venerdì 6 aprile 2007

CONFLITTI ORGANIZZATIVI COME SI STRUTTURANO E COME SI POSSONO MEDIARE

Paola Stradoni

Socio Fondatore A.I.M.S. - Paola Stradoni teropoiesi, Torino eteropoiesi@eteropoiesi.it


Si possono trovare, senza grosse difficoltà teoriche, numerose analogie di processo fra i conflitti familiari e i conflitti istituzionali.
Bisogna riconoscere, tuttavia, che le loro dimensioni, circostanze, implicazioni multifattoriali e il contesto culturale, sono diversi. Anche il modello di descrizione del conflitto è diverso. Questo elemento viene considerato così significativo che, secondo Morgan (1993) le organizzazioni si possono definire in base al modo di considerare i conflitti e alle caratteristiche di gestione degli stessi.
Nelle organizzazioni ad impostazione paternalistico-patronale il conflitto è personalizzato e letto come manifestazione di un disagio o disfunzione per lo più di un individuo che deve essere isolato. Se l’organizzazione viene pensata come un insieme integrato in cui gli interessi dei singoli coincidono con gli interessi dell’organizzazione, ha una sua coerenza che il conflitto assuma una valenza disfunzionale e pertanto venga negato o coperto. Per contro, in una organizzazione vissuta come libera interazione di gruppi che hanno interessi diversi e tutti partecipano al governo degli obiettivi e delle risorse, il conflitto assume una valenza funzionale. E’ momento di crescita, serve a curare le tendenze passive e l’indolenza degli attori organizzativi, stimola l’abitudine a valutare le proprie performaces, spinge i contendenti a trovare risposte per la soluzione dei conflitti. Tuttavia il conflitto ha i suoi costi anche in una organizzazione pluralistica e flessibile e deve essere opportunamente pilotato, mediato per favorire l’apprendimento e l’innovazione organizzativa.
E’ fondamentale la visione del manager nel leggere la situazione in termini evolutivi e la sua capacità di avvalersi di modelli e tecniche di mediazione.
Alcune procedure di mediazione, nelle organizzazioni complesse, richiamano procedure utilizzate nei sistemi familiari tuttavia le modalità e il setting sono totalmente diversi.
Il mediatore, almeno nelle nostre organizzazioni sanitarie, non è esterno al sistema, non è mai nella posizione di “terzo”, al massimo è parte di un altro sottosistema. Non è invalsa la cultura di governare problemi di questo tipo ricorrendo ad aiuti esterni al sistema. La funzione viene implicitamente attivata dai sottosistemi in conflitto che interpellano i livelli superiori. Spesso la richiesta non è quella di ottenere una mediazione, ma un giudizio o un’alleanza che ponga una delle due parti in vantaggio. Tacitamente la funzione di mediazione è attribuita al dirigente.
Il percorso di mediazione, di consuetudine, non avviene in un momento o spazio definito, ma si svolge contemporaneamente ad altre attività: costruzione dell’obiettivo, verifica dei risultati, valutazione del personale.
La stessa definizione di conflitto, in alcuni contesti, è temuta, in quanto evoca esperienze difficili da governare o che tendono a radicalizzarsi. Un esempio sono i conflitti sindacali, dove, spesso, il massimo dei successi è il compromesso che ha la funzione di congelare temporaneamente il conflitto.

