deve confrontare.<br />Il ciclo della migrazione prevede tappe non sempre facili da superare, frontiere non solo geografiche, volontà non sempre condivise, disillusione di parte delle speranze o aspettative che avevano fomentato la partenza.<br />Può capitare quindi che il migrante si trovi privato, durante questo “viaggio” metaforico e non, degli strumenti della cultura di origine, o delle risorse e modalità che la cultura di origine gli potrebbe offrire per dare FORMA alla sofferenza, (pensate ai diversi tipi dei rituali del lutto, ed al significato che tali rituali hanno), per dare un significato, una comprensione ed un modello di comportamento ai cambiamenti del ciclo vitale, passaggi che in alcune culture possono essere vissuti come un fatto privato, ed in altre ad esempio come un fatto sociale, ben determinato e ritualizzato (pensate ad esempio ai riti di iniziazione all’età adulta, che in alcune culture è un passaggio ben determinato nel tempo, in qualche modo verificabile, e con comportamenti ritualizzati, mentre nella cultura occidentale è un passaggio molto sfumato).<br />La persona quindi si trova pericolosamente in bilico tra i vecchi ed i nuovi valori, tra due modalità di attribuzione dei significati dell’esperienza vissuta, ed il rischio è che sia i nuovi che gli antichi valori siano privi, in quel momento, di un significato ed una forma veramente convincente.<br />Ecco che da questa lotta di significati e valori, del vecchio e del nuovo, si presentano le possibilità di insediamento nel nuovo territorio, in modo schematico vi cito solamente la nominazione attribuita ai vari “stili di attaccamento” alla cultura del paese ospitante:</p> <p align="justify"><b>ASSIMILAZIONE/GHETTO EMARGINAZIONE/INTEGRAZIONE.</b></p> <p align="justify">Questa lotta di valori, e tradizioni, molto evidenti nei processi di migrazione delle persone, può far sorgere il rischio di assegnare ad una persona una identità determinata dalla cultura di appartenenza, o meglio quel che più spesso accade determinata da ciò che noi pensiamo siano i valori ed i principi di questa cultura. Se così fosse sarebbe molto più facile gestire l’utente o “curare” il paziente. Questo incasellamento in parametri rigidi, ed in schemi descrittivi, oltre ad essere fittizio, e de-personalizzante, confina l’individuo in spazi e tempi immodificabili, la trasformazione ed il cambiamento intrinseco al solo fatto della migrazione, viene negata in un tentativo di cristallizzare e fermare ciò che è in processo.<br />Da queste considerazioni sorge l’esigenza durante la formazione sia del mediatore culturale che dell’èquipe di lavoro, di porre l’accento sulle sub-culture esistenti in una cultura, sulle specificità delle tradizioni e miti familiari, sui processi di negoziazione, che ciascun individuo (italiano o straniero) attua, sui valori e culture sconosciute, sulle esperienze fatte, cosa che rende l’individuo unico. Nel nostro modello di riferimento il <b>mediatore culturale</b> è una persona immigrata, che diventa attraverso una formazione teorica ed emotiva, un professionista della migrazione, partendo proprio dalla propria esperienza di “viaggio”, e dalla possibilità di riordinare ed arricchire i contenuti della propria “valigia”, per poterla aprire, mostrarla agli altri, aggiungerci nuove cose, attingervi senza paura quei vestiti che rassicurano e avvicinano all’altro per poter facilitare un ascolto, ed essere riconosciuti. Il mediatore lavora in una terra di confine, tra italiani e stranieri, è l’anello di congiunzione di due realtà diverse. Dalle considerazioni sopra fatte inoltre, uno dei requisiti chiesti per accedere al corso di formazione di mediatore culturale, è quello di avere contatti frequenti con il proprio paese, proprio perché ciò rende il mediatore in continuo contatto con le trasformazioni sociali e di pensiero della propria cultura di origine, mantenendo così un pensiero non solo di ciò che è stata, ma in particolare di ciò che è la propria cultura di origine, un pensiero reale e non anacronistico, od estremamente idealizzato.<br />La <b>Formazione dell’équipe di lavoro</b> è il passo preliminare e necessario per svolgere una attività di mediazione, sia essa nei consultori o nelle carceri, è il primo processo di integrazione che si svolge tra gli operatori ed i mediatori culturali, che dovranno ridefinire gli spazi ed i tempi, i linguaggi da utilizzare, le nuove modalità di relazione. La formazione quindi diventa un piccolo laboratorio sperimentale di ciò che potrà accadere nella relazione con l’utente, è il primo luogo di sperimentazione della mediazione che passa anche dalla conoscenza delle culture e delle persone, dalla condivisione di storie, risorse e difficoltà.<br />Da qui nasce l’importanza e la capacità di far emergere, accogliere altri tipi di pensiero (pensate al pensiero magico od animista preponderante in alcune culture), e di dare un significato alle altre modalità di raccontare e rappresentare i sintomi di una malattia, o di una gravidanza, od ancora di eventi critici.<br />Il pensiero razionale è l’unico accettato del nostro tipo di cultura, e la ricerca dell’oggettività e verificabilità scientifica sono gli strumenti utilizzati per comprendere la realtà, altri tipi di pensieri sono definiti “selvaggi”, “primitivi”, senza dignità. Un approccio di questo tipo, impedisce al paziente straniero di dar parola al proprio stato d’animo, perché quella parola è carica di significati considerati primitivi.<br />Il mediatore si troverà quindi ad affrontare ed utilizzare per esempio, l’ambivalenza oscillante tra la dignità di un rito o di un rituale, e la dignità del pensiero logico-razionale, si troverà a far interagire nell’immediatezza del presente i valori derivanti dal passato (cultura di origine) ed i valori del futuro (paese ospitante). Per far questo il mediatore deve saper utilizzare la propria esperienza di immigrato, per ritrovare il “codice materno”, cioè quello che è “dentro” che rappresenta la patria perduta, e ciò che è fuori, “il codice paterno”, che rappresenta la società in cui l’individuo è migrato, con le sue regole ed i suoi codici, come è già stato definito da altri autori.<br />In questo modo il mediatore potrà parlare sia agli utenti, sia con l’èquipe di lavoro, integrando il pensiero immaginifico ed il pensiero razionale, il codice materno e paterno. In questo senso il mediatore non può essere un semplice interprete linguistico, o solo un divulgatore di abitudini, piuttosto potremo definirlo un rielaboratore di pensieri, un decodificatore di significati ed attributi.</p> <p align="justify"><b>Esempio di mediazione tra assistente sociale e famiglia senegalese</b><br />L’èquipe di lavoro deve dunque trovare un linguaggio comune supportato con strumenti come schede tecniche per la raccolta di informazioni elaborate insieme.<br />L’interpretazione o meglio la rilettura di certi comportamenti, l’ascolto facilitato, aiutano così a formulare una corretta “diagnosi”. Un esempio di fraintendimento culturale è il seguente:<br />Una donna senegalese si rivolge all’assistente sociale per un sussidio economico, e per la cura e la riabilitazione del proprio figlio di 5 anni, che si è bruciato una spalla mentre la mamma cucinava.<br />L’assistente sociale fa la visita domiciliare e vede il seguente quadro domestico:<br />nell’ingresso, appoggiati per terra dei borsoni strabordanti di oggetti vari, impediscono quasi il passaggio; i divani e le sedie sono stati tutti spostati in un angolo, al posto del tavolo da cucina c’è una grande stuoia appoggiata per terra, circondata da cuscini di varia misura e forma, nell’altro angolo, poco distante, un fornelletto da campeggio appoggiato per terra, con sopra un grosso pentolone fumante, poco distante la bambina di 12 anni intenta ad impastare, seduta per terra, il pane, i fratellini a piedi nudi, seduti per terra stanno mangiando della carne, disposta su un grande piatto unico, con le mani.. Nella stanza accanto tre o quattro uomini senegalesi, chiacchierano a voce alta, seduti per terra su delle coperte di lana. Dopo un breve e faticoso colloquio, per le difficoltà linguistiche, l’assistente sociale, esce da quella casa con una sensazione di disagio, di confusione, si domanda perché una casa “decente” e “dignitosa” sia stata trasformata quasi in una capanna, senza mobiglio, dove si cucina e si mangia per terra, dove non vengono rispettate le norme igieniche, e dove i bambini non possono crescere bene, perché incustoditi, lasciati come piccoli selvaggi. Decide quindi di inserire un educatore territoriale italiano, con lo scopo di insegnare a queste persone almeno alcuni canoni di civiltà: mangiare sul tavolo, usare le forchette, cucinare sopra una cucina a gas, far “rispettare” la propria casa, cioè non aprire la porta a tutti i senegalesi (per di più uomini, senza famiglia), in qualsiasi momento, dare delle regole di comportamento adeguato ai bambini.... Inutile dire che questo progetto educativo è fallito ben presto, sviluppando una diffidenza ed un rancore tra l’assistente sociale (che dice di aver fatto di tutto per aiutarli) e la famiglia senegalese (che si è sentita invasa, giudicata e non ascoltata). Queste difficoltà iniziavano a farsi sentire anche nelle scuole dove i bambini erano inseriti, e così dalla scuola è arrivata la segnalazione e la richiesta di una mediazione. Il mediatore senegalese, che abbiamo inserito, ha lavorato dunque su tutti e due i fronti, con l’assistente sociale, per farle notare che il progetto educativo da lei elaborato, aveva dei valori tipicamente italiani, e non considerava gli usi e costumi del popolo senegalese, quale quello di mangiare in un unico piatto, con le mani, e di avere un grande senso dell’ospitalità e della vita comunitaria, non per forza identificabile con promiscuità; e con la famiglia senegalese, per far accettare loro, alcune delle richieste fatte dalla società italiana, come la frequenza scolastica, la possibilità di essere aiutati come nucleo famigliare, la possibilità di riaprire un dialogo con le istituzioni, senza la paura di essere inglobati ed “italianizzati” se avessero modificato alcuni comportamenti più funzionali alla situazione climatica e reale del paese in cui risiedono. Il mediatore ha potuto ottenere un successo, e facilitare la trasformazione dei costrutti mentali cristallizzati nei parametri dei singoli valori culturali dell’assistente sociale e della famiglia senegalese, grazie a tutto ciò che lui rappresentava,in quel momento, sia come immigrato proveniente dal Senegal, sia come professionista riconosciuto dall’équipe di lavoro.</p> <p align="justify"><b>La mediazione in carcere</b><br />Un comportamento molto diffuso tra i detenuti, è l’autolesionismo. L’autolesionismo così come il suicidio ed il tentato suicidio in carcere hanno una percentuale molto più alta, rispetto al mondo “fuori”, di questa percentuale, il numero dei detenuti stranieri che cade in questi comportamenti è ogni anno più alto.<br />Alla domanda perché ti tagli, (da un indagine condotta in un percorso di ricerca interuniversitaria finanziata dal Murst) alcuni detenuti hanno risposto:<br />“perché è l’unico modo per sentirmi vivo”<br />“io lo facevo quando mi sentivo disperato... mi tagliavo, sentivo il dolore.. e mi calmavo”<br />“a volte lo facevo per sentire che esistevo... quando ti senti come se non esistessi, il dolore fisico ti fa sentire di nuovo come se fossi vivo”.<br />“il dolore, il sangue le urla, l’infermiera... per un po’ sei al centro dell’attenzione..”<br />La mediazione in carcere, in una ottica di prevenzione all’autolesionismo, si può articolare:</p> <div align="justify"> <ol> <li>mediazione come possibilità di dare un nome alla propria sofferenza, raccontandola e condividendola con qualcuno che parla la stessa lingua, ed o ha un retaggio culturale e tradizionale conosciuto, una storia di migrazione...</li> <li>mediazione come possibilità di avere una rete esterna (volontari della stessa etnia e non) che possano veicolare e facilitare affetti ed emozioni, tra chi sta dentro e tutto ciò che c’è fuori...per ridurre isolamento</li> </ol> </div> <p align="justify">Data la peculiarità del carcere, dove spesso il pregiudizio e la paura si acuiscono, l’inserimento del mediatore nell’èquipe di lavoro richiede una particolare attenzione. La forma relazionale privilegiata tra il detenuto e l’istituzione penitenziaria, è regolata da un rapporto di dominio, dove i ruoli sono chiari, rigidi e preordinati. Quindi il mediatore carcerario deve, prima di tutto definire il proprio ruolo, con regole e spazi ben delineati e condivisi da tutta l’équipe di lavoro, e saper muoversi in un clima che non sempre è collaborativo, spesso è svalutante ed escludente, saper respirare un’aria di sofferenza, mista alla violenza e all’impotenza, alla rabbia, alla paura ed alla speranza...<br />Resta comunque un luogo, con norme e regole molto più rigide, con realtà diverse, lealtà silenziose, ed in cui la sofferenza e la disperazione sono molto frequenti.<br />Per questo il mediatore deve essere ancora più attento al lavoro di èquipe, e deve prima di tutto mediare e costantemente mediare con l’èquipe di lavoro.</p> <p align="justify"> <b>Il progetto prevede</b></p> <div align="justify"> <ol> <li>formazione di tutta l’equipe di lavoro, per la condivisione degli obiettivi, e la riformulazione dei tempi e delle modalità di intervento del mediatore, partendo dalla specificità del clima di quel carcere;</li> <li>facilitazione linguistica, traduzione di cartelli informativi, collaborazione durante i colloqui...</li> <li>gruppi di lavoro strutturati ad esempio: visione e discussione di una commedia teatrale marocchina, traduzione della stessa, divulgazione al gruppo di detenuti italiani e non, dell’attività teatrale (il mediatore in questa fase lavora con l’insegnante di teatro), messa in scena della commedia;</li> <li><br /><div align="left">formazione di una rete esterna di volontariato, per i colloqui con parenti ed amici, o per lo scambio epistolare.<br /><br /> Il mediatore quindi lavora anche all’interno del carcere per facilitare una integrazione, perché spesso i detenuti stranieri diventano degli “emarginati nell’emarginazione”, raggruppandosi in gruppi chiusi, di difficile gestione, inoltre, anche per gli istituti penitenziari. Ridar voce, riconoscere l’identità, rispettarne le differenze, e promuovere percorsi di integrazione all’interno del gruppo di detenuti, è un passo verso la possibilità di una riabilitazione sociale, e di far del periodo di detenzione non una espiazione sottomessa dei propri peccati, ma una rielaborazione dei reati, un luogo anche di apprendimento di nuove abilità,<br /> e strumenti, per potersi permettere un cambiamento.</div><br /></li><br /></ol> </div> <p align="justify"><b>Il caso</b><br />L’importanza del lavoro d’èquipe lo posso riportare in questo banale ma importante episodio.<br />Il mediatore marocchino, stava effettuando in carcere dei colloqui individuali in collaborazione con l’educatore, fungendo almeno fino a quel momento da interprete. Si presenta un detenuto italiano, e l’educatore gli presenta il mediatore e gli chiede se ha nulla in contrario se quest’ultimo presenzia al colloquio. Il detenuto, coglie subito l’occasione per porgere le sue lamentele del compagno di cella, straniero, marocchino e puzzolente, proprio perché non si lava. Con lui ha avuto molte discussioni ed ora chiede un trasferimento, ma non vuole stare più con i marocchini perché puzzano. Il mediatore chiede al detenuto da quale zona del Marocco proviene il compagno di cella, e da quale città. Il mediatore racconta un po’ come sono quei paesini, gli racconta la vita di quel paese ancora senza luce elettrica e senza l’acqua, dove l’acqua deve essere usata con parsimonia, ed è un bene prezioso. Il detenuto si chiede se è per quello che il suo compagno di cella è così reticente a lavarsi...<br />Il mediatore e l’educatore, rinforzano l’aspetto positivo di questa condivisione, che ha potuto scemare di molto l’aggressività iniziale, e viene detto al detenuto che questa informazione da lui riportata è stata molto importante, e che da queste necessità rilevate, il mediatore e l’educatore parleranno con il compagno di cella per stimolare un comportamento più pulito.<br />Questo è un piccolo esempio, di difficoltà quotidiane, che acuite sfociano in comportamenti xenofobi ed aggressivi. L’educatore si è sentito molto supportato dall’intervento del mediatore, e per il detenuto aver conosciuto uno straniero “diverso” dal compagno di cella, ed aver recuperato una dimensione più umana, e non culturale generica, delle difficoltà relazionali con il vicino di letto, ha aiutato, con un piccolo passo, l’integrazione e la convivenza.<br />La mediazione culturale, come avete notato dagli esempi riportanti, agisce sulle piccole cose quotidiane, il mediatore dà molta importanza alle difficoltà reali incontrate nella quotidianità agli stereotipi banali, alle incomprensioni nate dalla vicinanza, giorno dopo giorno, e agisce su queste.<br />Ringrazio pertanto l’associazione El Kandil, che mi ha dato la possibilità di sperimentare la ricchezza e la fatica di un lavoro interdisciplinare (con assistenti sociali, insegnanti, avvocati, medici...) ed interculturale (grazie alla collaborazione di stranieri provenienti dal tutto il mondo, dall’Albania, dal Marocco, dal Senegal, dalla Russia, dal Perù, dall’Equador, dalla Siria, dalla Cina…) </p> <p> </p> </div> <div style="font-family: arial;" align="justify"></div>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-5849446910032606762007-04-06T22:17:00.004+01:002008-12-09T00:02:30.091+01:00CULTURA OSPITANTE E CULTURA D’APPARTENENZA TRA CONFRONTO E CONFLITTO - I FIGLI E LE DONNE NELLE FAMIGLIE SENEGALESI IMMIGRATE<div style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEizn-z-cIMxfwQVpsz9sdR11mVIXr5FmYaxs3kf8cq-w7QzBVjv98_W23a44v2v8mCr_RXLGAYW0MmfoyagePGj19H8oXM5tUnVVYeP_myPsJMaKh84uv9BkxknZuLVaolnaKio0EIsmpI/s1600-h/21.