venerdì 6 aprile 2007

FENOMENELOGIA E GESTIONI DEI CONFLITTI NEI GRUPPI DI FORMAZIONE ALLA MEDIAZIONE

Ester Livia Di Caprio

Socia Didatta A.I.M.S. Ecopsys - Napoli

Paolo Gritti

Socio Didatta A.I.M.S. Ecopsys - Napoli paolo.gritti@unina2.it


Introduzione
La formazione alla mediazione viene attualmente svolta nell’arco di tempo di un biennio. Il lavoro del gruppo di addestramento, per ciò che concerne il contratto formativo della mediazione, è prevalentemente eterocentrato sull’apprendimento del modello.
Alcuni fattori preponderanti come:
A la durata contenuta del processo
B l’obiettivo stesso della formazione, l’apprendimento, cioè, della tecnica mediativa.
C la configurazione del gruppo di allievi come gruppo di lavoro
non consentono di includere in maniera esplicita né tantomeno implicita premesse od obiettivi che abbiano una pur vaga rassomiglianza con istanze e funzioni terapeutiche o di cura.
La nostra personale esperienza con i gruppi di “formazione” alla pratica mediativa, il confronto con altre esperienze di moduli formativi anch’essi organizzati su un registro di apprendimento a configurazione gruppale, la convinzione dello scarto esistente tra statuto della mediazione, vincolato ad una pratica formativa molto orientata, rispetto a quella che, per definizione, è la cultura della mediazione, ispirata da matrici teoriche interdisciplinari, ci inducono ad una serie di riflessioni. Tali considerazioni riguardano il tipo di conflittualità che si genera all’interno dei gruppi di formazione.
Proveremo, pertanto, a descrivere alcune delle correlazioni esistenti, nell’ambito di un gruppo didattico, tra la dinamica dell’apprendimento e la genesi e qualità del conflitto, privilegiando, nella fattispecie, le connessioni esistenti tra modalità di apprendimento e produzione di conflittualità, all’interno di quel particolare contenitore che è il gruppo. Vorrei, in particolare, porre l’attenzione su alcuni quesiti inerenti i cosiddetti STILI di apprendimento posti in essere con l’ausilio di contesti gruppali, a composizione prevalentemente eterogenea, e la genesi dei conflitti, partendo da una considerazione basilare e, cioè, che “l’apprendimento in sé, quale scopo di lavoro è, in qualità di compito, generatore di conflitto”.
L’elaborazione di un registro di osservazione che privilegi come osservatorio la fenomenologia del conflitto all’interno dei gruppi di formazione, utilizzando come prospettiva di decodifica il modello teorico gruppalista, ci sembra utile per due ordini di motivi:



  1. Motivi di ricerca visto che, da tempo, ci occupiamo delle dinamiche di apprendimento che caratterizzano i diversi generi di modelli e moduli formativi per ciò che, specificamente, concerne la psicoterapia;
  2. Motivi più squisitamente funzionali. L’intento sarebbe quello di contribuire a chiarire la confezione culturale del programma formativo, considerando che il secondo anno del biennio può avere una duplice connotazione, essendo differentemente direzionato per i mediatori familiari e per i mediatori sociali. E anche in virtù di questa duplice opzione che il nostro istituto valorizza le possibilità del gruppo come strumento di lavoro.