Costanti di conflitto in una organizzazione sanitaria
Il sistema sanitario in Italia è all’incrocio di una serie di influenze storico-culturali che fanno sentire, ancora oggi, tutta la loro pregnanza.
Il sistema sanitario emerge da una cultura confessionale nella quale è considerato dovere morale occuparsi degli infermi.
L’ideologia della carità ha implicita la gratuità, l’universalità e l’apologia dell’impegno personale: fare l’operatore sanitario è una missione, una vocazione più che una professione.
Il rapporto con il paziente è un rapporto personale di confidenzialità, carismatico che rasenta l’ineffabile.
Il criterio del rapporto costi/ benefici non è considerato appropriato, non è quindi possibile affrontare i problemi assistenziali con l’attenzione alle strutture e all’aspetto economico-politico.
Alla cultura confessionale si sovrappone e si intreccia la cultura medica con il suo paradigma normalità- patologia.
Rispetto al modello della redenzione qui c’è la scienza e la tecnologia che salveranno l’uomo e.. lo renderanno immortale.
La malattia è un male che deve essere combattuto e diventa oggetto di transazione fra il curante e il paziente: è la malattia che viene curata non il malato. La terapia cambia significato da “prendersi cura” a curare, la prestazione non viene assunta in termini di efficacia ma in termini di appartenenza ad una professione e ad un livello gerarchico specifico della stessa. (Loubat, 1999)
La cultura burocratico-statalista introduce il controllo attraverso procedure (statistiche, relazioni ecc..) (Crozier, 1963)
E’ la regola il punto di riferimento non la relazione. La formalità diventa sostanza.
L’assunzione del personale avviene per concorso e la carriera si basa sull’anzianità, non sul fatto che sai fare una certa cosa. Si può spendere con discreta tranquillità perché, qualsiasi cosa spendi, papà (lo Stato) paga. Questo tipo di adolescenza istituzionale favorisce comportamenti poco coerenti con l’obiettivo istituzionale.
Quasi a bilanciare la cultura burocratica si afferma la cultura dell’autorealizzazione.
L’istituzione è percepita come strumento per l’autorealizzazione, quindi utile in quanto depredabile. Gli individui pensano e si comportano come predatori, utilizzano strumenti, risorse e spesso anche il lavoro dei colleghi, per i propri fini personali.
La cultura dell’Impresa,(Mintzberg M,1990) evento che ha fatto irruzione nel sistema sanitario in questi ultimi dieci anni, ha provocato un vero e proprio choc culturale con l’introduzione di:
• Rapporto costi/efficacia ed efficienza
• Concorrenzialità fra strutture della stessa Regione
• Procedere per obiettivi
• L’introduzione della valutazione del personale e il premio di produttività
• Decadenza degli incarichi.
A questi fattori o costanti di conflitto si mescolano e si perpetuano processi fondamentali, comuni in ogni organizzazione umana, che sono connessi al modo particolare che ogni attore ha di interpretare il suo ruolo nell’organizzazione: la volontà di potere o di ricchezza, il bisogno di ottenere riconoscimento dai colleghi e /o collaboratori, il bisogno di appartenere e contemporaneamente di distinguersi dai propri simili, la necessità di rendersi visibili e accedere alle risorse che, essendo ridotte, attivano comportamenti competitivi.

Situazione attuale
La trasformazione delle Unità Sanitarie Locali e degli Ospedali in Aziende ha sollecitato cambiamenti sostanziali. Il Consiglio di Amministrazione, espressione di equilibri politici, è stato sostituito con la Direzione Generale, ponendo concretamente la responsabilità della pianificazione dell’Azienda nelle mani di uno solo: il Direttore Generale.
Sono stati attivati compiti nuovi in staff alla Direzione, ad esempio il Responsabile delle Comunicazione Esterne con il compito di rendere visibile sul territorio le attività e la qualità dell’Azienda e di conciliare con i clienti insoddisfatti. Sono stati ridefiniti posizioni funzionali in sostituzione dei ruoli, sono stati riconfigurati percorsi in funzione di obiettivi specifici, sono stati introdotti elementi e procedure di valutazione del personale a tutti i livelli.
L’elemento significativo è stata l’aggregazione di più realtà “affini” nei Dipartimenti, nuove strutture aziendali con il compito di integrare processi, risorse umane e strutturali.
Mettere in scena una nuova struttura organizzativa non vuol dire di per sé aprire al “nuovo” quanto piuttosto confrontarsi con la spinosa questione del cambiamento.
I cambiamenti, in particolare quelli sollecitati dall’esterno, sono fonte di conflitto in quanto attivano direttamente la capacità di adattamento di un’organizzazione, costringendo gli attori a modificare le loro strategie, abitudini di vita e modalità di comunicazione. La spinta al cambiamento produce una crisi che è tanto più profonda in rapporto alla struttura rigida o vischiosa dell’organizzazione stessa, in rapporto all’eccessiva specializzazione e alla standardizzazione dei comportamenti.