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEizn-z-cIMxfwQVpsz9sdR11mVIXr5FmYaxs3kf8cq-w7QzBVjv98_W23a44v2v8mCr_RXLGAYW0MmfoyagePGj19H8oXM5tUnVVYeP_myPsJMaKh84uv9BkxknZuLVaolnaKio0EIsmpI/s320/21.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050726856230628162" border="0" /></a><span style="font-weight: bold;font-family:arial;" >Debora Niccolini</span></span> </div><p style="text-align: left;font-family:arial;" ><span style="font-size:100%;">Socia in formazione Settore Intercultura Istituto di Terapia Familiare di Firenze</span></p><p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span></p> <p align="justify" style="font-family:arial;"> </p> <p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Tre anni fa ho fatto una ricerca sui senegalesi, in particolare sulle famiglie wolof (una delle sei etnie del Senegal) emigrate in Italia. In realtà, questa ricerca, la definirei una micro-analisi su alcune famiglie wolof scelte per le caratteristiche di provenienza e di medesimo insediamento emigrate in Toscana. Lo scopo della ricerca era quello di vedere in che modo l’evento migratorio rimetteva in gioco le identità e le relazioni familiari del migrante senegalese. Il mio obiettivo, però, non era solo conoscitivo, l’incontro con il diverso ha rappresentato per me un’opportunità di crescita e una sfida culturale, per riscoprire quei valori umani presenti nell’incontro tra ciò che è familiare e ciò che è estraneo.<br />Ho diviso il lavoro in due parti:</span></p> <div align="justify" style="font-family:arial;"> <ol> <li><span style="font-size:100%;">Il lavoro sul campo, che si è caratterizzato per la mia permanenza di 1 mese presso una famiglia wolof, residente a Mbacke (situata nella regione di Diourbel, posta nella parte interna del Senegal occidentale);</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Interviste a famiglie senegalesi immigrate in Toscana in cui ho rintracciato le famiglie wolof provenienti da Mbacke che si sono insediate in Toscana negli anni ’90.</span></li> </ol> </div> <p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">Gli strumenti di rilevazione delle informazioni, da me utilizzati, sono stati l’intervista in profondità e l’osservazione partecipante nella famiglia senegalese che mi ha ospitato in Senegal(dove ho scritto un diario, ho fatto filmati e foto). Dopo la seconda parte della ricerca ho trascritto tutte le interviste e sulla base di queste ho fatto l’analisi del testo individuando successivamente alcune aree tematiche utili per fare un confronto con la famiglia senegalese in Senegal (considerata come rappresentativa di una tipica famiglia rurale senegalese).<br />Le aree tematiche da me individuate sono quattro: la lingua, il tempo, lo spazio, i valori. L’obiettivo che mi ero posta consisteva nell’osservare sia gli effetti che l’evento migratorio aveva avuto all’interno della struttura familiare, sia l’adattamento e l’integrazione di queste due famiglie nel paese d’accoglienza, tenendo conto delle differenze generazionali e di genere.<br />La domanda che mi ero posta è: <b>in che modo queste due famiglie stanno tra la cultura d’appartenenza (il Senegal) e la cultura d’accoglienza (l’Italia)?</b><br />Devo dire che non c’è una risposta sicura, certo è che queste famiglie sono in continua trasformazione, dovuta anche al fatto che l’arrivo di bambini e donne che raggiungono i propri mariti porta altri bisogni sia per la società d’accoglienza che per le famiglie stesse. Faccio alcuni esempi riportando alcune parti dell’intervista:</span></p> <blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i><b>Marito</b>: “io alzare la mattina presto per andare a lavoro, poi quando tornare cucinare, lavare, stirare, troppo dura la vita…allora ci voleva una donna in casa…adesso io non faccio niente tutto mia moglie a tutti”</i></span></p> <p><span style="font-size:100%;"><i><b>Moglie</b>“io vorrei lavorare per non pensare alla mia famiglia in Senegal, alle altre donne….mio marito non vuole devo fare pulizie in casa”</i></span></p> </blockquote> <p align="justify" style="font-family:arial;"><span style="font-size:100%;">L’arrivo della moglie ha permesso ai membri di questa famiglia di riproporre la stessa struttura gerarchica della famiglia d’origine (al suo interno si può osservare la netta distinzione dei ruoli fra i più anziani e i più giovani, tra uomini e donne), ma mentre il marito continua a riconoscersi nel sottosistema degli uomini adulti che lavorano, per la moglie è un po’ diverso in quanto sente l’esigenza di trovare un suo spazio in un sottosistema, che non può essere quello delle donne adulte che le viene a mancare, quindi nascono in lei dei bisogni nuovi che vorrebbe esprimere con il proprio marito.<br />Anche l’arrivo del bambino ha portato delle novità, in particolare il padre e la madre si sono trovati a rivestire la funzione genitoriale da soli, in quanto in Senegal questa funzione viene svolta da uomini e donne adulte appartenenti alla famiglia estesa, ma si trovano anche a fare gli amici del loro figlio (in Senegal i bambini giocano insieme e dormono nella stessa camera anche in dieci). </span></p> <blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><i><b>Bambino</b>: “mio babbo mio amico, a casa giochiamo insieme”</i></span></p> <p><span style="font-size:100%;"><i><b>Padre</b>: “Khadime dorme con noi perché la sua camera è troppo grande per lui, noi siamo abituati a dormire in tanti nelle camere, ho paura che prenda delle abitudini sbagliate, non voglio che stia da solo”</i></span></p> </blockquote> <p face="arial" align="justify"><span style="font-size:100%;">Anche per il figlio ci saranno elementi di diversità sia rispetto ai suoi fratelli che vivono in Senegal sia nei confronti dei coetanei italiani che crescono in una sola casa.</span></p> <p face="arial" align="justify"> </p> <table style="color: rgb(51, 51, 51);font-family:arial;" align="center" border="1" cellpadding="3" cellspacing="0" width="100%"> <tbody><tr> <td valign="top" width="48%"><p align="center"><span style="font-size:100%;"><b>"Disegno della sua famiglia", fatto da un bambino senegalese di sette anni che vive in Senegal</b></span></p> <p align="center"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgEfpSR8j1ST-a-6RHn6rzDSkHSu5rw9jC_N0ZaWZ9O3bazzIV_kzQiybbJsvw-qhOPDFJVMDSVTTigphewX1v6cBe8YsyJtXkwb2Ul0w8EEGXIJx55vYnQonfvlW-5vM_APf_48rQ-0Yc/s1600-h/21-1.jpg"><img style="margin: 0px auto 10px; display: block; text-align: center; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgEfpSR8j1ST-a-6RHn6rzDSkHSu5rw9jC_N0ZaWZ9O3bazzIV_kzQiybbJsvw-qhOPDFJVMDSVTTigphewX1v6cBe8YsyJtXkwb2Ul0w8EEGXIJx55vYnQonfvlW-5vM_APf_48rQ-0Yc/s320/21-1.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050727156878338898" border="0" /></a></p></td> <td valign="top" width="52%"><div align="center"> <p><span style="font-size:100%;"><b>"Disegno della sua famiglia", fatto da un bambino senegalese di sei anni che vive in Italia da quattordici</b></span></p> <p> </p> <p><span style="font-size:100%;">Il bambino </span></p> <p><span style="font-size:100%;">non disegna nulla</span></p> </div></td> </tr> <tr> <td colspan="2"><span style="font-size:100%;"><b><i>Intervistatrice</i></b><i>: “Khadime, mi disegneresti la tua famiglia?”<br /><b>Khadime</b>: “babbo, qual è la mia famiglia?”<br /><b>Padre</b>: “è tutta, siamo noi….i tuoi nonni, i tuoi fratelli, gli zii….”<br /><b>Khadime</b>: “hahaha!!! ho capito…allora faccio la mamma e te, come mi hanno fatto fare all’asilo….”</i></span></td> </tr> </tbody></table> <p style="font-family: arial;" align="justify"> </p> <blockquote style="font-family:arial;"> <p><span style="font-size:100%;"><br /><b><i>Bambino</i></b> <i>“per me stare qui o in Senegal è uguale, questa casa o quella giù in Senegal è uguale, non cambia niente”. Chiedo al bambino di disegnarmi la casa reale e ideale, mi fa due case identiche e dopo mi dice che la sua casa ideale è quella in Senegal (io mi sento confusa, lui no).<br /></i><i><b>Khadime</b>: “questa è la mia casa ideale, quella in Senegal!” </i></span></p> <p><span style="font-size:100%;"><i><b>Bambino</b>: “io non dormo in camera mia, dormo con i miei genitori, sono contento, quando vado nella casa in Senegal ora sono grande e dormirei con gli altri bambini”<br /><b>Padre</b>: “io e mia moglie siamo qui per mandare i soldi alla famiglia in Senegal, ai miei genitori, ai nostri figli, non so quando torneremo, ma il nostro futuro è in Senegal” io gli domando: “Khadime verrà con voi?” lui risponde: “lui sa che la sua famiglia, i suoi fratelli sono in Senegal”</i></span></p> <p> </p> </blockquote> <table face="arial" align="center" border="0" cellpadding="3" cellspacing="0" width="100%"> <tbody><tr> <td width="50%"><div align="center"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjAkz3gr1Oo69j89WYFYMa4P1XQ5bg8CeKiXgnO5khVXmDu1jtvqAzoZp_k7hCMYkEhN4pd5w077NKnkcYh6R3UbFJcxRE6vGN5R5qP8zOYxRLxM4vxZvxrn8vVdTfAxKZHzDrh1pMEAl4/s1600-h/21-2.jpg"><img style="margin: 0px auto 10px; display: block; text-align: center; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjAkz3gr1Oo69j89WYFYMa4P1XQ5bg8CeKiXgnO5khVXmDu1jtvqAzoZp_k7hCMYkEhN4pd5w077NKnkcYh6R3UbFJcxRE6vGN5R5qP8zOYxRLxM4vxZvxrn8vVdTfAxKZHzDrh1pMEAl4/s320/21-2.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050728084591274850" border="0" /></a></div></td> <td width="50%"><div align="center"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEilm3cIQfwNzMIDtzJhkmpsgbS5P02nsm58xWZeVkFC4CadkwSne9lwf9F4Jhq7xpf6Dzn2jCmzH-sfck8f21nND2LCdbY1nHqkANew4kj9nx9tNg7wT1iodddACXadUg6xkyoxtOjcrmY/s1600-h/21-3.jpg"><img style="margin: 0px auto 10px; display: block; text-align: center; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEilm3cIQfwNzMIDtzJhkmpsgbS5P02nsm58xWZeVkFC4CadkwSne9lwf9F4Jhq7xpf6Dzn2jCmzH-sfck8f21nND2LCdbY1nHqkANew4kj9nx9tNg7wT1iodddACXadUg6xkyoxtOjcrmY/s320/21-3.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050728209145326450" border="0" /></a></div></td> </tr> <tr> <td><div align="center"><span style="font-size:100%;"><b>Khadime: “questa è la mia casa a Bientina”</b></span></div></td> <td><div align="center"><span style="font-size:100%;"><b>Khadime: “questa è la mia casa ideale, quella in Senegal!”</b></span></div></td> </tr> </tbody></table> <p style="font-family: arial;"> </p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">L’obbiettivo delle due famiglie emigrate, ma anche della famiglia residente in Senegal che mi ha ospitato, è quello di mantenere la coesione interna della famiglia. Dall’analisi di quest’ultima ho potuto concludere che essa rappresenta un alto grado di stabilità e coesione interna nonostante la coresidenza di più nuclei. Si può osservare come al suo interno c’è un alto livello organizzativo attraverso la divisione di ruoli lavorativi e sociali tra vecchi e giovani, tra maschi e femmine. Il livello di coinvolgimento tra i membri è molto alto, le decisioni vengono assoggettate ai bisogni-desideri di tutto il gruppo. Per questo motivo le operazioni di un individuo sono difficilmente pensabili fuori dalla logica che presiede l’organizzazione del gruppo, in questo senso le sue scelte, quando si differenziano da quelle della famiglia, sono vissute come minacciose.<br />Di fronte a queste minacce la famiglia mantiene la sua coesione in due modi:</span></p> <ol style="font-family:arial;"> <li><span style="font-size:100%;">Tramite l’evitamento del conflitto (il capofamiglia come figura carismatica) ottenuto attraverso il rispetto dell’organizzazione interna e dei ruoli (gerarchici);</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Tramite la sottomissione dei bisogni-desideri individuali ai bisogni della famiglia, assoggettandosi, da parte di ciascun individuo, a questa “quasi legge naturale”.</span></li> </ol> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Quindi i due nuclei familiari emigrati, si sono messi in movimento per mantenere la coesione interna della famiglia estesa, o meglio, rappresentano la cellula produttiva della famiglia estesa, quindi rispondono alla necessità di soddisfare i bisogni del gruppo.<br />Abbiamo visto come l’evento migratorio di queste due famiglie, abbia modificato il modo di gestire lo spazio e il tempo: il loro inserimento nella cultura d’accoglienza, con i ritmi di vita più veloci dove anche la gestione dello spazio tende a privilegiare “l’intimità individuale”, ha portato alla diminuzione della coresidenza allargata, ma non alla scomparsa della sua complessità, che si presenta ancora come una rete relazionale gerarchica, in cui ogni membro è legato a più generazioni o a più membri della stessa generazione. In questo senso se la complessità si è accentuata, forse, poiché prima l’intreccio era sotto gli occhi di tutti, quotidianamente, ora è più interno, più celato, e, potremmo dire mentalizzato.<br />Nello stesso tempo, però, emergono nel nuovo contesto i bisogni individuali, soprattutto da parte della donna e nello stesso tempo i sottosistemi coniugale e genitoriale assumono un altro significato.<br />Ci possiamo chiedere come riusciranno i bambini senegalesi emigrati in Italia ad integrare, da grandi, i bisogni del gruppo-famiglia con quelli individuali?<br />Vi sono, infatti, già alcuni elementi di modificazione:<br />Da una parte le donne sono quelle che vivono in maniera più forte la perdita della dimensione tradizionale e non hanno ancora accesso ad una dimensione nuova, trovandosi così ad essere destinate il corpo vivo della trasformazione impossibile o della ipotetica “rivolta”. A livello soggettivo la donna emigrata si trova implicata nella difficile ricerca della propria identità, che mantenga i portati tipici dei modelli familiari imperniati su una divisione tradizionale dei ruoli accanto a stili di vita improntati all’individualismo. Nello stesso tempo, a livello intersoggettivo, il ruolo della donna risulta strategico nel determinare l’esito familiare della scelta migratoria, sia nella direzione di un modello familiare “conchiuso in sé” sia in quella di una sua interazione con l’ambiente esterno. La figura femminile può, quindi, rappresentare nella scelta migratoria il punto di non ritorno di una solitudine familiare, oppure il possibile “ponte” verso la cultura del paese ospitante.<br />Dall’altra, i bambini che crescono, si troveranno irrimediabilmente distanti da ciò che è loro stato raccontato come naturale e quindi spinti dal bisogno di inserimento e di relazionalità. Tra coetanei si troveranno a contestare il vecchio assumendo il nuovo come conquista. Sarà forse compito e opportunità delle generazioni a seguire poter connettere passato e futuro e che quindi la catena migratoria si sia compiutamente sviluppata per comprendere ritmi di adattamento e di conflitto. Sembra che la dimensione dello “star seduto fra due sedie” (come dice Amilcar Ciola), non sia solo un fenomeno contingente e transitorio per i senegalesi toscani, ma sia destinato ad assumere dimensioni più ampie.<br />Mi sembra che l’evento migratorio di questi nuclei familiari “agita il tema relazionale per eccellenza vale a dire separare-connettere, distanziare-unificare” e mi domando: “può avere un senso all’interno delle due famiglie senegalesi immigrate, parlare del processo di appartenenza-separazione come ricerca della propria identità, come ricerca della propria autonomia, individualità?”<br />Nel caso delle famiglie immigrate in Toscana definirei il processo appartenenza-separazione e concludo <b>“tra la ricerca di un ruolo nel mondo e la ricerca di un ruolo nella propria famiglia”. </b></span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"> </p> <p align="center" style="font-family:arial;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdRlTtt1_74aMi4O8escJ1z6I8EP0cFzP6m9fAbYtxOBIlvmDPPCLt-zOLMjfXU6yelSKE2Aytcpv4u38nxgu7gEMgJY7s9hiar3gPsh7T6AOgefNmT-njVk7pnQPONGF3xiQ9KTVdbRE/s1600-h/21-4.jpg"><img style="margin: 0px auto 10px; display: block; text-align: center; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdRlTtt1_74aMi4O8escJ1z6I8EP0cFzP6m9fAbYtxOBIlvmDPPCLt-zOLMjfXU6yelSKE2Aytcpv4u38nxgu7gEMgJY7s9hiar3gPsh7T6AOgefNmT-njVk7pnQPONGF3xiQ9KTVdbRE/s320/21-4.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050728363764149122" border="0" /></a></p> <p face="arial" align="center"><span style="font-size:100%;"><b>D.S.S.V.F. fatto da una famiglia senegalese<br />che vive a Bientina da sei anni</b></span></p> <p style="font-family: arial;" align="center"> </p> <p style="font-weight: bold;font-family:arial;" align="left"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p> <ul style="font-family:arial;"> <li><span style="font-size:100%;">A.Bara Diop: “La société wolof”, Karthala,1981.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">F.Walsh (a cura di): “Ciclo vitale e dinamiche familiari”, Franco Angeli, Milano, 1995.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">R.Fox: “Le parentele e il matrimonio”, Officina edizioni, Roma, 1973.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">S.Minuchin: “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Rivista “Terapia della famiglia”, n°6, 1979.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Rivista “Terapia della famiglia” n°19, 1985.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">G.Arrighi,L.Passerini: “La politica della parentela: analisi situazionali di società africane in transizione”, Feltrinelli, Milano 1991.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">C.Celati: “Avventure in Africa”, Feltrinelli, Milano 1998. </span></li> </ul> <p style="font-family: arial;" align="center"> </p>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-43949785617032566912007-04-06T22:18:00.001+01:002008-12-09T00:02:29.453+01:00L’UTILIZZAZIONE DEL’LAUSANNE TRIADIC PLAY CON I BAMBINI IN MEDIAZIONE FAMILIARE<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgycCkbQOMtv74M2dzRvggEi_tzIkZaZok0_2XhwD7yUJYG0KNkqZ2ZZewdExxWU7gUf_O9vF9jBpMN5JLUZ7o3C9JKw3uA9bCWwMs5osHKwbZypKB2_jpUDbdUN9zKqnT4tXDzscfBGQ/s1600-h/22.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgycCkbQOMtv74M2dzRvggEi_tzIkZaZok0_2XhwD7yUJYG0KNkqZ2ZZewdExxWU7gUf_O9vF9jBpMN5JLUZ7o3C9JKw3uA9bCWwMs5osHKwbZypKB2_jpUDbdUN9zKqnT4tXDzscfBGQ/s320/22.