La costruzione del laboratorio di apprendimento
IL LABORATORIO gruppale si configura come ottimo contenitore da utilizzare per fini squisitamente didattici. Al suo interno sono possibili esercizi molteplici finalizzati alla negoziazione dei conflitti dal momento che è la dialettica delle divergenze ad articolare le relazioni umane. L’apprendimento in gruppo è, in tal senso, una risorsa molto efficace. L’enfasi posta sulla questione tiene innanzitutto conto del fatto che parte di questi processi negoziali si configurano come soluzioni spontanee dell’articolazione delle divergenze e delle contrapposizioni mentre una considerevole fetta viene, nell’ambito di un percorso di formazione alla mediazione, modulata dal coordinatore-didatta. Il didatta agisce, in tali contesti, con una cifra stilistica francamente direttiva. Gran parte della dialettica dei conflitti che si generano in un gruppo di formazione viene, pertanto, utilizzata ai fini dell’apprendimento.
I nostri gruppi di formazione non sono, quindi, esenti da conflitti. I quesiti che emergono sono i seguenti:
- Che tipo di gestione è possibile concretizzare senza cadere nella trappola di istanze curative?
- Quali sono i rischi connessi con uno stile didattico di segno diametralmente opposto all’adozione di quelli francamente nozionistici? Tali stili, configurando un registro di apprendimento prevalentemente pedagogico e passivizzante, risulterebbero, a nostro avviso, del tutto “oblativi” anche se apparentemente rassicuranti, e non farebbero che acuire la presenza di aree cronicizzate dal “deposito permanente di conflitti, di crisi e di non-comunicazione”.
- Quali sono le difficoltà tensive connesse con un “apprendimento cosiddetto attivo”?
Vorremmo, pertanto, richiamare l’attenzione su talune nozioni di fondo che riguardano il modello di funzionamento gruppale nell’intento di evidenziare lo scarto esistente tra i due livelli:
- il livello del contenuto, coincidente con l’apprendimento di una tecnica specifica, e con un obiettivo, quindi, fortemente eterocentrato;
- Il registro relazionale dell’apprendimento che, affidato al contenitore- GRUPPO, è modulato dai particolari dinamismi che regolano i fenomeni connessi con il funzionamento di forme collettive di pensiero.
Intanto, delle numerose accezioni esplicative che accompagnano la concettualizzazione di “gruppo”, la più pertinente, in questa cornice, potrebbe essere quella che identifica il gruppo come “area fenomenica di mediazione tra l’individuo ed il sociale”.
Quando parliamo del gruppo come modello operativo e come strumento didattico ne identifichiamo essenzialmente due condizioni:
- La prospettiva epistemologica che “tenga conto della diversità fra l’individualità dell’uomo biologico e la sostanziale molteplicità della struttura psichica data dalla introiezione della cultura di appartenenza attraverso le identificazioni” (Lo Verso, 1985).
- Il livello operativo che comprende il set, i contesti istituzionali, gli scopi di lavoro del gruppo, il ruolo del didatta in qualità di conduttore.
Le nozioni che, a nostro avviso, si rivelano proficue nella decodifica degli stili di funzionamento dei processi interattivi e mentali di un gruppo, provengono da specifiche cornici gruppaliste che si possono riassumere nei modelli di Lewin (Ossicini, 1985), Bion (1961, 1970), Pichon- Riviere (1977).
La cosiddetta “field-theory” di Lewin sottolinea le caratteristiche di interdipendenza tra gli elementi che costituiscono il campo gruppale. Bion ed i suoi epigoni ipotizzano la strutturazione di una griglia utile non solo nella decodifica del funzionamento dei gruppi in senso lato ma anche di macro-sistemi quali le istituzioni sociali.
Ciò che, secondo Bion, conferisce specificità al gruppo sono gli scopi espliciti per cui il gruppo si riunisce e che configurano il livello del gruppo di lavoro. E’ tale livello ad essere responsabile della caratteristica cultura del gruppo, che, nel caso si tratti di gruppi didattici, coincide con l’apprendimento della tecnica.