Situazione Specifica
Il Dipartimento nel quale viene condotta l’esperienza di mediazione, che verrà presentata, di seguito, è il Dipartimento Materno Infantile dell’ASL3 di Torino.
Un dipartimento che ha il compito di integrare n°4 divisioni ospedaliere (Neuropsichiatria Infantile, Terapia Intensiva Neonatale, Pediatria, Ostetricia) con le realtà distrettuali quali: Consultori Familiari, Consultori Pediatrici, Pediatria di Base.
Un primo punto critico è stato quello di pensare ad un modello organizzativo che consentisse di gestire la complessità senza scatenare, da subito, conflitti parassitanti al vertice, di primari fra loro e direttori di distretto.
Due possibilità andavano configurandosi: rafforzare il vecchio modello piramidale, gerarchico con divisioni rigidamente definite concretizzando un modello “matrioska” o dare vita ad un nuovo modello piatto a “rete” che si sviluppa per piattaforme multidisciplinari che si costruiscono intorno ad un obiettivo con responsabilità e controllo del processo all’interno della piattaforma stessa. Questo ha il presupposto che i membri dell’organizzazione creino insieme il disegno organizzativo, inserendosi ed evolvendo con esso, piuttosto che usare l’organizzazione per i propri scopi. L’informazione diventa facile da acquisire ed efficace, la formazione non è più solo tecnica e monoprofessionale ma è anche orientata alla complessità e pluriprofessionale.
Cambiamenti pragmatici di questo livello richiedono una nuova cultura del lavoro, un nuovo modo di interpretare la propria professionalità in una prospettiva di partecipazione sempre più diretta responsabile e gratificante.
Un secondo punto critico è stato quello di far dialogare due microculture diverse: quella degli operatori territoriali che operano con modelli e procedure costruiti sull’obiettivo della prevenzione e quella degli operatori ospedalieri che operano con modelli costruiti sull’urgenza e il ricovero.
Gli operatori si conoscevano solo attraverso i reciproci pregiudizi: “Loro sono belli e tranquilli, non fanno niente, noi moriamo di lavoro”. “Loro fanno i primi della classe, hanno prestigio e più soldi, non capiscono che se noi lavoriamo bene, loro lavoreranno meno. Il nostro lavoro non è apprezzato da nessuno”.
In un percorso di trasformazione aziendale si possono verificare momenti di caos organizzativo in cui diventa indispensabile trovare al proprio interno elementi di significato forti che ristrutturino il disordine e la confusione. Quando i vecchi modelli appaiono obsoleti e i nuovi non ancora chiaramente percepibili, la sofferenza organizzativa si esprime con alti livelli di ansia e scontri frequenti fra chi difende la “tradizione” e chi propugna il nuovo, allora diventa necessario individuare e costruire con i propri collaboratori lo scenario entro il quale saper riconoscere le dimensioni della conflittualità tipiche di quel momento storico.
Lo scenario funziona come incastro di cornici che rende visibile la connessione fra ciò che succede a livello individuale o di piccolo gruppo e ciò che succede ai livelli via via più ampi.
“Non è in crisi solo la nostra Azienda, siamo difronte ad un cambiamento storico, abbiamo la possibilità di scelta: da semplici esecutori, come lo stile burocratico richiedeva, ad attori in grado di costruirsi spazi di libertà e scelta all’interno dei vincoli istituzionali non discutibili”. Quindi la crisi come opportunità per apprendere piuttosto che come incompetenza professionale o personale.