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050738164879518674" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Elena Gargano</span><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Socio in formazione A.I.M.S. Istituto di Terapia Familiare<br />di Firenze</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Figli e Separazione</b><br />L’evento della separazione coniugale determina una disgregazione della famiglia che priva i figli di quell’unione familiare che rappresenta per loro, fin dai primi anni, il punto di riferimento per un corretto sviluppo psico-fisico (Dell’Antonio, Vincenzi Amato 1992). La separazione può rappresentare, pertanto, un evento doloroso per i figli ed un rischio per la loro salute psichica (Candelori, Tambelli, Zampino De Vincenti 1987).<br />Per tale motivo, l’aumento del numero delle separazioni e dei divorzi ha portato ad una sempre maggiore attenzione al fenomeno, con un aumento delle ricerche che si sono concentrate sugli effetti che tale evento può determinare sui figli di genitori separati e su quali siano le variabili che amplificano tali effetti. Tali studi si sono andati modificando nel corso del tempo ponendo al centro della loro attenzione variabili diverse (Cigoli 1998).<br />In un primo momento gli studi sui “figli del divorzio” vedevano nella separazione ed in particolare nella modificazione strutturale della famiglia, la causa diretta di disturbi psicopatologici e comportamentali sui figli. Le ricerche attribuivano soprattutto al passaggio dalla “bigenitorialità alla monogenitorialità”, per l’allontanamento o l’assenza di una figura genitoriale, generalmente il padre, la causa del disadattamento sociale, psicosessuale, scolastico e dei problemi comportamentali dei figli (McDermott 1970).<br />Dopo gli anni ‘70 i ricercatori cominciarono a mettere in discussione la concezione del divorzio come evento unitario e con effetti uniformi sui figli e constatarono l’influenza di molteplici fattori. Si cominciò così a riconoscere la complessità della separazione fino a parlare di divorzio come “processo psicosociale multidimensionale” (Cigoli 1998), in cui i fattori determinanti sono costituiti da un insieme di elementi di diversa origine:<br />- strutturali (età, sesso, aspetti socioeconomici);<br />- relazionali (interazioni, schemi di comportamento e di funzionamento familiare, intra e intergenerazionale);<br />- contestuali (extrafamiliari).<br />Effetti sui figli pertanto non come conseguenza diretta dell’evento separazione ma come prodotto di un insieme di eventi, sociali, economici, legali, psicologici e di relazione che si protraggono nel tempo e che possono andare ad amplificare lo stress legato alla separazione.<br />In particolare, le recenti ricerche (Emery 1994) evidenziano tra i maggiori rischi per i minori l’esser coinvolti nelle battaglie dei loro genitori, con “triangolazioni” in cui i bambini sono oggetto di contesa e spesso si trovano costretti a “coalizzarsi” con un genitore nella lotta contro l’altro, con sensi di colpa e conflitti di lealtà che possono minacciare il sano sviluppo del bambino.<br />La percezione da parte del figlio di “essere in mezzo” nella conflittualità dei suoi genitori (Buchanan, Maccoby, Dorbusch 1991), va ad incidere sui suoi comportamenti ed emozioni e determina in lui delle rappresentazioni cognitive e affettive che si riflettono sul suo sviluppo, con ripercussioni anche a lungo termine.<br />Risulta pertanto necessario, per ridurre gli effetti della separazione sui figli, rendere consapevoli i genitori della necessità di evitare che il conflitto coniugale invada l’area genitoriale (Emery 1994), così da evitare che i figli diventino l’arma utilizzata nelle battaglie contro l’ex partner, nella consapevolezza che se il ruolo di marito o di moglie cessa con il divorzio, quello di genitore non avrà mai fine. Quindi sarebbe necessario che gli ex coniugi si impegnassero insieme, cooperando, nella gestione di questo eterno bene comune rappresentato dai figli, passando da una posizione di conflitto sul figlio ad una di collaborazione (Gulotta, Santi 1988).</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Figli e Mediazione Familiare</b><br />Un procedimento in grado di aiutare la coppia ad affrontare la separazione, promuovendo la cooperazione e non la competizione, nell’interesse dei figli, è rappresentato dalla Mediazione Familiare (Ardone, Mazzoni 1994; 1998; Ardone 1999; Babu 1998; 1999).<br />Questo procedimento si propone, tramite la guida del mediatore, la riorganizzazione, resa necessaria dalla separazione, del sistema familiare (APMF 1990).<br />A tal fine il mediatore aiuta la coppia a sviluppare una maggior capacità di ascolto (Cigoli 1998), ristabilendo tra i due partner la comunicazione, interrotta o disturbata dal loro conflitto, così da costruire un clima di fiducia e un contesto collaborativo in cui sia possibile il raggiungimento di un accordo comune nell’interesse di tutti i membri della famiglia e dei figli in particolare.<br />Essendo questi ultimi oggetti privilegiati dell’azione dei mediatori e delle decisioni che i genitori assumono in mediazione, alcuni modelli di mediazione prevedono una loro partecipazione diretta nel procedimento.<br />Tale opportunità ha dato però origine ad un dibattito tra coloro che evidenziano i rischi e le difficoltà di questa inclusione (Bernardini 1994; Bernardini, Scaparro 1994) e coloro che viceversa enfatizzano i vantaggi che la partecipazione dei figli può apportare (Saposnek 1983; Drapkin, Bienfeld 1985; Kaslow 1984).<br />Alcuni autori (Bernardini 1994; Bernardini, Scaparro 1994; Busellato 1999), escludono i bambini dal procedimento, convinti che la loro partecipazione rappresenti una delega ai figli della responsabilità delle decisioni.<br />I promotori (Malagoli Togliatti 1996; 1998; Ardone 1999) controbattono, affermando che includere il bambino nel processo non significa attribuirgli il potere decisionale, che permane nelle mani dei suoi genitori, ma rappresenta un metodo proprio per aiutare questi ultimi a ritrovare le loro capacità genitoriali, ridotte con la separazione. Infatti il mediatore utilizza ciò che ha osservato nell’incontro con il bambino da solo o con i suoi genitori per aiutare la coppia a capire i bisogni effettivi del loro figlio, così da portarli a cooperare per trovare un’intesa che tuteli l’interesse del minore, il quale, generalmente non partecipa nella fase del raggiungimento degli accordi e anche qualora fosse presente non è a lui che spettano le decisioni ma ai suoi genitori (Drapkin, Bienfeld 1985; Buzzi 1997).<br />Inoltre coloro che evidenziano le difficoltà ed i rischi dell’inclusione del minore, scelgono di escluderlo credendo così di proteggerlo dal conflitto coniugale (Bernardini 1994).<br />Ma escludere i bambini dalle sedute di mediazione, significa veramente non coinvolgerli nel conflitto dei genitori?<br />In realtà le triangolazioni e le strumentalizzazioni dei figli non avvengono durante le sedute ma nella vita familiare quotidiana, quindi escluderli non li protegge dalla conflittualità coniugale, anzi la loro partecipazione può essere proprio un modo per ridurre i contrasti (Malagoli Togliatti 1996; 1998a; 1998b; Ardone 1999).<br />Infatti, essendo i figli agenti attivi nella costruzione dei legami tra i vari membri della famiglia e “antenne” potentissime nel captare i segnali di cambiamento nella vita familiare, possono divenire, all’interno della mediazione, un utile “strumento” nelle mani dei mediatori per focalizzare meglio le alleanze e le manovre che legano reciprocamente i membri della famiglia separata nel conflitto distruttivo (Ardone, Mazzoni 1998), così da aiutare la coppia a, riorganizzare le loro relazioni, mantenere l’attenzione sul loro ruolo genitoriale e fargli vedere i bisogni effettivi di quel bambino e non limitarsi agli aspetti globali e generali dei bisogni di tutti i bambini in situazione di divorzio, così da raggiungere un accordo nell’interesse di tutti (Buzzi 1992).<br />La mediazione diventa, inoltre, per il bambino uno “spazio protetto” (Ardone 1993; Ardone 1999; Ardone, Mazzoni 1998; Malagoli Togliatti 1996; 1998a; 1998b) dove ha la possibilità di esprimere i suoi bisogni, le sue paure e sentirsi ascoltato e non escluso dal processo, confermando le sue convinzioni di non essere capito o di non essere importante o “esterno” alla storia della sua famiglia.<br />Infatti molto spesso i figli nella separazione dei genitori ricevono informazioni confuse o contraddittorie dai loro genitori o vengono lasciati nel silenzio, da soli ad affrontare questo evento, con adulti, genitori, avvocati, giudici, che parlano per loro, interpretando i loro bisogni (Vadilonga 1996).<br />La mediazione permette pertanto al bambino l’acquisizione più corretta delle informazioni su ciò che sta accadendo in famiglia e può rappresentare una possibilità per “dar voce” ai suoi bisogni, alle sue necessità ed ai suoi desideri, riconoscendogli il ruolo di soggetto attivo nelle dinamiche familiari, con la possibilità di esplicare quei diritti di ascolto e di partecipazione sanciti dalle Convenzioni Internazionali (art. 12 della Convenzione ONU del 1989).<br />Alcuni autori (Saposnek 1983; Malagoli Togliatti, Ardone 1993) evidenziano l’importanza di partecipare al procedimento soprattutto per i figli adolescenti, in quanto il mediatore rappresenta una figura con cui l’adolescente si può confrontare e la mediazione può diventare uno spazio per la sua individuazione, esprimendo i suoi bisogni di autodeterminazione, data l’importanza in questa fase di sviluppo di sentirsi persona autonoma e con un ruolo attivo nella propria vita.<br />La partecipazione dei figli alle sedute di mediazione familiare quindi, oltre a rappresentare uno spazio che protegge e “da voce” ad un fanciullo spesso lasciato solo e disinformato su ciò che sta accadendo nel suo ambiente familiare, rappresenta anche un’opportunità per il mediatore di comprendere come quella famiglia stia vivendo e reagendo all’evento della separazione, così da adoperarsi per aiutare la coppia a ristrutturare e riorganizzare la vita di tutto il sistema familiare, in base ai bisogni e alle necessità di ogni individuo e dei figli in particolare. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>I bambini in mediazione con il “Lausanne Triadic Play”</b><br /><br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"> <table align="left" border="0" cellpadding="10" cellspacing="0" width="230"> <tbody><tr> <td><div align="right"><span style="font-size:100%;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUmVL4cqH_E6MvmwFonQ41R6Y-euihyphenhyphenwpBJCxa_K0v8PsnVA_teAc5yb8lKCxuEBJqnBx_CqgbtPD9I7sz8vhKs_cWgWiFIYnBVHgqJ2Jg5IUy5RIskogn5P2JXf_jQE3GcLFQuyga2x4/s1600-h/22-1.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUmVL4cqH_E6MvmwFonQ41R6Y-euihyphenhyphenwpBJCxa_K0v8PsnVA_teAc5yb8lKCxuEBJqnBx_CqgbtPD9I7sz8vhKs_cWgWiFIYnBVHgqJ2Jg5IUy5RIskogn5P2JXf_jQE3GcLFQuyga2x4/s320/22-1.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050737241461549970" border="0" /></a></span></div></td> </tr> <tr> <td><span style="font-size:100%;"><b>Fig. 1 - Interazione Modello Fivaz </b></span></td> </tr> </tbody></table><span style="font-size:100%;">La maggior parte dei mediatori familiari facenti parte dell’AIMS (Associazione Internazionale Mediatori Sistemici) risulta a favore dell’inclusione dei figli nel procedimento di mediazione, ritenendo che la partecipazione dei bambini sia un modo, sia per dar voce ai figli, membri attivi e partecipi della vita familiare, sia per aiutare i genitori, coinvolti nelle loro problematiche coniugali, a “vedere” i bisogni effettivi dei loro figli, riuscendo a distinguerli dai propri, spesso difficile nel corso della separazione.<br /></span></div><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">L’ascolto dei bambini in mediazione avviene privilegiando l’uso di tecniche simboliche con osservazione di comportamenti non verbali e delle interazioni familiari evidenziabili dalla videoregistrazione di situazioni di gioco o di disegno, in quanto la comunicazione verbale può essere più facilmente manipolabile ed utilizzabile nella conflittualità genitoriale.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Tra queste tecniche, oggetto di questo lavoro, è l’uso in mediazione, introdotto dai mediatori familiari dell’Istituto di Terapia Familiare di Siena, con i bambini sotto i sei anni, del “Lausanne Triadic Play” (LTP), che consiste in un “gioco familiare” che si sussegue con regole precise, utilizzato a Losanna negli anni ’80 (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery 2000) nello studio delle relazioni familiari nella prima infanzia. Con questa tecnica le autrici superano l’unità di osservazione diadica madre-figlio, fino ad allora presa in esame, verso quella triadica madre-padre-figlio, per osservare l’ambiente in cui il bambino cresce e valutare la famiglia come insieme e cercare l’esistenza di un legame tra lo sviluppo normale o psicopatologico del bambino ed i modelli relazionali familiari.</span> </p><span style="font-size:100%;"><br /><br /><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Il gioco si svolge secondo un preciso schema (fig. 1):<br /><b>A </b>un genitore gioca con il bambino e l’altro sta in disparte<br />(configurazione “2 + 1”);<br /><b>B</b> i genitori si scambiano i ruoli<br />(configurazione “2 + 1”);<br /><b>C</b> i genitori interagiscono insieme con il figlio<br />(configurazione “a 3”);<br /><b>D</b> i genitori parlano tra loro senza coinvolgere il figlio<br />(configurazione “2 + 1”).</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Lo scopo dell’osservazione di questa situazione di gioco era quello di valutare come quella famiglia interagisce nello svolgimento di un compito, evidenziando “alleanze” funzionali o disfunzionali a seconda della possibilità o meno di cooperare tra i vari membri. La valutazione del processo familiare, funzionale o meno, definito dalla Fivaz il framework (o cornice di lavoro) e delle alleanze familiari avviene attraverso l’osservazione di alcune funzioni:<br />- partecipazione (partecipano tutti?);<br />- organizzazione (sono tutti nel loro ruolo?);<br />- attenzione focale (prestano tutti attenzione al gioco?);<br />- contatto affettivo (c’è empatia?).<br /></span></p><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhV_pVDALqsTalRQQJHkjSSUe1QY8ioTa6UdTfMPQUqvbRIHiBFvTeebWKruKjdRjGZ5Cewsnr0rVXu2GCyXRmXPXy3XKwkaFIL9YRjnx81dVWz7zCbwg5pWQz5KlHSJDyVZ93fZqVEhAQ/s1600-h/22-2.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 664px; height: 201px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhV_pVDALqsTalRQQJHkjSSUe1QY8ioTa6UdTfMPQUqvbRIHiBFvTeebWKruKjdRjGZ5Cewsnr0rVXu2GCyXRmXPXy3XKwkaFIL9YRjnx81dVWz7zCbwg5pWQz5KlHSJDyVZ93fZqVEhAQ/s320/22-2.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050737241461549986" border="0" /></a></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><b><br /></b></span></p><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><b><br /></b></span></p><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><b><br /></b></span></p><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><b>Fig. 2a - Valutazione del framework nell’LTP (Basi strutturali) (da Fivaz Depeursinge, Corboz Warnery 2000)</b></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br />Oltre a queste funzioni, che rappresentano le basi strutturali delle alleanze familiari (fig. 2a), è importante osservare i momenti di transizione da una fase all’altra e soprattutto il passaggio dalla configurazione “2+1”, in cui uno dei genitori gioca con il bambino e l’altro è solo presente, a quella “a 3”,in cui entrambi i genitori interagiscono con il minore.<br />Tale transizione, che rappresenta le basi dinamiche delle alleanze familiari (fig. 2b), è importante perché richiede una buona coordinazione tra i partner e avviene con un “preannuncio” e un “annuncio” di un partner, sia a gesti che a parole e la “ratifica” con l’altro, come fasi preparatorie della transizione, a cui segue la “decostruzione” della fase “2+1” e la “ricostruzione” della fase “a 3”.<br /><br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="text-align: center; font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSB8Fra3ixAQ_htJXrqDysC0zvDASUA-dU32HQmq0NUPoyi8RdKxfcmqghqxmJsJEQH7g_rT0f8UnmgnD17_7a_VLB528EWloVljPuIHIb8n7zksZGuL3duZ9mMdzHzcBPM17tGvMJ-2o/s1600-h/22-3.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSB8Fra3ixAQ_htJXrqDysC0zvDASUA-dU32HQmq0NUPoyi8RdKxfcmqghqxmJsJEQH7g_rT0f8UnmgnD17_7a_VLB528EWloVljPuIHIb8n7zksZGuL3duZ9mMdzHzcBPM17tGvMJ-2o/s320/22-3.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050737241461550002" border="0" /></a></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><b><br /></b></span></p><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><b>Fig. 2b - Coordinazioni e riparazioni nelle transizioni fra le diverse configurazioni dell’LTP (Basi dinamiche)<br />(da Fivaz Depeursinge, Corboz Warnery 2000)</b><br /><br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">All’interno di questo passaggio però possono aversi delle coordinazioni errate, in quanto un movimento di un partner non è percepito dall’altro come segno di transizione e quindi non trova una risposta. In tal caso possono attivarsi delle “riparazioni” per raggiungere ugualmente lo scopo che è l’inizio della fase “a 3”. I vari tipi di riparazioni messe in atto, sono un ulteriore segno del tipo alleanze e quindi aiutano a fare una valutazione del funzionamento familiare (fig. 2c).<br /><br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="center"> <table border="1" border cellpadding="3" cellspacing="0" width="100%" style="color:#cccccc;"> <tbody><tr> <td colspan="2"><span style="font-size:100%;"><b>Tipologie di riparazione:</b></span></td> </tr> <tr> <td width="50%"><span style="font-size:100%;">Riparazione sollecita</span></td> <td width="50%"><span style="font-size:100%;">Alleanze cooperative</span></td> </tr> <tr> <td height="21" width="50%"><span style="font-size:100%;">Riparazione dispendiosa</span></td> <td height="21" width="50%"><span style="font-size:100%;">Alleanze in tensione</span></td> </tr> <tr> <td width="50%"><span style="font-size:100%;">Riparazione peggiorativa/elusiva</span></td> <td width="50%"><span style="font-size:100%;">Alleanze collusive</span></td> </tr> <tr> <td width="50%"><span style="font-size:100%;">Riparazione assurda</span></td> <td width="50%"><span style="font-size:100%;">Alleanze disturbate</span></td> </tr> </tbody></table><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><b>Fig. 2c - Tipologie di riparazioni e relative alleanze familiari (da Fivaz Depeursinge, Corboz Warnery 2000)</b></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="center"><span style="font-size:100%;"><br />A tal fine, riprendendo la Fivaz, la seguente griglia, mostra in sintesi, tutti gli elementi di cui le autrici tengono conto nell’osservazione del gioco per giungere ad una valutazione delle alleanze familiari (fig. 3).<br /><br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"> <table align="center" border="0" cellpadding="1" cellspacing="0" width="100%"> <tbody><tr> <td bg style="color:#000000;"><p align="center"><span style="font-size:100%;color:#ffffff;"><b>Fig. 3 - Griglia per l’osservazione dell’interazione secondo LTP (Lausanne Triadic Play)<br /> (da Fivaz Depeursinge, Corboz Warnery 2000)</b></span></p> <table bg border="0" cellpadding="3" cellspacing="0" width="100%" style="color:#ffffff;"> <tbody><tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><b>Funzioni</b></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><b>Le alleanze familiari</b></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><b>La partecipazione:</b></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">partecipano tutti?</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">chi esclude chi?</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">modalità di partecipazione</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><b>Alleanze disturbata </b></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">eventuali invita all’altro a<br /> partecipare </span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><b>Organizzazione:</b></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">ognuno ha un ruolo?</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">rispetto dei ruoli</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><b>Alleanze collusive</b></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">la tenuta del ruolo genitoriale</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;"><br /> ruolo dei figli</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><b>L’attenzione:</b></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">livello di attenzione</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><b>Alleanze in tensione</b></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">ascolto dell’altro</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><b>Contatto affettivo:</b></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">empatia</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">condivisione</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><b><br /> Alleanze cooperative</b></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">arousal empatico</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td width="19%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> <td width="47%"><span style="font-size:100%;">intimità emotiva</span></td> <td width="34%"><span style="font-size:100%;"><br /></span></td> </tr> <tr> <td colspan="3"><div align="center"><span style="font-size:100%;"><br /></span></div></td> </tr> <tr> <td colspan="3"><table border="1" border cellpadding="3" cellspacing="0" width="100%" style="color:#cccccc;"> <tbody><tr> <td colspan="2"><span style="font-size:100%;"><b>Tipologie di riparazione:</b></span></td> </tr> <tr> <td width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Riparazione sollecita</span></div></td> <td width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Alleanze cooperative</span></div></td> </tr> <tr> <td height="21" width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Riparazione dispendiosa</span></div></td> <td height="21" width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Alleanze in tensione</span></div></td> </tr> <tr> <td width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Riparazione peggiorativa/elusiva</span></div></td> <td width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Alleanze collusive</span></div></td> </tr> <tr> <td width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Riparazione assurda</span></div></td> <td width="50%"><div align="left"><span style="font-size:100%;">Alleanze disturbate</span></div></td> </tr> </tbody></table></td> </tr> </tbody></table></td> </tr> </tbody></table><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br />Questo gioco, nella sua semplicità, può essere utilizzato in mediazione in quanto può rappresentare una metafora della separazione, evidenziando nelle varie fasi come i membri familiari si separano e come vengono gestite queste separazioni. Durante la prima fase ad esempio, un genitore si trova a dover accettare di essere presente ma non coinvolto direttamente nell’interazione con il bambino e questo può far trasparire l’ansia e l’emotività legate allo “stare fuori dalla relazione e non intervenire”; nella seconda fase dove i genitori devono scambiarsi il ruolo possono subentrare dilemmi su entrare o non entrare nel gioco o se permettere all’altro di entrare o non entrare; nella terza fase, soprattutto nei casi di alta conflittualità, dove la sintonia a tre non è più parte della vita quotidiana si può evidenziare una grossa difficoltà a dare inizio a un’interazione dove tutti collaborano; infine nella quarta fase spesso imbarazzo dei due partner che non sono più abituati a comunicare e a coordinarsi tra loro, con i figli in disparte ma pronti ad intervenire con comportamenti o richieste di aiuto nel caso i toni di voce dei genitori si facessero minimamente più alti, evidenziando quindi il ruolo attivo e partecipe del bambino, non solo in questa fase ma lungo tutto il corso del gioco.<br />In particolare quindi LTP in mediazione può aiutare a evidenziare:<br />- come ogni membro permette l’accesso all’altro;<br />- come il bambino interagisce con entrambi i genitori;<br />- come i genitori si organizzano tra loro due nel passaggio da una fase all’altra e quindi come affrontano insieme il disequilibrio che si crea nel bambino in questi passaggi.<br />In mediazione questa tecnica però, a differenza di quanto avviene in ambito terapeutico o di consulenza, pur aiutando il mediatore a comprendere i modelli di relazione familiare non viene utilizzato dal mediatore per fare una valutazione del processo di funzionamento familiare da svelare alla coppia ma, essendo la mediazione un intervento che tende a restituire alla coppia il ruolo attivo e di responsabilizzazione nella ristrutturazione della loro vita, lascia alla coppia stessa l’analisi delle modalità di interazione familiare. Ciò avviene in una fase successiva a quella del gioco vero e proprio in cui il mediatore, da solo con i genitori, chiede a questi ultimi di esprimere il loro vissuto nell’esperienza di gioco, come hanno visto i loro ruoli genitoriali ma soprattutto il bambino durante queste interazioni. In questa fase i mediatori possono servirsi anche dell’uso dell’immagine videoregistrata delle situazioni di gioco, mostrando alla coppia le varie fasi e chiedendo loro di esprimersi al riguardo.<br />Questa tecnica può aiutare la coppia a riflettere sulle loro difficoltà, ma anche sulle loro risorse, focalizzando la loro attenzione sul loro figlio e sulle sue necessità ed essendo questo ultimo oggetto comune di interesse facilita la creazione di un clima collaborativo e il raggiungimento dell’accordo.<br />L’utilizzo di questa tecnica con i bambini in mediazione è frutto di una recente esperienza dei mediatori dell’ITF di Siena i cui esiti richiedono pertanto una prolungata attuazione nel tempo per essere valutati, ma che penso possa essere spunto di riflessione per coloro che operano nel settore.<br /><br /></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial; font-weight: bold;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span><ul style="font-family: arial;"> <li><span style="font-size:100%;">APMF (Association pour la Promotion de la Médiation Familiale) (1990) “Médiation Familiale en matiére de divorce et de séparation” Code de Déontologique. 1° Congrès Européen “La Médiation Familiale” - Caen 29-30/11 e 01/12/1990</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Ardone R. (1993) “La riorganizzazione dei rapporti genitoriali dopo la separazione” in De Leo G., Dell’Antonio A.M “Nuovi</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Ambiti legislativi e di Ricerca per la Tutela dei Minori” - Ed. Giuffrè, Milano</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Ardone R. (1999) “Nuove metodologie di aiuto alla famiglia in crisi: la mediazione familiare” in Marzotto C., Telleschi R. (a cura di) “Comporre il conflitto genitoriale. La mediazione familiare: metodo e strumenti” - Ed. Unicopli, Milano </span></li> <li><span style="font-size:100%;">Ardone R., Mazzoni S. (1994) (a cura di) “La Mediazione Familiare. Per una regolazione della conflittualità nella separazione e nel divorzio” - Ed. Giuffrè, Milano</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Ardone R., Mazzoni S. 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(1997) “Garantire l’affetto dei genitori” in “Famiglia Oggi” n. 11, pp. 22-27</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Candelori C., Tambelli R., Zampino De Vincenti F. (1987) “Problematiche connesse allo sviluppo psichico del bambino in situazioni di contesa genitoriale” in Dell’Antonio A.M., De Leo G. (a cura di) “Il bambino, l’adolescente e la legge” - Ed. Giuffrè, Milano </span></li> <li><span style="font-size:100%;">Cigoli V. (1998) “Psicologia della Separazione e del Divorzio” - Il Mulino, Bologna</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Dell’Antonio A.M., Vincenzi Amato D. (1992) “L’affidamento dei minori nelle separazioni giudiziali” - Ed. Giuffrè, Milano</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Drapkin R., Bienfeld F. (1985) “The Power of including children in mediation” in “Journal of Divorce” n. 8, 3/4 pp. 63-95</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Emery R. E. (1994) “Renegotiating Family Relationships” - Guilford Press, New York; trad. it. “Il Divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari” - Franco Angeli Editore, Milano 1998 </span></li> <li><span style="font-size:100%;">Fivaz Depeursinge E., Corboz Warnery A. (2000) “Il Triangolo Primario” – Raffaello Cortina, Milano</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Gulotta G., Santi G. (1988) “Dal conflitto al consenso” - Giuffrè Editore, Milano</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Kaslow F.W. (1984) “Divorce Mediation and its emotional impact on the couple and their children” in “The American Journal of Family Therapy” vol. 12 (3), pp. 58-66</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Malagoli Togliatti M. (1996) “La Mediazione familiare e altri metodi di aiuto alla coppia in crisi” in “Servizi Sociali” Anno XXIII n. 5/6, pp. 96-111</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Malagoli Togliatti M. 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(1980) “Surving the Breakup: How Children and Parents Cope with Divorce” - New York Basic Books</span></li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ul><span style="font-size:100%;"><br /></span><p style="font-family: arial;" align="justify"> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-7555311884218360442007-04-06T22:18:00.002+01:002008-12-09T00:02:28.845+01:00MEDIAZIONE FAMILIARE E AFFIDO EDUCATIVO - UN’ESPERIENZA IN AMBITO INTERCULTURALE<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYLefeq6vTPJE4P6KPDN5DEbC7TkTraHKGK6ALbBKLDuUPOg3_A4t1385b4AxavP82ZFFzOTAXlA1A3QlZytFIW8enP1I54SH8DMq3GE0qSKk5tfIvjZ6xbv8CyRri4qaGyVg6GHciH34/s1600-h/23.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYLefeq6vTPJE4P6KPDN5DEbC7TkTraHKGK6ALbBKLDuUPOg3_A4t1385b4AxavP82ZFFzOTAXlA1A3QlZytFIW8enP1I54SH8DMq3GE0qSKk5tfIvjZ6xbv8CyRri4qaGyVg6GHciH34/s320/23.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050748588765146082" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Alessandra Salata</span></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><div style="text-align: left;"> </div><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socio ordinario A.I.M.S. Logos, Genova</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><i><br /></i></span></p><p><span style="font-size:100%;"><i><br /></i></span></p><p><span style="font-size:100%;"><i>Quando non ero che rumore,<br /> voi foste orecchio<br /> E divenni parola<br /> G. Dubreuiln</i></span></p> </div><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Mediazione familiare e affido educativo, un’esperienza in ambito interculturale</b><br />Vorrei portare qui il racconto della mia esperienza di educatrice affidataria formata alla mediazione familiare relazionale sistemica. Scopo fondamentale della testimonianza è offrire uno stimolo di riflessione su un ambito particolare di applicazione della mediazione familiare, o meglio delle funzioni di mediazione. L’educatore affidatario lavora presso il domicilio della famiglia su incarico del Distretto sociale, con obiettivi, generalmente, di sostegno a minori in difficoltà. L’intervento può essere richiesto dalla famiglia come aiuto nello svolgimento delle sue funzioni o deciso dal Distretto su segnalazione del Tribunale o, spesso, della scuola dove si evidenzia più frequentemente il disagio dei minori. Parlo di funzioni di mediazione dunque perché l’intervento non ha le caratteristiche di autonomia rispetto al contesto istituzionale cui ho accennato, né una funzione specifica di intervento sui conflitti familiari legati al processo di separazione. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Premessa</b><br />La famiglia (tutti i nomi sono di fantasia) con cui ho lavorato è così composta: il padre, Mohamed, egiziano, ha circa 40 anni ed è musulmano osservante. La madre, Gina, 44 anni, è di origine calabrese, cattolica. I figli, Abdullah e Josef, nati rispettivamente nell’‘84 e ‘86 in Egitto, nella stessa cittadina del padre, sono iscritti, all’inizio del mio incarico, alla terza media e alla prima superiore. I coniugi sono separati di fatto, da circa tre anni, non avendo mai raggiunto accordi di separazione per via legale. Conosciutisi in Italia alla fine degli anni ‘70, si sposano dopo circa tre anni di “amicizia”. I conflitti esplodono subito, “dal primo giorno”, racconta Mohamed. Dall’82 all’84, quando nasce Abdullah, la coppia viaggia, tra l’Italia e il nord Africa, alla ricerca di una sistemazione economica (un lavoro). Con la nascita del bimbo i coniugi si sistemano presso i nonni paterni, in Egitto. Qui nasce anche il secondogenito e subito dopo partono per l’Italia, lasciando i bambini ai nonni. Due anni più tardi il nucleo si ricongiunge in Italia, in Liguria dove Mohamed ha avviato un’attività col fratello. I conflitti continuano violenti, i bambini trascorreranno alcuni periodi in collegio da interni prima e poi semi convittori. Nel ‘94 Gina tenta di dar fuoco al marito. Il fatto va sui giornali, interviene il Tribunale dei minori che infine decide l’affidamento al padre. Nel ‘96 padre e figli partono per l’Egitto. Gina pare estromessa dal nucleo e dalle funzioni genitoriali. Mohamed racconta che “non voleva occuparsi dei figli”. In Egitto i due ragazzi restano soli, in un collegio, mentre il padre è impegnato, distante chilometri, in un attività con il fratello. Nel ‘98 muore la nonna paterna; i tre rientrano in Italia perché racconta Mohamed, i ragazzi chiedono di vedere la mamma, con cui non hanno più contatti da due anni.<br />Il padre chiede all’assistente sociale un aiuto per i figli, poco prima del loro rientro in Italia. La domanda è di sostegno scolastico. Il Distretto Sociale accoglie la richiesta sulla base essenzialmente di tutta la vicenda pregressa del nucleo, già conosciuto ai Servizi sociali e al Tribunale dei Minori per la lunga storia di conflitti brevemente descritta (con forti ricadute sul benessere dei figli: ripetute segnalazioni dalla scuola per il disagio manifestato dai bambini, scarso rendimento scolastico, agitazione, passività, assenza dei genitori, in particolare della madre dalla vita scolastica dei figli ecc).<br />Il Tribunale aveva archiviato il caso, chiedendo ai Servizi sociali di comunicare l’eventuale rientro dei ragazzi. Dunque la richiesta del padre determina una riapertura dei fascicoli, e un intervento che si riconnette alla vicenda drammatica del nucleo.<br />Da una analisi della domanda che tenga conto della complessità del sistema in cui è formulata e dei bisogni sottostanti, emergono i seguenti punti:</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><ol style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Richiesta autonoma di aiuto da parte del padre, solo </span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Risposta del Servizio in termini di sostegno alle abilità cognitivo relazionali dei ragazzi, in funzione di una buona integrazione scolastica, con la proposta di un educatore affidatario.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Funzione di controllo da parte dei servizi sociali, connessa alla presenza del Tribunale nella vicenda del nucleo</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Assenza della madre</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Bisogno dei figli di ricongiungersi alla madre (rivederla)</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Richiesta, da parte dei servizi, di un’educatrice donna che entri nel sistema familiare</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">storia pregressa di altissima conflittualità coniugale con intervento del Tribunale</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Vissuto abbandonico dei ragazzi culminato nei due anni ad Alessandria, come dato più recente di una storia complessiva di disagio denunciato dalla scuola elementare e dalle comunità alloggio in cui i bambini hanno vissuto per alcuni periodi della loro storia.