Un conflitto fra operatori centrato sulle qualità degli individui, che si giochi sulla disponibilità o meno al cambiamento, può acquistare una valenza trasformativa se connessa con livelli più grandi. Si può, per esempio, scoprire che entrambi gli operatori stanno facendo del loro meglio per collaborare proprio mentre stressano la loro diversità di vedute. Entrambi agiscono all’interno di sottosistemi con microculture diverse, collaborare, quindi, passa attraverso la necessità di mettere in salvo gli aspetti funzionali e valoriali del gruppo.
Analizzare le difficoltà in una cornice più ampia libera gli individui dalla necessità di comportamenti reattivi alla ricerca di un capro espiatorio.
Avere chiarezza del contesto, dello scenario nel quale si opera richiede un processo di osservazione e di analisi dall’individuo all’interazione, dall’interazione alla relazione fino al mondo del senso. Questo significa attivare nuovi modelli mentali in cui, ad esempio, il successo di un obiettivo non è legato all’operato di un singolo ma alla capacità del gruppo di interconnettersi.
Questo lavoro è stato condotto a più livelli e in tempi successivi
- in plenaria, con tutto il personale del DMI,
- con i vari sottosistemi: primari e il loro personale, distretti e il loro personale
- poi di nuovo tutti insieme con un lavoro a “zoomate” successive.
Questo lavoro ha portato due ordini di risultati, da un lato:
- Ha contribuito a depersonalizzare il conflitto. Apprendimento che non è avvenuto in modo omogeneo su tutto il dipartimento, del resto, per quanto desiderabile, non era un obiettivo realistico, ma a grosse “macchie di leopardo”.
- Ha consentito di dar vita alle piattaforme per progetto/obiettivo, ha favorito l’incontro fra professionalità diverse, arricchito i punti di vista, reso più flessibile le modalità d’uso delle risorse strumentali. Personale dell’Ospedale ha lavorato in distretto con il personale del consultorio e viceversa.
Dall’altro alto ha reso più visibile altri conflitti storici rendendone possibile la mediazione.
La “Mediazione di cooperazione” (Busso, 2001b) nella fase di trasformazione organizzativa, per essere efficace, può richiedere percorsi di apprendimento che consentano di acquisire a livello individuale e di gruppo la percezione consapevole di “essere parte di..”.
Un momento di costruzione e condivisione di senso del proprio comune soffrire apre le porte alla cooperazione, ma il processo va sostenuto e monitorato nell’operare quotidiano.
La mediazione di cooperazione nel contesto organizzativo è la capacità di entrare nei processi, operando per la soluzione delle contrapposizioni in funzione degli obiettivi attraverso la gestione delle dinamiche legate alla diversità delle posizioni, dei punti di vista, degli interessi diversi, in una realtà caratterizzata dalla necessità di prendere decisioni, dove l’elemento tempo è spesso un fattore strategico.
Una figura esterna con funzioni mediatorie è proponibile e, a volte, richiesta quando in un processo di integrazione fra i servizi, gli eventi scatenano posizioni inconciliabili e le polarità contrastanti siano interessate in qualche modo a ricomporre le divergenze. Anche in questo caso la figura esterna viene ricercata facendo riferimento ai livelli superiori. Il “terzo neutrale” è dato dalla posizione funzionale che per se stessa può motivare i contendenti ad una posizione di cooperazione.
Come sappiamo non tutti i conflitti possono essere gestiti con l’obiettivo di creare le condizioni per la cooperazione. A volte i conflitti si sono così strutturati nel tempo, da diventare identitari per il gruppo, che si riconosce in quanto “contro”.