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ol><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>L’intervento educativo</b><br />L’intervento è deciso come segue: otto ore settimanali da suddividere in tre pomeriggi; l’obiettivo esplicitato e condiviso con il padre in sede di contratto (primo incontro) è di facilitare e sostenere l’integrazione dei due ragazzi nelle rispettive scuole, sia sul piano dell’apprendimento che su quello relazionale. La sede del mio intervento è il domicilio stesso del nucleo famigliare, dove frequentemente incontro anche il padre.<br />La prima fase dell’intervento educativo è caratterizzata dalla costruzione della mia relazione con Josef, Abdullah, attraverso il sostegno scolastico e con il padre attraverso colloqui in cui progressivamente porta il racconto della vicenda famigliare. Il rapporto tra padre e figli è connotato dalla forte autorità esercitata dal primo e dalla scarsità di dialogo; pare che Mohamed abbia stabilito un ordine e un patto incentrato sull’idea di dovere: il suo in quanto padre e quello dei figli (devono studiare è l’ingiunzione ricorrente e pressochè unica). Lavora e li mantiene, cucina, accudisce la casa, rivestendo perciò il ruolo lasciato vacante da Gina. Questo impegno del padre nell’accudimento ha inizio quando i tre rientrano in Italia, in coincidenza dunque con l’assunzione del mio incarico e la morte della nonna egiziana. Nel modo in cui Mohamed si prende cura dei figli c’è il ricordo di sua madre: racconta orgoglioso il piglio autoritario di quella donna che sapeva, da sola, tenere tutto sotto controllo: ma nell’efficienza di quell’ordine non circolavano carezze (nel racconto prende coscienza di come tanti suoi atti clamorosi da bambino e adolescente fossero altrettante richieste, alla madre, di conferme sul piano afettivo). Mi racconta che il profondo dolore per la perdita della madre lo ha avvicinato ai suoi figli, e al loro disagio per l’assenza di Gina. Nei colloqui ampliamo il contesto di indagine sul piano trigenerazionale e i significati trovano nuove connessioni utili sia alla comprensione del qui ed ora sia di aspetti della storia passata.<br />Nei primi sei mesi circa dell’intervento educativo, Gina continua ad essere assente (ma sappiamo che vive nella stessa città); lentamente trovo un modo per trattare il vuoto, con i ragazzi e con il padre. Accolgo il racconto che quest’ultimo mi offre della storia coniugale, tutto intriso di recriminazioni e svalutazione, e tento una sorta di presentificazione della moglie. Stimolo Mohamed ad assumere in qualche momento i panni della donna assente, quelli di madre, ma anche di figlia, a sua volta. Porto la sua attenzione sui figli, sul vuoto che in loro ha formato l’assenza di Gina. I ragazzi iniziano a parlare della madre quando si stabilisce tra noi un rapporto di fiducia ed alleanza. Il primo segno significativo della loro disponibilità a parlare della madre è l’album di foto che mi mostrano, spontaneamente. La maggior parte delle foto ritrae la madre con i figli piccoli.<br />Il tema dei bisogni dei figli diviene centrale nel dialogo tra me e il padre: egli assume, progressivamente un punto di vista meno rigido. Ne comprende meglio il vissuto, coglie con maggiore chiarezza i bisogni inespressi, i segni di disagio (frequentemente aggressività). Svolgo un ruolo che definirei di facilitatore del dialogo. Intervengo in situazioni di conflitto tra padre e figli, restituendolo nelle sue componenti anche di conflitto intergenerazionale (interventi di normalizzazione). Mohamed inizia a muoversi seguendo due obiettivi: facilitare l’accesso dei figli alla madre, tentando di isolare se non di eliminare la parte relativa al conflitto di coppia; intervenire su questo in vista di una soluzione (chiede al Servizio sociale di aiutarlo per ottenere la separazione legale).<br />Il piano della coppia e quello genitoriale si configurano progressivamente come sistemi separati; in questo modo è stato possibile diminuire le dinamiche di alleanza e triangolazione a danno dei figli (dinamiche che dal racconto pare abbiano punteggiato tutta la storia coniugale, fino all’estromissione di Gina con l’intervento del Tribunale. In assenza della donna quelle dinamiche hanno continuato a funzionare in termini di ricatto del padre nei confronti dei figli). L’assunzione del duplice ruolo, materno e paterno da parte di Mohamed si trasforma spesso nella dimostrazione ai figli dell’inettitudine di Gina (del suo abbandono, “non vi vuole” oppure “non è capace”). Assumere a tema ricorrente il disagio dei ragazzi, tra conflitto di lealtà e vuoto, e la fatica del padre, solo nell’impegno genitoriale, si è rivelato un modo efficace per richiamare in causa la madre, non più solo come causa di, ma come possibile risorsa. Lo stesso tema del bisogno dei figli si è dimostrato funzionale all’abbassamento del conflitto: portando l’attenzione di Mohamed su quel bisogno, ho stimolato in lui la rielaborazione e il progressivo abbandono dei temi più fortemente rivendicativi e accusatori. Così si è verificato una sorta di spostamento di significati. I figli, da testimonianza quotidiana di un fallimento (di coppia, esistenziale: “se non fosse per voi”) a vittime di quelle difficoltà. L’attenzione di Mohamed si è sensibilmente spostata e il timore di perdere i figli (timore legato a fatti specifici: fuga da casa, cattive compagnie, fallimento scolastico, svalutazione della figura paterna) si coniuga con una maggiore attenzione ai bisogni soggiacenti le loro azioni (in ciò è stata efficace la rilettura della sua storia di figlio, avvenuta anche nei colloqui con la psicologa del Distretto).<br />Dopo sei mesi dall’inizio del mio lavoro telefono a Gina per presentarmi e informarla sul lavoro di sostegno scolastico che faccio con i figli: mi pare importante che anche la “mamma “lo sappia. Parlo con lei delle difficoltà scolastiche dei ragazzi, Gina è diffidente all’inizio, poi inizia a parlare come una madre preoccupata per i figli, e pesca nella memoria episodi delle elementari. Dopo qualche giorno viene a trovare i figli. E’ l’occasione per riaccendere il conflitto coniugale. La visita ai figli diviene il pretesto per dare voce nuovamente ad antiche accuse e rivendicazioni. In casa c’è Mohamed; io non sono presente. Nel periodo che segue i ragazzi mostrano più chiaramente segni di malessere: dalla scuola arrivano segnali allarmanti, note per atteggiamenti aggressivi, plateale trasgressione delle regole, oltre ad un progressivo disimpegno. Aumenta anche la conflittualità tra i ragazzi e il padre e si affaccia la tendenza a citare la madre come figura idealizzata, vittima della stessa prepotenza che i ragazzi additano nel padre. In questo contesto si sono intensificati i colloqui tra me e Mohamed. Punto di partenza è sempre la scuola e il malessere che lì viene denunciato: ma i temi che si intrecciano a quello sono chiari e ricorrenti, trame di un ordito che produce senso e significati: l’assenza della madre, il desiderio dei figli di vederla, le paure di Mohamed e la sua rabbia; il sistema di valori che l’uomo ha interiorizzato: l’accesso dei figli alla madre pare bloccato dall’immagine che Mohamed ha della funzione materna (immagine idealizzata della madre egiziana che, mi racconta, è figlia di un Imam) e dalla sostanziale difficoltà a dissociare l’idea di madre da quella di moglie. Gina è continuamente accusata da Mohamed proprio perché incapace di adeguarsi a quel modello; permettere che ora i figli le riconoscano il ruolo gli appare una sconfitta (nella logica conflittuale che ha dominato la storia della coppia); Mohamed sembra chiedere ai figli (ma non solo, anche a me, e agli operatori dei Servizi Sociali), di essere riconosciuto come l’unico genitore giusto e degno di rispetto. Gina comunque è rientrata nelle dinamiche attuali del sistema familiare, telefona spesso ai ragazzi e loro parlano di lei. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Ancorare le questioni più fortemente conflittuali al qui e ora, scendere sul piano della co - genitorialità possibile colmando un vuoto disfunzionale per il benessere dei ragazzi, accogliere le richieste dei figli in un contesto di dialogo aperto il più possibile all’intero sistema (utilizzando perciò anche la presentificazione e il racconto di un là e allora in funzione della riconnessione di significato in termini trigenerazionali): questi in sostanza gli elementi concreti dell’intervento educativo nel nucleo familiare (il tutto attraverso i colloqui, l’ascolto attivo, il racconto); i modelli familiari interiorizzati perdono progressivamente il carattere assoluto; Mohamed sembra in effetti accedere ad un’idea meno rigida dei ruoli. Prende contatti con Gina, le chiede di collaborare per il bene dei figli; riduce la tentazione conflittuale mantenendo l’attenzione sul qui e ora della genitorialità. Mohamed lascia che Gina entri nella sua casa e resti sola con i figli. La ripresa delle relazioni è lenta e incerta, ma sicuramente significativa. Non si può più parlare di assenza tote corde, né di vuoto. In mancanza di accordi formali, tutto appare all’insegna della casualità, e della fragilità. Il fatto stesso che Gina faccia visita ai figli nella casa del padre, è un elemento di grande criticità, ma nel tempo verrà risolto.<br />Quando incontro Gina, in casa dei ragazzi,, la donna sfoga la rabbia nel racconto della sua vicenda coniugale: “me ne ha fatte di tutti i colori” è la formula sintetica e ricorrente del suo vissuto di moglie; altro tema ricorrente è l’allontanamento dei figli, frutto della cattiveria di Mohamed. Utilizzo tecniche di contenimento, verbali e non, in quanto lo sfogo è convulso. Porto l’attenzione di Gina sulla sua storia familiare, mi parla del padre “padrone” da cui è scappata a 20 anni, tagliando i ponti con tutta la famiglia. Le chiedo cosa pensa di Mohamed come padre, mi dice che lo apprezza, è bravo (“un bravo padre e un gran lavoratore”); su queste riflessioni si abbassa la rabbia. Riprende il tema conflittuale con le accuse di tradimento, ma la riconduco al qui e ora del mio ruolo (educatrice affidataria, sostegno ai ragazzi) e del benessere dei figli. Durante il colloquio mi rivolgo a lei come mamma,presentificando spesso i figli (che in genere stanno in un’altra stanza quando il colloquio con i genitori non è di mediazione su questioni che li coinvolgano direttamente). Chiedo il suo parere su quanto è possibile fare perché i ragazzi stiano bene. Gina introduce il tema del suo lavoro: non può occuparsi dei figli, purtroppo, perchè il lavoro la costringe a lunghi periodi fuori città. La questione viene di nuovo riportata sul piano della coppia, al conflitto che contrappone vittima e carnefice, per cui il marito mostro è responsabile del distacco della madre dai figli. Se Mohamed le passasse degli alimenti, allora per lei sarebbe più semplice occuparsi dei figli, questo è l’argomento che Gina mi porta nel discutere il suo ruolo di madre. Con una certa frequenza Gina paragona il marito al padre da cui è fuggita.<br />Il riconoscimento del coniuge come buon padre segna comunque un passo verso un rapporto di co- genitorialità: nei mesi seguenti, e non è un caso, si registra un sensibile abbandono delle strategie di alleanza e coalizione a danno dei figli; i due genitori si parlano e si scambiano informazioni: la scuola, il motorino ecc.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Un colloquio di mediazione familiare</b></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><blockquote style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Antefatto</b><br />Su una questione scolastica esplode violenta la rabbia del padre contro Josef, il più piccolo dei figli. Abdullah interviene per difendere il fratello, “se non fossi intervenuto io l’avrebbe ammazzato di botte”, dice. L’episodio crea una profonda frattura tra il primogenito ed il padre, tanto che il ragazzo vuole andarsene da casa, dalla madre o, piuttosto, in una comunità. Non è disposto a perdonare il padre per ciò che ha fatto, inoltre ne ha abbastanza dei suoi modi autoritari. Scappa e si rifugia nella casa della madre. Lei lo accoglie, ma gli dice subito che non potrà restare lì, perché non si può occupare di lui (il lavoro la impegna), ma fa anche riferimento al provvedimento del Tribunale per i Minori che affidava i figli al marito. Mohamed va a prendere il figlio e lo riaccompagna a casa promettendogli che avrebbe parlato con l’assistente sociale per trovargli una sistemazione in comunità. Tutta la questione mi viene riferita nei giorni stessi in cui accade (dai ragazzi e dal padre); anche Gina si mette in contatto con me e mi chiede un colloqui perché non sa come comportarsi con il figlio: “sono preoccupata”. Decido di organizzare un incontro con la famiglia Nabuccoweir, presso il domicilio del padre dove svolgo il mio lavoro di educatrice affidataria.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Il colloquio</b><br />In primo luogo esplicito il problema che ha portato a quell’incontro: “siamo qui per cercare assieme delle soluzioni al problema di Abdullah”, al suo conflitto con il padre, alla sua decisione di andarsene da questa casa. Il fatto che tutti si fossero rivolti a me per chiedere un aiuto, anche se individualmente, è alla base del mio mandato di mediazione. Ho ritenuto utile chiarire l’oggetto dell’incontro per circoscriverlo all’ambito di funzionamento del sottosistema genitoriale, cosciente della tentazione conflittuale di quella coppia, e della possibilità di arrivare in quell’occasione ad un reciproco riconoscimento dei ruoli. Chiedo ad Abdullah di esporre il problema; con evidente fatica (disagio) mette a fuoco le questioni per lui fondamentali: i modi autoritari del padre e l’insofferenza per la scuola. L’antefatto di cui sopra ho riferito, sembra aver scatenato un malessere più antico e a lungo mascherato, una tensione che non riusciva ad essere rielaborata in un più costruttivo dialogo tra le parti. Questa è l’occasione per esplicitare le due questioni al padre. Gina coglie il tema della violenza del sistema paterno (autoritario fortemente normativo) per introdurre le sue recriminazioni di moglie ; il rischio che il focus scivoli sulla coppia e sul suo conflitto è forte. Gina tenta di attivare una coalizione con il figlio, e anche fisicamente osservo lo spostamento: Gina si avvicina al figlio e gli cinge le spalle. Intervengo a riportare la discussione entro il contesto stabilito. Chiedo ai genitori cosa possono proporre al figlio rispetto alle questioni che ha posto alla loro attenzione (le riassumo). A proposito della scuola Gina parla della sua esperienza, della fatica di trovare un lavoro decente, avendo solo la terza media; con il nonno era praticamente impossibile dialogare, le aveva negato di frequentare la scuola che avrebbe voluto, Al contrario, continua Gina, con Mohamed è possibile discutere la questione della scuola, è disponibile. Mohamed e Gina sottolineano al figlio l’utilità di proseguire gli studi. Restituisco quanto emerso sottolineando il fatto che “mamma e papà sono d’accordo nel consigliarti per il tuo bene, di terminare la scuola; entrambi sono disposti anche a cercare per te un lavoro serale che ti permetta di fare esperienza e di avere del denaro tuo da gestire autonomamente”. Chiedo ad Abdullah se ha delle alternative alla comunità, mi risponde che andrebbe volentieri dalla madre, ma si affretta ad aggiungere che non è possibile perché lei, spesso, è fuori città. Chiedo a Gina quali idee ha a proposito: mi dice che potrebbe ospitarlo comunque ogni volta che è a casa. Chiedo ai ragazzi e al padre cosa pensano della proposta; si dichiarano d’accordo. Chiedo al padre, che sembra a disagio, cosa teme possa accadere da una simile soluzione: mi dice che potrebbe succedere che i ragazzi smetterebbero di andare a scuola, oppure inizierebbero ad uscire di sera, farebbero insomma ciò che vogliono. Mi rivolgo a Gina e le chiedo se può rassicurare Mohamed; lo fa e pare sia sufficiente, almeno per il momento, a superare l’empasse. Chiudo la questione dicendo che “mamma e papà sono d’accordo sui modi per educare i figli, ne condividono i punti principali. Chiedo a Gina quando sarà libera dagli impegni di lavoro, così da poter già stabilire una prima sperimentazione dell’accordo. Le vacanze di Natale, imminenti sono il momento adatto; si accordano tra di loro e alla fine decidono che i fratelli trascorreranno le vacanze con la madre. Nel frattempo il maggiore trascorrerà già il prossimo fine settimana con lei. Mohamed si dichiara d’accordo. L’atmosfera che si è creata alla fine di quel colloqui mi fa pensare che sia stato un utile stimolo.<br />Dopo le vacanze di Natale, riprendendo il mio lavoro, ho raccolto con soddisfazione il racconto dei ragazzi; sono stati bene, prima a Genova con la madre, poi, assieme a lei, in Calabria dai nonni che non vedevano da anni. Il cenone di S. Silvestro ha visto riunita la famiglia allargata (14 persone), in una grande festa che ha commosso Gina, come racconta Josef, tra sorpresa e soddisfazione.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Tutta questa vicenda ha aperto una nuova fase nella riorganizzazione delle relazioni dei Nabuccoweir; la madre, pur restia ad assumere impegni definiti, ha iniziato a mantenere con i figli un contatto più frequente. Telefona e di tanto in tanto li invita a casa sua. I ragazzi hanno imparato a rivolgersi a lei per questioni che non vogliono discutere con il padre, appaiono più sereni. Le tensioni si sono sensibilmente allentate, su tutti i piani (genitori, coppia, intergenerazionale). Seguiranno altri episodi in cui sarà in questione di nuovo il benessere dei ragazzi: gli ex coniugi collaboreranno spontaneamente al fronteggiamento della crisi ; ciò mi fa pensare che il sistema familiare si sia riorganizzato in termini di maggiore funzionalità ed equilibrio.<br />L’esperienza di Natale, mostrando ad entrambi i genitori che nulla di ciò che temevano si è verificato (perdita del controllo genitoriale da parte del padre e paura ad assumersi impegni da parte della madre) ha sciolto il nodo che teneva avvinghiati il piano genitoriale con quello coniugale, restituendo entrambi ad una maggiore chiarezza di contenuti e funzioni. Ha stimolato, quella stessa esperienza, una riconnessione, sul piano trigenerazionale, con la famiglia materna. I racconti dei ragazzi, per la prima volta, si sono arricchiti dei ricordi dei nonni materni, con cui da piccoli hanno trascorso qualche periodo. Accanto alla mitologia della famiglia egiziana, con i suoi riti, riferimenti culturali e religiosi, si affaccia da questo momento in avanti il tema dell’italianità. Nella storia dei due ragazzi il tema dell’appartenenza razziale è estremamente vivo e complesso per i significati che veicola; non è certo questa la sede per aprirne l’analisi, ma ritengo opportuno accennare ad un fatto. Nei tempo in cui ho lavorato con la famiglia Nabuccoweir, ho assistito al passaggio di Josef (il più giovane dei fratelli) attraverso tre fasi; una prima di adattamento passivo alla cultura araba, una seconda di aperta ribellione a questa cui contrapponeva il primato della sua italianità (con aspetti di forte svalutazione del padre), infine una sorta di revisione delle due componenti che pare il prerequisito per un equilibrio e una personale sintesi. In questi passaggi la connessione con le vicende familiari è evidente. Le tre fasi coincidono con: </span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> <ol> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">la convivenza con il padre, che ha (ri)assunto da poco la sua funzione, e l’assenza della madre;</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">il rientro della madre nelle vicende familiari, tra tentazione conflittuale e ricerca di un dialogo;</span></div> </li> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">nuovo equilibrio relazionale, co-genitorialità e tentativi di separazione legale sul piano coniugale<br /></span> </div> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> </ol><span style="font-size:100%;"><br /></span> <div align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>Lo scenario multiculturale</b><br /> L’aspetto multiculturale è evidentemente un aspetto imprescindibile del mio intervento. I significati famigliari infatti si intrecciano qui strettamente con quelli culturali.<br /> Nell’analisi del racconto della storia familiare, la posizione di migrante del padre appare inscindibile sia dall’incastro di coppia sia dal suo ruolo genitoriale; basti accennare al fatto che l’uomo sposa Gina per ottenere la cittadinanza italiana, in un momento in cui rischia l’estradizione; il rito, civile, non compone le differenze culturali, semmai le esaspera. L’uomo poi continuerà a imporre il primato della sua cultura, come coniuge e come padre. Molta parte del conflitto coniugale si sviluppa come scontro tra attribuzione di ruoli secondo il genere, derivati in gran misura dalla cultura di appartenenza. Lo spazio domestico, nella cultura araba è lo spazio della donna; l’accudimento dei figli, della casa, sono le mansioni attribuite al ruolo di moglie. La donna non deve mettersi in mostra e se lo fa questo provoca un effetto destabilizzante sull’identità di ruolo nell’uomo (questo risulta dal racconto del padre). La donna che questo egiziano sceglie come moglie è una calabrese non così lontana dalla sua cultura, almeno per ciò che attiene genere e ruoli. Ma ai temi culturali si annodano gli insoluti conflitti delle rispettive storie familiari.<br /> Lui è scappato da una famiglia dell’Egitto del sud, tradizionalista e chiusa; sceglie di andare in Italia a cercare una dimensione di libertà. Lo fa ottenendo un mandato familiare preciso, quello di cercare un fratello che non dava più notizie da tempo. Parte a 17 anni felice di lasciare quella realtà soffocante. Ma si porta appresso il peso di un legame forte con la cultura di appartenenza, sino a riproporne schemi e dogmi con la stessa forza dei padri. Gina è scappata dalla sua famiglia perché soffocata da una cultura restrittiva. Il padre le nega qualsiasi libertà. Recide i legami e va a lavorare al Nord come entreneuse. I due si incastrano nell’illusorietà del mito libertario, migranti, entrambi figli mai separatisi. Poi confliggono con violenza in uno scenario che si illumina di significati trigenerazionali e culturali.<br /><br /> Nel mio intervento ho utilizzato anche colloqui di mediazione su questioni culturali, tra il padre e i figli. I ragazzi<br /> mostravano un bisogno evidente di integrazione tra le due culture; avvinghiati alla legge del padre musulmano, trasgredivano quotidianamente quei precetti. Tra sensi di colpa, sotterfugi, fughe, silenzi e si annidiava un malessere connesso all’incoerenza del loro stato. Anche in questo scenario la distinzione dei piani, genitoriale e di coppia è stato un fattore essenziale, un prerequisito per allentare le tensioni tra padre e figli su temi culturali e religiosi. Al controllo è succeduto il dialogo e la comprensione. Il dialogo ha stimolato in Mohamed la comprensione degli elementi di differenza, fattori importanti al fine dell’integrazione dei ragazzi nel loro contesto di vita e crescita. Ancora una volta gli elementi culturali sono strutturali nella storia familiare e da leggere in questa: il primato della cultura musulmana è in quella famiglia il primato del padre sulla madre, assente, indegna, pazza. Il lento riconoscimento degli aspetti, diciamo, occidentali della vita quotidiana dei ragazzi (abbassamento della guardia rispetto all’osservanza del digiuno, delle preghiere, la frequentazione della moschea, dell’astensione dall’alcol) è andato di pari passo con il riconoscimento della madre nel suo ruolo.<br /> Nel percorso qui descritto il Distretto ha partecipato al lavoro avvallando il mio intervento e rileggendo il contesto familiare in questione alla luce degli sviluppi di cui riferivo. La buona collaborazione sul piano della rielaborazione del materiale derivato dalle rispettive osservazioni e valutazioni ha permesso di svolgere il lavoro di sostegno alla famiglia, senza che pregiudizi di sorta (in prima linea l’incapacità genitoriale) intervenissero a rallentarne il corso. Mi riferisco anche al rischio di conflitti di competenza tra operatori (l’educatrice, la psicologa, l’assistente sociale) o relativi al contenuto del progetto (sostegno ai minori come categoria scollegata se non contrapposta al sostegno alla famiglia e alla genitorialità, e, ancora, svalutazione dei fattori culturali come non pertinenti l’intervento psico-sociale). Il progetto iniziale è stato così progressivamente ricontrattato e rivisto; la psicologa ha raccolto alcuni stimoli per iniziare dei colloqui con il padre (con importanti insight) e i ragazzi, separatamente, mentre l’assistente sociale ha svolto la sua funzione di controllo sull’andamento del progetto riconoscendone la validità. Dunque io ho potuto impegnare le competenze tecniche e teoriche derivate dalla mediazione sistemico relazionale senza che ciò determinasse incongruenze formali o di contenuto, rispetto al ruolo di educatrice.</span> </p> <p> </p> <p style="font-weight: bold;"><span style="font-size:100%;">Note</span> </p></div></blockquote><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"></span> <ul><li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Ciola A., Stare qui stando là (Star seduto tra due sedie, o... la condizione del migrante) in Terapia Familiare n. 54, Luglio 1997.</span> </div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">C. Gallo Barbisio, a cura di (1994), IIl bambino diviso, Ed.Tirrenia Stampatori, Torino. </span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Mazzei D., La mediazione familiare sistemica. L’approccio simbolico trigenerazionale, in corso di pubblicazione.</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">M. Pia Gardini. M. Tessari (1993), L’assistenza domiciliare per i minori, Ed. La nuova Italia scientifica, Roma.</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">E. Scabini, (1995) Psicologia sociale della famiglia, Ed. Bollati Boringhieri, Torino.</span></div> </li> <li> <div align="left"><span style="font-size:100%;">Vergellin G., Tra veli e turbanti, (2000) Marsilio Editori. </span></div> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> </ul><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-12686422848108258132007-04-06T22:19:00.001+01:002008-12-09T00:02:28.538+01:00LE PAROLE PER DIRE “ESISTI” - GENITORI ADOTTIVI =<div style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgLxcpw4rozU-FWU2XTpnGGQwQTnv4x_7aXp-JV2ie32HqATyw8Ql3BXKwvjnAOyFlBFdE3hWCOvjMHOZz6RMU3M_B4g-Y4Q8PV0SLMgIaEB0mzvie3Q-Ou8x619YMfEt1twHL4hD7LEmk/s1600-h/24.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgLxcpw4rozU-FWU2XTpnGGQwQTnv4x_7aXp-JV2ie32HqATyw8Ql3BXKwvjnAOyFlBFdE3hWCOvjMHOZz6RMU3M_B4g-Y4Q8PV0SLMgIaEB0mzvie3Q-Ou8x619YMfEt1twHL4hD7LEmk/s320/24.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050751651076828146" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Giovanna Lonardi</span></span><br /> </div><div style="font-family: arial;" align="justify"><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Allieva Didatta A.I.M.S. Istituto Veneto di Terapia Familiare Sede di Verona</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Dove e come nasce l’esperienza</b><br />I contenuti riportati sono tratti dalle narrazioni spontanee effettuate durante un percorso di formazione fatto con un Gruppo di Genitori Adottivi appartenenti al Movimento Gruppi Famiglia ONLUS di Verona e sono stati proposti a due diversi gruppi di coppie in attesa di adozione.<br />Il gruppo è costituito da circa 22/24 persone che da alcuni anni si incontrano una volta al mese per discutere ed approfondire problematiche relazionali educative e di coppia.<br />Il Movimento Gruppi Famiglia è un’associazione di volontari che da oltre 25 anni promuove formazione e sostegno alle coppie affidatarie e adottive.<br />Alcune esperienze riportate durante i 4 anni di percorso hanno posto in evidenza come uno dei punti cruciali dell’adozione sia il momento dell’incontro in cui la coppia e il/la futuro figlio/a si vedono, si annusano, hanno modo di ‘scegliersi’. I genitori riportavano anche dopo anni le tensioni affrontate in quel momento e la delusione nel sentirsi impreparati, incapaci di far fronte alle problematiche aggiunta all’arrabbiatura contro i servizi e le associazioni per non essere stati informati, supportati sufficientemente.<br />Per i genitori (80%) che avevano adottato bambini/e stranieri/e il momento dell’incontro e il periodo di conoscenza veniva riportato carico di apprensione, turbamento e ansia dovuti a:<br />- il sentirsi sconosciuto<br />- l’impatto tra ciò che si era fantasticato con ciò che si aveva di fronte<br />- l’esigenza di farsi capire<br />- il pianto disperato, apparentemente immotivato, dei più piccoli durante le uscite<br />- il bisogno di ‘amalgamare’ nel più breve tempo possibile in modo da tornare in Italia già ‘famiglia’<br /><br /></span> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Che cosa è possibile fare?</b><br />Questa era la domanda che sempre accompagnava la fine dei racconti.<br />Ci siamo soffermati ad esaminare quanto era stato riportato negli anni ed è apparso chiaro che le problematiche venivano viste solo dalla parte degli adulti, nessuno accennava spontaneamente e in alcun modo al possibile ‘punto di vista’ dei bambini. Il fatto che qualcuno andasse fino là, carico di affetto da dare e li portasse via da situazioni talvolta abbiette sembrava più che sufficiente per il loro benessere.<br />Gli attori dell’adozione erano solo gli adulti.<br />L’emergere di questo sbilanciamento verso l’adulto, la poca attenzione riservata alle emozioni dei piccoli, il fatto che questo momento venisse riportato come importante, fondamentale, precursore di future problematiche ha portato il gruppo a riflettere su che cosa suggerire a chi voleva adottare e a chi supportava e accompagnava le coppie nel percorso pre-adottivo.<br />Nel cercare di identificare un elemento di mediazione possibile che nelle adozioni internazionali riconoscesse il/la bambino/a si è pensato alla lingua e all’identificazione di parole da imparare e da usare nel corso dei primi incontri.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Lo sfondo teorico</b><br />Qui di seguito sono riportati alcuni concetti teorici di sfondo</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span><ul style="font-family: arial;"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">L’adozione è un evento critico che si pone tra un ‘prima e un dopo. Il ‘prima’ è assai diverso tra i soggetti coinvolti, il ‘dopo’ può essere condiviso.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Il ‘prima’ agisce potentemente in ogni membro e negarlo non fa che rinforzare le reciproche fantasie di rifiuto. L’esperienza del figlio adottato proveniente da un altro paese è di fatto un’esperienza legata al vivere ‘tra due’: due paesi, due culture. (Francini, 2001)</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">L’approccio relazionale permette di inquadrare l’evento adozione in una storia il cui intreccio costituisce la struttura emotiva della famiglia.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">La cultura è un insieme di linee guida... Che gli individui ereditano come membri di una società particolare e che indica loro come ‘vedere il mondo’, come sperimentarlo sul piano affettivo e come ‘comportarsi’ in relazione ad altre persone, alle forze soprannaturali o agli dei o all’ambiente naturale (Helman)</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Essere adottati significa guadagnare e perdere: guadagnare nel sentirsi voluto e accettato, perdere i punti di riferimento, le abitudini, le consuetudini conosciute, significa perdere la propria lingua, i propri pensieri… (Dell’Antonio)</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">L’evento primo incontro è fondamentale nel ciclo vitale della famiglia, è legato al processo di attaccamento e la sintonizzazione è essenziale perché esso si avvii</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Il processo di mediazione in una famiglia adottiva è lo sfondo necessario per porre in atto il patto adottivo: a chi lo sforzo di mediare?</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span> <li> <div align="justify"><span style="font-size:100%;">Il linguaggio come elemento di mediazione: i gesti e le parole sono contenuti denotativi del rapporto ed esprimono ciò che si è, la propria cultura di appartenenza, i propri desideri del momento.</span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span> </li><span style="font-size:100%;"><br /></span></ul><span style="font-size:100%;"><br /></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Le parole scelte</b><br /><i>‘... forse permettono di trovare la frontiera scomparsa, quella che ci permette di entrare nei territori della felicità...’</i></span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Con il gruppo di genitori adottivi sono stati individuati attraverso l’analisi dei ricordi e alcuni role-playing:<br />- gli stati d’animo presenti nei genitori al momento dell’incontro<br />- le emozioni, i sentimenti, le manifestazione dei bambini e delle bambine che ponevano in apprensione la coppia<br />- i dolori fisici, i malesseri maggiormente manifestati dai minori<br />- le parole maggiormente utilizzate nell’esprimersi</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Sono state scelte le parole giudicate importanti da tutti e sono state suddivise in categorie:<br />- saluto: ciao, mi chiamo/sono, buongiorno, buonanotte, a domani<br />- fisico: testa, pancia, gambe, mano, male, bene, sonno, fame, sete, cacca, pipì<br />- azioni: mangiare, bere, dormire, giocare, correre, dare la mano, piangere, ridere<br />- stati d’animo:gioia, piacere, paura tristezza, malinconia, nostalgia<br />- cibo: piatto tipico del posto, frutta, carne, formaggio, dolce, pane, pasta<br />- si, no, bacio<br />Imparare nella lingua del bambino alcune parole permette un processo di visione del/lla futuro figlio/a come soggetto<b> ‘con’</b>: una storia, una cultura, una identità e non solo come un soggetto ‘senza’: genitori, affetti, giocattoli, vestiti, cibo, casa….<br />Si ha anche l’opportunità di prendere consapevolezza degli innumerevoli significati che ha per ciascuno l’<b>attraversare</b> una frontiera e trovarsi ‘tra’ due posti, due culture. Si assume come genitori più facilmente il compito di mediazione linguistico culturale e di mediazione con le istituzioni e gli altri famigliari senza delegare completamente al bambino/a il compito di fare sempre il traduttore di se stesso.<br />Modalità di proposta individuate e attuate con genitori in attesa di adozione.</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Di estrema importanza è non gravare le coppie in attesa di adozione di ulteriori compiti: si sentono spesso oberati dalle richieste che vengono loro fatte dai servizi e dalle tensioni che vivono nel contesto famigliare allargato. Richiedere loro di imparare parole di un’altra lingua quando non hanno mai nemmeno sperimentato come turisti quanto possa essere utile conoscere poche parole legate alla sopravvivenza, può risultare inutile.<br />La modalità individuata fa riferimento alla strategia dei gruppi posti in situazione:<br />- “come mi sono sentito/a da piccolo/a quando ho affrontato da solo/a una nuova esperienza”<br />- rilevazione degli stati d’animo<br />- rilevazione/analisi dei bisogni<br />- rilevazione/analisi delle aspettative rispetto agli adulti<br />- rilevazione/analisi di ciò che ti fa sentire riconosciuto<br />- “come potrebbe sentirsi un/a bambino/a quando qualcuno gli dice: ‘tra un po’ vedrai i tuoi nuovi genitori ed andrai via con loro’”?