Questi conflitti facilmente diventano esplosivi e richiedono una mediazione che realisticamente si può configurare come “mediazione di separazione”.(Busso 2001c) Il risultato può essere soddisfacente in quanto consente ai due sottosistemi di non impegnare tutte le risorse nel continuo controllo della controparte. E’ necessario, perché il risultato si consolidi nel tempo, che una forza di interposizione, riconosciuta da entrambi, moduli la comunicazione fra i due sottosistemi.
Proprio perchè le organizzazioni sono i luoghi di espressione delle contraddizioni e delle contrapposizioni, la funzione di mediazione accompagna tutti i momenti significativi, dalla programmazione alla verifica dei risultati ed è l’elemento sul quale si fonda la qualità percepita dei processi. La soddisfazione di ogni operatore in un gruppo di lavoro passa attraverso l’esperienza di essere capito e di capire l’altro proprio quando i punti di vista sono in partenza contrapposti.
Il compito di mediare emerge dagli altri compiti istituzionali e attraversa i vari livelli gerarchici.
In occasioni particolari diventa importante ricercare il “terzo” con la funzione specifica di mediare.
In questi casi diventa importante costruire percorsi diversi che, tenendo conto della materia specifica del contendere, accompagni i vari sottosistemi nell’apprendimento di modalità alternative.
E’ l’esperienza di formazione- mediazione che verrà presentata dalla dr. Patrizia Leopardo.
Il momento storico è quello della trasformazione di una professionalità: da operatore di consultorio pediatrico a operatore di pediatria di comunità. Alla nuova figura professionale viene richiesto di interpretare in modo nuovo compiti storici quali la vigilanza sanitaria e di integrarsi fra operatori di distretti diversi per realizzare compiti nuovi, quali gli interventi di rete sulle patologie croniche dell’infanzia. Questo ha richiesto cambiamenti profondi nel loro quotidiano, da un lato attivare e coordinare gli interventi dei pediatri di base con quelli ospedalieri e con i servizi sociali, favorendo la collaborazione fra le varie figure professionali, dall’altra aiutare le famiglie problematiche a districarsi nei percorsi di cura. La situazione conflittuale si dipanava sia con i livelli gerarchici storici: il Direttore di distretto, sia, anche se in modo meno palese, con la nuova figura del Direttore del dipartimento materno infantile, in quanto portatore di richieste nuove. Anche con i Pediatri di consultorio, con i quali avevano condiviso l’attività clinica per anni, le cose non andavano bene. Questi si opponevano con determinazione ad ogni cambiamento, distribuire pappe e visitare bambini erano le attività fatte per anni, era, per loro, del tutto irrilevante svolgere un’attività che risultava essere un doppione del lavoro dei pediatri di base. Fra Pediatri di Consultorio e Pediatri di Base era aperto da anni un conflitto che si dipanava intorno alla reciproca competenza e rilevanza.


Bibliografia

  • Busso P. (1997
    a), La sfida ecologica del conflitto, in “Animazione Sociale”,
    5, pp. 35-39.


  • Busso P. (2001b),
    Le origini epistemologiche del conflitto, in “Animazione Sociale”,
    10, pp.27-35.


  • Busso P. (2001c),
    La mediazione per una nuova fase di cooperazione, in “Animazione Sociale”,
    10, pp.27-35.


  • Crozier M., Le
    Phénomène burocratique,Le Seuil, Paris, 1970.


  • Loubat J.R., Resoudre
    les conflits dans les établissement sanitaires et sociaux, Dunod,
    Paris,1999.


  • Luhmann N. (1984),
    Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna 1990.


  • Morgan G. (1993),
    Images.Le metafore dell’organizzazione, Franco Angeli, Milano.


  • Mintzberg M.,
    Le Management, Editions d’Organisation, Paris, 1990.


  • Stradoni P., Guala
    G:, Busso P., (1996), L’organizzazione che apprende entra in ospedale,
    in “L’impresa. Rivista Italiana di Management”, pp.72-77.