<br />- proposta delle ‘parole per dire esisti’<br />- suggerimenti per facilitarne l’apprendimento</span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;">Alcune di queste coppie sono tornate dopo aver adottato dicendo di aver fatto quello che era stato proposto e di essere consapevoli dello sforzo che i loro figli/e stanno affrontando per imparare la lingua e i modi di fare della nostra cultura. </span></p><span style="font-size:100%;"><br /></span> <p><span style="font-size:100%;"><b>Conclusioni</b><br />L’esperienza fatta ha permesso di coniugare le tematiche della mediazione con le problematiche dell’adozione internazionale partendo dall’agito e da ciò che ognuno riportava come importante e fondamentale per il processo della costruzione del patto adottivo.<br />Inoltre il conoscere alcune parole della lingua d’origine del/lla bambino/a rende leggibile il farsi accogliente del genitore e l’essere riconosciuto dal figlio: infatti non è la quantità di parole conosciute che è importante ma lo ‘sforzo’ fatto per impararle.<br />Non da ultimo risulta importante per il genitore rendersi conto che nell’approccio con l’altro l’amore inteso come sentimento provato non basta, deve essere riempito di azioni di contenuto significative per chi lo riceve. </span> </p><span style="font-size:100%;"><br /></span></div><span style="font-size:100%;"><br /></span>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3586955526807222377.post-18301922880733853312007-04-06T22:19:00.003+01:002008-12-09T00:02:28.408+01:00LA MEDIAZIONE SCOLASTICA SISTEMICA<span style="font-size:100%;"><a style="font-family: arial;" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh59V_QpyDJbl4-VE0eHoeRqOM9sToIb0OjN_9r-o8bSlqFew08B18iUHk5aW3Jr0DqFZqP3-GsZzNK8-fE3At1HoMh6N5zXTv2p-XSQV8t4grfKU_aoby8frS_WzqUL_9vVZsvVZ6SKLc/s1600-h/25.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh59V_QpyDJbl4-VE0eHoeRqOM9sToIb0OjN_9r-o8bSlqFew08B18iUHk5aW3Jr0DqFZqP3-GsZzNK8-fE3At1HoMh6N5zXTv2p-XSQV8t4grfKU_aoby8frS_WzqUL_9vVZsvVZ6SKLc/s320/25.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5050758999765871618" border="0" /></a><span style="font-family: arial; font-weight: bold;">Pasquale Busso</span></span><div style="font-family: arial;" align="justify"><div style="text-align: left;"> </div><div style="text-align: left;"> </div><p style="text-align: left;"><span style="font-size:100%;">Socio Didatta A.I.M.S. Direttore Centro Studi Eteropoiesi Torino, Past President A.I.M.S.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>La domanda di mediazione scolastica</b><br />La violenza giovanile all’interno delle istituzioni scolastiche è un fenomeno in costante aumento: furti, aggressioni, danni alle strutture, traffico di droga sono denunciati in numero crescente. Questo fenomeno non è un fenomeno soltanto italiano, ma è diffuso in modo più o meno preoccupante nelle cosiddette società del benessere (Charlot, Emin, 1997). Secondo Bonafé-Schmitt, conviene oltrepassare il problema che ci fa domandare se le cause della violenza scolastica siano endogene o esogene rispetto al sistema scuola. Occorre invece allargare la nostra prospettiva e interrogarci sulla crisi della regolazione sociale all’interno della nostra società. Infatti, “non si può ignorare che nel passato le scuole, allo stesso titolo delle strutture familiari e di quartiere, hanno sempre costituito dei luoghi di socializzazione e di regolazione dei conflitti” (1996, p. 106). Il modello ricalcava la concezione giudiziale della riparazione del diritto, all’interno della quale era il giudice a scegliere la soluzione più giusta. A livello scolastico la funzione di giudice era attribuzione del responsabile di istituto o degli insegnanti. Attualmente a livello formale è ancora così, ma da un punto di vista di costume e di cultura questo modello è entrato in crisi.<br />Si è passati da una concezione dell’istituzione scolastica come un luogo dove si apprende una socializzazione contrassegnata da civili regole di convivenza e reciproco rispetto, ad uno spazio relazionale, dove esibire forza, ricchezza o immagine sta diventando criterio prioritario di successo e di riconoscimento. Inoltre, il cambiamento del paradigma del ruolo paterno da un lato ha messo in discussione l’utilità della frustrazione e della sanzione quale metodo educativo, dall’altro costringe gli adulti a proporre un nuovo modo di concepire le regole di civile convivenza e di come sanare i conflitti che sorgono. Se guardiamo alle premesse epistemologiche della nostra cultura occidentale, è la concezione dell’altro come soggetto interlocutore a incontrare difficoltà. “Si consideri ad esempio l’uso, nel linguaggio di Verga, della parola ‘roba’. ‘Roba’, per il contadino di Verga, è il campo, la vanga, il carro, la casa; ma è anche la donna, i figli, gli animali. Tutto è ‘roba’. ‘Roba’ è il modo in cui egli chiama - e pensa - la ‘cosa’. Il contadino che ha a che fare con le ‘robe’ ha a che fare con la donna, i figli, il campo in quanto essi sono ‘robe’. ‘Roba’ è l’eco nella lingua italiana della parola tedesca Raub, che significa ‘preda’. Rauben vuol dire ‘rubare’, ‘predare’. Il contadino, il quale ha a che fare con le ‘robe’, instaura il proprio rapporto con il senso della ‘roba’: i figli, la donna, il campo, la vanga, gli attrezzi sono da lui sentiti e vissuti come possesso, ‘preda’’ (anche se ormai egli non se ne rende più conto, e quindi anche se nella lingua del contadino l’esser preda, da parte della ‘roba’, non emerge più esplicitamente). In questo caso, dunque, il senso dell’‘esser cosa’ determina la cosa - ogni cosa - come ‘preda’. La cosa è il depredabile e tutto sta dinanzi come depredabile. Si può allora perfino pensare che anche Dio sia una ‘roba’. (Severino, 1984, p. 372) Umberto Galimberti aggiorna i concetti del suo maestro in Psiche e techne. Nell’era della tecnica, a suo avviso, è avvenuto un mutamento di parametri e anche il concetto di uomo come soggetto non ha spazio: “il rapporto si capovolge, nel senso che l’uomo non è più un soggetto che la produzione capitalistica aliena e reifica, ma è un prodotto dell’alienazione tecnologica che instaura sé come soggetto e l’uomo come suo predicato” (1999, p. 42).<br />Pur se non condividiamo il pessimismo nichilista di questa tesi, dobbiamo tuttavia convenire che quando la regolazione delle relazioni viene affidata soltanto agli schematismi e alle semplificazioni di una cultura, che considera l’uomo secondo parametri meccanicistici, la violenza ha ottime probabilità di manifestarsi come reazione ad una manipolazione.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Obiettivi della mediazione scolastica</b><br />In linea con queste premesse, nella mediazione scolastica si opera innanzi tutto sui presupposti culturali, non soltanto a livello razionale, ma a livello globale, cioè della cultura che ingloba la complessità della psiche, sia nel suo aspetto umorale che nel suo aspetto relazionale. Percepire l’altro come soggetto significa proporsi a livello relazionale come aperti alla diversità, disponibili al dialogo anche quando dialogare comporta mettere in discussione se stessi. La mediazione scolastica si inserisce quindi in un più ampio progetto formativo di socializzazione, nel quale il valore sociale dell’uomo si misura in ragione della sua capacità di valorizzazione reciproca come soggetti di diritto e come soggetti produttori di senso.<br />Più in specifico tuttavia la mediazione scolastica ci porta a ripensare le relazioni all’interno del contesto scolastico, cioè mira a creare una nuova modalità relazionale sia tra allievi e insegnanti, che tra gli allievi e tra scuola e famiglia. Inoltre, “la mediazione partecipa alla ricostruzione di un nuovo ordinamento negli istituti scolastici, che si colloca a metà strada tra un ordine imposto e un ordine negoziato”. Non significa quindi che tutto può essere negoziato o che ogni decisione vada negoziata, ma solamente che si permette agli allievi “di partecipare direttamente alla costruzione di questo ‘ordine intermediario’, partendo non dalle costrizioni esterne imposte dagli adulti, ma dalle decisioni prese dalle parti in conflitto per mettere fine al conflitto” (Bonafé-Schmitt, 1996, p. 108).</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Analisi della domanda</b><br />Il processo di mediazione scolastica si attiva quando la domanda implicita nei comportamenti di violenza e nei presupposti culturali diviene esplicita per l’azione di alcuni tra gli attori del sistema scolastico. La domanda di mediazione scolastica nasce per lo più dagli adulti, preoccupati del diffondersi della violenza nelle scuole o semplicemente dalle difficoltà nel gestire i problemi disciplinari. E molto spesso l’iniziale richiesta non è formulata in modo esplicito. Per fare un esempio, essa può essere nascosta dietro una richiesta di formazione per il superamento delle barriere generazionali. I professionisti o i centri che offrono formazione alle scuole si trovano spesso di fronte a richieste di intervento dirette agli allievi, come forma di supplenza ad una relazione zoppa tra insegnanti e allievi o tra genitori e figli o tra genitori e insegnanti. La conseguenza ovvia di questo dato di fatto è che il mediatore scolastico si trova innanzi tutto a decodificare la richiesta iniziale attraverso un percorso di analisi che comporta in prima istanza il rilevamento delle condizioni di fattibilità.</span></p> </div> <blockquote style="font-family: arial;"> <div align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Condizioni di fattibilità</b><br />L’analisi della domanda di fronte ad una richiesta di mediazione concerne innanzi tutto il rilevamento delle condizioni di fattibilità. La prima di esse non è l’esistenza di contraddizioni o di contrapposizioni o di conflitti, che è scontata in qualsiasi realtà umana, ma è l’espressione di una domanda di aiuto di fronte ad una delle succitate difficoltà, quando viene vissuta come insuperabile. Nel caso di un conflitto va valutata inoltre l’esistenza di una disponibilità ad una tregua da parte delle polarità coinvolte.<br />La seconda condizione consiste nella disponibilità a scegliere come obiettivo non la vittoria sull’altro, ma l’accordo con l’altro in merito al contenzioso esistente. Al di là delle parole le persone devono considerare l’altro come un soggetto di diritto, non qualcuno su cui prevaricare.<br />La terza condizione concerne il metodo per raggiungere l’accordo: il dialogo. Il mediatore non è quindi il protagonista della costruzione dell’accordo finale. I protagonisti sono le due polarità in contrapposizione. Il mediatore scolastico è un facilitatore di comunicazione, è un esperto che aiuta le due polarità a superare le difficoltà derivanti dalla necessità di mettere insieme contraddizioni e contrapposizioni a prima vista incompatibili.<br />Da ultimo occorre verificare e stimolare il coinvolgimento di tutti i sottosistemi relazionali coinvolti attraverso il lavoro sulle obiezioni e l’elaborazione delle richieste specifiche, nascoste nei risvolti della complessità del sistema scolastico. Anche se l’iniziativa della richiesta di aiuto è partita da pochi, la risposta deve tenere conto di tutto il sistema relazionale, proprio perché attraverso di essa si propone un cambiamento del modello di regolazione dei conflitti e, come dicevamo poc’anzi, sono necessari consapevolezza e consenso per ciò che questo nuovo modello richiede ad ognuno.</span></div> <div align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>Obiezioni</b><br />Durante il momento dell’analisi della domanda occorre prestare attenzione alle molte obiezioni che sono presenti sia tra chi fa la richiesta sia soprattutto tra chi non si espone direttamente. Le obiezioni più frequenti che si riscontrano riguardano in primo luogo la delega agli allievi della responsabilità della gestione dei conflitti. Al di là delle formali adesioni, a molti insegnanti il ruolo di mediatore affidato agli allievi stessi appare come un carico eccessivo data la minore età, in particolare quando si tratta di allievi delle elementari. Talora si prospetta come alternativa l’utilizzo di personale apposito.<br />Ad altri la mediazione scolastica appare come la rinuncia degli insegnanti al loro ruolo di educatori. La scuola, non si deve occupare soltanto della formazione intellettuale, ma anche dell’educazione degli allievi alla socializzazione. In particolare la delega ad esterni del corso di formazione può essere vissuto come un implicito giudizio svalutativo delle capacità del corpo insegnante.<br />I genitori inoltre possono preoccuparsi dell’eventualità che il loro figlio, diventato mediatore, possa subire rappresaglie dai compagni che ha cercato di mediare o che possa diventare il bersaglio di bande che poco gradiscono modalità di risoluzione del conflitto che siano diverse dalla legge del più forte. Esiste inoltre la preoccupazione circa la quantità di tempo che la formazione alla mediazione richiede. Non c’è il rischio che i ragazzi, già oberati dai programmi scolastici e non sempre motivati allo studio, approfittino del corso di formazione alla mediazione per cercare scuse dei loro eventuali insuccessi? (Bonafé-Schmitt, 1996)<br />Oltre a queste obiezioni se ne possono incontrare altre inerenti all’iniziativa in sé, poiché anche la mediazione scolastica, come ogni iniziativa istituzionale, può essere l’occasione per rinfocolare i conflitti esistenti tra diversi gruppi di interesse. Potrà avere successo se il mediatore scolastico saprà far evolvere tali conflitti verso un ricupero positivo delle risorse, che essi sperperano o anche soltanto immobilizzano.</span></p> <p> </p> </div> </blockquote> <div style="font-family: arial;" align="justify"> <p><span style="font-size:100%;"><b>Elaborazione della domanda in un’ottica sistemica</b><br />Il mediatore sistemico sa che il mondo relazionale si distingue in due ambiti: il mondo dei significati e il mondo delle relazioni. Il mondo dei significati comprende tutte le operazioni attraverso le quali un soggetto elabora la propria esperienza relazionale, attraverso vari livelli processuali, come il pensiero razionale, le scelte volontarie, le emozioni e le sensazioni. All’interno di questo ambito, come afferma Spencer Brown (1972), l’operazione primaria è la distinzione. Attraverso di essa il nostro mondo esperienziale si popola di oggetti sparsi nello spazio e la sua continuità viene spezzettata in termini di tempo. L’operazione successiva è un’operazione di correlazione, che si sviluppa in due direzioni diverse: correlazione di somiglianza e correlazione di differenza. E’ attraverso la correlazione di differenza che noi arriviamo alla contraddizione, ovvero a quella particolare correlazione tra due eventi di senso, che ne evidenzia la inconciliabilità. </span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Le contraddizioni</b><br />Quando si elabora il senso delle esperienze relazionali, la presenza di contraddizioni porta all’insorgere di grosse difficoltà. Le contraddizioni su cui il mediatore sistemico deve portare la sua attenzione sono le contraddizioni di tipo emotivo. Esse si collocano a livello dell’atteggiamento globale che il soggetto assume quando si trova di fronte ad un’esperienza relazionale nuova. Come ogni novità essa è fonte di incertezza: è come un punto interrogativo, che attende la costruzione di una risposta. Il soggetto si trova di fronte ad un bivio: può muoversi verso oppure muoversi via da, può lasciarsi coinvolgere nella relazione o evitare anche solo il contatto. Se si lascia coinvolgere, la psicologia ci dice che egli può godere dell’esperienza relazionale sviluppando diverse gradazioni di affettività o può rimanere deluso di sé per non essere riuscito ad ottenere gratificazione dalla relazione o sviluppare rabbia contro l’altro che non ha risposto alle proprie aspettative. Se non si lascia coinvolgere egli può mantenere una relazione anaffettiva, distaccata o darsi ad un attivismo proporzionale al rischio di essere sopraffatto o, ancora, rinunciare sdegnosamente al contatto.<br />Qualunque scelta il soggetto abbia sviluppato, nella misura in cui vi si identifica, egli si pone automaticamente in contraddizione emotiva, e prova disagio, di fronte ad un altro che abbia costruito la sua personalità sull’opzione opposta.</span></p> <p><span style="font-size:100%;"><b>Le contrapposizioni</b><br />Nel mondo delle relazioni, le contraddizioni diventano contrapposizioni se i soggetti scelgono di schierarsi a livello relazionale con polarità opposte. Le motivazioni possono essere più o meno esplicite, più o meno ragionevoli, ma quando una scelta è compiuta i soggetti si trovano oggettivamente in una relazione di contrapposizione. Ognuno dei soggetti infatti produrrà decisioni e azioni, che interferiranno con le decisioni e azioni dell’altro. Se siamo in due a volerci appropriare di un unico oggetto, le nostre scelte ci porteranno ad una situazione, che comunemente chiamiamo conflitto, ma che nella teoria sistemica si chiama contrapposizione.<br />Possiamo notare che le contrapposizioni si possono sviluppare su alcune discriminanti: appartenenza, controllo, possesso. In termini di appartenenza, se consideriamo i tre sottosistemi alunni, insegnanti, genitori, sono possibili tre tipi di contrapposizione: • alunni e insegnanti nei confronti dei genitori: in termini di appartenenza alunni e insegnanti costituiscono la scuola, che ha una sua autonomia rispetto alla famiglia;<br />• insegnanti e genitori nei confronti degli alunni: in quanto adulti, insegnanti e genitori condividono un livello generazionale a cui i figli/alunni non possono accedere;<br />• alunni e genitori nei confronti degli insegnanti: il legame, che cementa genitori e figli, segna una barriera invalicabile per chiunque non condivida qualsiasi educatore.<br />In termini di controllo, ovvero di chi prende le decisioni, ognuno dei tre sottosistemi ha un ambito in cui gli è riconosciuta la responsabilità decisionale. Esistono tuttavia infinite possibilità di interpretare concretamente dove si collocano i confini di ogni area. Intorno a queste divergenze interpretative si possono generare contrapposizioni, con relativi schieramenti di chi si ritiene interessato allo sviluppo della relazione tra le due polarità. Portiamo, infine, attenzione al quadrangolo delle Bermuda, ovvero alle posizioni relazionali, che si sviluppano con lo strutturarsi di un conflitto. “Esse si possono così si possono schematizzare:<br />posizione di alleanza ad uno dei contendenti (a e b) posizione di inter…posizione (c)<br />posizione di spettatore/giudice (d) </span></p> </div> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;">Le posizioni a e b sono posizioni di alleanza fattiva con i contendenti. Da un punto di vista epistemologico la loro posizione è del tutto sovrapponibile a quella delle controparti. Il conflitto non cambia la sua logica per il semplice fatto che possano cambiare gli attori o che essi decidano di entrare in scena tutti insieme o separatamente.<br />Nella posizione c simbolicamente possiamo collocare tutte le persone che tentano di impedire ai contendenti di venire in contatto tra di loro. Essi possono essere paragonati alle forze di interposizione delle Nazioni Unite. Hanno la funzione positiva di impedire la conflagrazione del conflitto, ma non sono sufficienti per costruire la pace. A livello di un sistema familiare si pongono nella posizione c i pazienti designati, che si fanno carico di inserirsi tra papà e mamma, con strategie più o meno efficaci per impedire ai genitori di agire il loro conflitto (Ugazio, 1998).<br />Nella posizione d abbiamo gli spettatori-giudici, che con i loro rimandi decidono chi ha ragione o chi ha torto, il vincitore o il vinto. Il ruolo di giudice è riconosciuto dalla società. Tuttavia, i giudici possono congelare un conflitto a livello sociale, ma il loro intervento non muta la logica del conflitto come gioco relazionale che depaupera le risorse in dotazione al sistema complessivo.” (Busso, 2001, p. 32)<br />Il mediatore scolastico, venendo a contatto con una realtà complessa come l’istituzione scolastica, ha bisogno di precisi strumenti di valutazione per non collocarsi involontariamente in una qualsiasi delle posizioni illustrate, poiché tutte contribuiscono all’irrigidimento della contrapposizione. La posizione c in particolare consente alle controparti di rimandare qualsiasi decisione sul come utilizzare la contraddizione e la contrapposizione per una evoluzione della loro relazione. La posizione dello spettatore, potenziando la contraddizione ragione/torto, aggrava le difficoltà dei contendenti nella eventuale ricerca di una cornice di mediazione.</span></p> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Percorsi di mediazione scolastica sistemica</b><br />I percorsi di mediazione scolastica sono almeno due a seconda delle domande esplicitate. Qualora la richiesta sia maggiormente incentrata sulla necessità di apprendere come utilizzare le contraddizioni e le contrapposizioni per farle evolvere attraverso strategie di cooperazione, il percorso privilegiato è il gruppo ‘metalogo’, ovvero un gruppo nel quale i partecipanti apprendono a dare senso alla propria esperienza relazionale, lavorando direttamente sui propri processi di senso. Qualora invece la richiesta si focalizzi sulla costruzione di setting di mediazione, funzionanti come veri e propri sportelli di ascolto a cui possono accedere tutti o parte dei sottosistemi relazionali dell’istituto scolastico, occorre pensare a formare veri propri mediatori interni all’istituto.</span></p> <blockquote style="font-family: arial;"> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>I gruppi “metalogo”</b><br />“Per gruppi “metalogo” intendiamo designare gruppi di formazione personale all’interno dei quali i partecipanti lavorano sui processi identitari di senso, al fine di dare visibilità a sé (ed eventualmente agli altri) delle modalità attraverso le quali ogni soggetto attribuisce senso al mondo o, meglio, al suo essere nel mondo (Busso, De Peri, Stradoni, 1993). Lo scopo è quello di portare il soggetto ad esperire le connessioni tra linguaggio e conoscenza, e quindi tramite questa esperienza ad accedere alla conoscenza dei processi su cui poggia la propria identità. I gruppi “metalogo” non consistono soltanto in una “conversazione processuale”, ma sono soprattutto un modo di esperire la creazione soggettuale identitaria del senso, scoprendone le radici nell’apprendimento e realizzandolo in un contesto interattivo di costruzione condivisa del senso medesimo.” (Busso, Stradoni, 1994, p. 43)<br />Questa è la definizione dei gruppi “metalogo” così come venivano realizzati in un’ottica di cambiamento dei processi di senso identitari. In senso più ampio gli obiettivi di questi gruppi si sono andati modificando a seconda delle esigenze dei partecipanti. In specifico per quanto concerne la mediazione scolastica essi hanno i seguenti obiettivi:<br />• esperire l’utilità della contraddizione e della contrapposizione, utilizzandole per l’arricchimento personale,<br />• acquisire la capacità di mutare ottica: dall’ottica “o … o” all’ottica “e … e”, ovvero di acquisire la duttilità di modificare il proprio modo di fare correlazioni tra le distinzioni abituali della nostra esperienza personale e relazionale,<br />• diventare capaci di distinguere tra identità sociale e identità personale e adeguare le proprie strategie relazionali a questa distinzione, utilizzando la libertà che deriva dal distacco rispetto al proprio ruolo nelle relazioni sociali,<br />• acquisire la capacità di distinguere il mondo dei simboli e il mondo delle metafore, quando si ha a che fare con la propria identità. Se l’io è tutta la realtà della persona e non soltanto una parte esigua di un sistema molto più grande, che pensa, agisce e decide (Bateson, 1976), se non è soltanto la metafora organizzativa della propria esperienza personale e relazionale, diviene difficile possedere la duttilità del dialogo, quando il dialogo si accompagna con la sofferenza.<br />Questi obiettivi vengono raggiunti:<br />• attraverso il doppio ascolto,<br />• attraverso l’intersecazione delle proprie modalità di dare senso alla propria esperienza relazionale con quelle degli altri partecipanti al gruppo,<br />• attraverso domande processuali che portino alla luce la connessione tra sensazioni ed emozioni da un lato e le strategie di gestione delle relazioni dall’altro.<br />L’ascolto nel gruppo “metalogo” è orientato su due livelli di processualità: “da un lato vi è attenzione analitica agli aspetti coscienti di un’esperienza concreta, dall’altro si lascia spazio ai processi di ‘coscienza marginale’ (Hadamard, 1993), dove i processi abituali di senso perdono forza e il ‘non senso’, l’inusuale, l’irragionevole, o anche il paradosso e l’assurdo, possono godere della possibilità di accedere al senso.” (ibidem, p. 44) Anche le contraddizioni e le contrapposizioni possono acquisire un senso diverso: il soggetto non vive più nella necessità di scegliere una polarità scartando l’altra, ma sperimenta la concreta possibilità di valorizzarle entrambe.<br />“La coscienza marginale è attiva su ciò che viene messo da parte, viene nascosto tra le pieghe, viene sfumato sullo sfondo, viene narrato tra parentesi e sembra trovarsi lì per caso. Esige del tempo per trovare le parole giuste che non nascondano a sé e agli altri il nuovo che ha appena svelato. Esige tempo per verificare ed eventualmente correggere il processo di sintonizzazione che si sta avviando tra la narrazione cosciente e ciò che da essa è stato escluso.” (ibidem, p. 44)<br />E’ di fondamentale importanza che un soggetto possa intersecare i propri processi identitari con altre persone. Egli infatti torna a sperimentare da un lato di trovarsi su posizioni emotive contrastanti con alcuni tra i partecipanti al gruppo, dall’altro è invitato a confrontarsi con essi, a dialogare con loro e attraverso il dialogo a scoprire la possibilità di connettere emotivamente ciò che prima sembrava inconciliabile. Tale esperienza gli può consentire di introdurre nuovi orizzonti di senso che aprono a modalità nuove di ascolto del desiderio, a nuove possibilità progettuali e a nuove realizzazioni e impegni. Di fronte ad un parlante che narra di una sua reiterata difficoltà a conciliare contraddizioni e contrapposizioni, le domande processuali hanno lo scopo di far luce sulle connessioni tra il livello emotivo e il livello cosciente della volontà. Tutto quanto è percepito inconciliabile a livello emotivo non può essere conciliato attraverso un ragionamento o semplici considerazioni di opportunità. Solo attraverso l’esplorazione di alternative emotive si possono aprire reali possibilità di scelta in armonia con tutte le istanze di un soggetto. Le domande processuali rivelano la loro utilità nel momento stesso in cui fanno emergere a coscienza i fondamenti emotivi delle proprie strategie relazionali. Esse mirano a stanare facili soluzioni di contraddizioni o contrapposizioni, costruite sulla scelta di sacrificare la parte considerata meno importante o con meno diritti o con più colpe.</span></p> <p align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>I setting di mediazione scolastica</b><br />Il percorso che porta alla costruzione dei setting di mediazione scolastica comprende alcune fasi: la fase di sensibilizzazione, la formazione alla mediazione e la supervisione.<br />Il momento della sensibilizzazione ha come scopi: </span></p> <div align="justify"> <ol> <li><span style="font-size:100%;">il cambiamento di paradigma culturale di tutti gli allievi, affinché essi comprendano i vantaggi per la crescita personale e sociale di un modello di regolazione dei conflitti che sia basato sulla negoziazione. Essi devono comprendere che per essere trattati da soggetti e non da oggetti, devono in prima persona dedicare un impegno personale al riconoscimento del diritto dell’altro alla sua diversità. Questo non significa subire o sacrificarsi per lasciare spazio agli altri, ma negoziare la distribuzione degli spazi relazionali. Semplicemente occorre essere disponibili a considerare i conflitti come occasione per una migliore definizione delle regole relazionali e per un arricchimento che deriva dalla conoscenza più approfondita della diversità dell’altro. Cambiare il paradigma culturale è la necessaria premessa per la scelta di ricorrere ad un mediatore ogni volta che sorga un conflitto di interessi o che succeda qualche spiacevole incidente.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Il secondo obiettivo è il reclutamento dei mediatori allievi. Tale reclutamento non può essere il frutto di una scelta degli insegnanti o dei genitori, ma di una scelta personale di ciascuno degli allievi. Essi devono maturare l’impegno di dedicare alla collettività dei compagni di istituto il tempo necessario per un processo di mediazione ogni volta che ne saranno richiesti. E maturare inoltre la disponibilità ad apprendere in modo efficace abilità di mediazione.</span></li> </ol> </div> <p align="justify"><span style="font-size:100%;">La formazione alla mediazione viene fatta soltanto alle persone scelte tra insegnanti e allievi per fare da mediatori. I criteri per la scelta (Bonafé-Schmitt, 1997) sono:<br />• la volontarietà: nessuno può essere costretto ad assumere un ruolo impegnativo, che richiede l’adesione convinta della totalità della persona.<br />• la rappresentatività: le persone prescelte debbono godere di un buon ascendente sui loro pari. Tale ascendente può essere facilmente individuato attraverso la gestione di compiti di problem solving di gruppo, proposti durante la fase della sensibilizzazione. Inoltre devono • la legittimazione dei prescelti: terminata la formazione occorre pensare ad un momento dedicato all’ufficializzazione del ruolo di mediatore scolastico, esplicitando le regole di accesso al setting, la caratteristica di confidenzialità e le regole di scelta del mediatore in relazione a criteri di estraneità rispetto al sottosistema relazionale delle controparti.<br />Partendo dal presupposto che i partecipanti alla formazione necessitano non soltanto di una conoscenza teorica delle metodologie di mediazione, ma anche dell’acquisizione pratica di abilità adeguate, il programma di formazione comprenderà momenti di teoria, alternati da momenti esperienziali, dove i partecipanti potranno provare dal vivo la conduzione di incontri di mediazione e affrontare le difficoltà tipiche della medizione scolastica. In tal modo essi conosceranno fattivamente che il mediatore non è un giustiziere, né un mago, ma una persona normale che ha scelto di affinare alcune sue capacità.<br />• Capacità di ascolto sia dei contenuti che ciò che va al di là di essi. Essa comporta innanzi tutto l’acquisizione di un buon modello per chiarire i problemi a livello di contenuto e l’allenamento a sintonizzarsi con la sofferenza altrui.<br />• L’arricchimento delle abilità comunicative sia a livello verbale che non verbale. In particolar modo le abilità di comunicazione non verbale hanno bisogno di acquisire duttilità e ampliare lo spettro delle possibilità di successo del mediatore nello stabilire un buon rapporto di cooperazione per raggiungere gli obiettivi concordati, conquistarsi un ruolo neutrale, acquisire fiducia reciproca, emanare sicurezza nella guida. • L’apprendimento di una buona capacità di osservazione e di valutazione delle caratteristiche del conflitto delle risorse a disposizione e delle possibilità di evoluzione verso un accordo.<br />• L’acquisizione di tecniche di mediazione efficaci per le varie fasi del processo di mediazione: l’ascolto delle parti con l’esplicitazione dei rispettivi punti di vista, la crisi, ovvero la discussione e il confronto tra le parti in una cornice che metta in primo piano i comuni vantaggi, la catarsi, che si traduce in riscoperta dei canali di dialogo con l’altro e dell’altro come soggetto interlocutore (Morineau, 1999). • Capacità comunicative di chiarezza nell’esporre, nel sintetizzare e nell’evidenziare ciò che unisce e il lato positivo delle diversità.<br />• Capacità di non lasciarsi coinvolgere dal conflitto, ma di conquistarsi una posizione di equidistanza attraverso la creazione di un buon rapporto di fiducia con le controparti.<br />• Capacità di non dare consigli o soluzioni personali, ma di guidare le controparti a produrre essi stessi una soluzione alle loro divergenze.<br />• Capacità di mantenere il segreto professionale su quanto emerge nel processo di mediazione e capacità di valutare se il compito è proporzionale alle proprie abilità. La supervisione è necessaria per completare gli apprendimenti del momento formativo, per dare fiducia e autostima ai mediatori, per allenarli ad apprendere dalle difficoltà che di volta in volta incontrano. Abitualmente il periodo di rodaggio prevede momenti di supervisione per ogni incontro di mediazione che i mediatori principianti si trovano ad affrontare. Successivamente la supervisione acquista il carattere di formazione che affina le capacità già acquisite e le rende efficaci anche nelle situazioni ad elevata criticità. </span></p> </blockquote> <p style="font-family: arial;" align="justify"><span style="font-size:100%;"><b>Conclusione</b><br />Per concludere possiamo sottolineare come la mediazione scolastica sistemica si qualifica per l’attenzione alla complessità della domanda sia a livello dei presupposti epistemologici, sia a livello dei giochi relazionali, di cui i conflitti si nutrono. Richiede inoltre una buona preparazione del mediatore scolastico sia come formatore di altri mediatori, sia come esperto di comunicazione per muoversi in contesti complessi, dove sottosistemi relazionali diversi possono muoversi secondo logiche contrastanti.<br /></span></p> <p style="font-family: arial;"> </p> <p style="font-family: arial;"> </p> <p style="font-family: arial;"> </p> <p style="font-family: arial; font-weight: bold;"><span style="font-size:100%;">Bibliografia</span></p> <ul style="font-family: arial;"><li><span style="font-size:100%;">Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Bonafé-Schmitt J.P., “La médiation scolaire: un processus éducatif?”, Revue de psychologie de la motivation, n. 21, 1996.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Bonafé-Schmitt J.P., “La médiation scolaire: une technique de gestion de la ou un processus éducatif?”, in: Charlot B. e Emin J. C. (a cura di),Violence à l’école, Colin, Paris, 1997.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Busso P., F. De Peri, P. Stradoni, Il “metalogo”: lingua, linguagggi, e conoscenza, Metalogo, Milano, 1993.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Busso P., P. Stradoni, “Gruppi metalogo e accesso al senso dell’identità personale”, Animazione Sociale, n. 8/9, 1994, pp. 40-46.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Busso P., “Le origini epistemologiche del conflitto”, Animazione Sociale, n. 10, 2001, pp. 27-35.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Charlot B. e Emin J. C. (a cura di), Violence à l’école, Colin, Paris, 1997.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Galimberti U., Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Hadamard J., La psicologia dell’invenzione in campo matematico, Cortina, Milano, 1993.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Morineau J., “Dare ascolto al disordine. Il significato profondo della mediazione sociale”, Seminario Logos, Genova, 12/3/1999.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Severino E., Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano, 1984.</span></li> <li><span style="font-size:100%;">Spencer Brown G., Laws of Form, New York, 1972.<br /></span></li> <li><span style="font-size:100%;">Ugazio V, Storie permesse, storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. </span></li> </ul>Mediazione Familiare Sistemicahttp://www.blogger.com/profile/13315392178583360010noreply@blogger.com