La genesi e le forme di conflittualità nei gruppi di formazione
In questa cornice cominciamo a parlare di conflittualità implicita. La dimensione conflittuale origina dalla tensione dialettica tra il livello “manifesto” del lavoro del gruppo e quello “latente” inerente le ansie primitive messe in moto dal partecipare al gruppo come spazio collettivo di pensiero. Sappiamo come l’assetto emotivo di queste ansie possa dar luogo a delle peculiari aggregazioni emotive che prendono il nome di assunti di base e che corrispondono a dinamiche difensive del gruppo. Tali assunti hanno la funzione di evitare la frustrazione dell’apprendimento.
Quindi l’apprendimento in sé quale scopo di lavoro è già, in qualità di compito, generatore di conflitto!
Nozione utile nella comprensione della genesi della conflittualità inespressa è quella di socialità sincretica, che sta ad indicare una socialità poco evoluta, basica, fondata su vissuti ed esperienze che è difficile verbalizzare. La socialità sincretica è alla base dell’identità sincretica dei membri del gruppo. Secondo Bleger (1992) in tutti i gruppi esiste, infatti, un’identità diversa dall’identità evoluta che si può chiamare identità gruppale sincretica e che si appoggia non su un’interazione o regole di livello evoluto, ma su di una socializzazione in cui tali limiti non esistono. Il livello sincretico, non verbale, ed il livello evoluto della relazione non sono separabili. Risultano, anzi, strettamente interdipendenti. Un attacco alla socialità sincretica ha come conseguenza una situazione di grave malessere. Questi attacchi portano a scontri di sottogruppi. I sottogruppi, irriducibilmente contrapposti, non si creano tanto perché vi sono opinioni diverse, quanto perché vi è un’identità ferita nell’identità sincretica che ogni sottogruppo sente. E’ stata lesa una certa immagine del gruppo. E’ stato oltraggiato un certo modo di intendere la socialità. E’ stato cambiato qualcosa che permetteva alle persone di avere un ponte per identificarsi con quel gruppo. Ogni sottogruppo attribuisce la lesione all’altro gruppo e la gestisce con una lotta intestina.
Bion esprime idee complementari a queste. Egli afferma che lo scisma, la suddivisione, cioè, di un gruppo in sottogruppi contrapposti, si verifica ogniqualvolta il working in progress, connesso al lavoro dell’apprendimento, determina una spinta al progresso e l’attivazione di differenze. Tale attivazione viene avvertita come pericolosa per la cosiddetta mentalità primitiva del gruppo, che corrisponde al livello basico, fusivo di fondo…I due sottogruppi, contrapposti nello scisma conflittuale, non sono uno sostenitore del gruppo razionale e l’altro del gruppo primitivo, ma ambedue tendono ad arrestare il cambiamento complessivo del gruppo che viene sentito come catastrofico. Il progresso troppo rapido, genera, in altri termini, conflittualità nella misura in cui lede la socialità e l’identità sincretica.
Questo genere di griglia esplicativa torna utile nella misura in cui giustifica la psicogenesi di certa fenomenica conflittuale che assume fisionomia differente nell’arco dei due anni previsti dal contratto formativo.

Considerazioni pragmatico-contestuali sulla dinamica e sulla qualità dell’apprendimento in gruppo: genesi della conflittualità
Il gruppo didattico rientra nella categoria dei gruppi operativi. Quando si parla di gruppo operativo si intende una situazione molto concreta nella quale ha fondamentale importanza il concetto di compito. A tale proposito è molto utile lo schema di Bauleo (1978) applicato alle dinamiche dell’apprendimento in gruppo.
Seguendo tale schema si può dedurre che il didatta si configura come il coordinatore del gruppo. La differenza tra leader e coordinatore consiste nel fatto che il leader è all’interno del gruppo, il coordinatore, invece, sta in posizione decentrata rispetto al gruppo. Il leader sarà uno dei membri che il gruppo sceglierà come possibilità di riorganizzarsi intorno al compito. Ogni gruppo sceglie il leader di cui ha bisogno per risolvere il proprio compito.
La funzione del coordinatore non è di entrare nel gruppo come leader e dire al gruppo cosa deve fare, ma lavorare sulla relazione-vincolo, relazione dialettica tra gruppo e compito: sui piani didattici questo significa che la funzione del didatta sta anche nell’osservare ed analizzare le modalità ed il registro o meglio la tipologia di relazioni che il gruppo utilizza per organizzare lo svolgimento del compito.
Il problema del coordinatore-didatta è, dunque, quello di lavorare osservando anche come il gruppo sviluppa il suo compito. Altri tre elementi si possono definire essenziali: informazione, stato emotivo e produzione. Questi elementi ruotano attorno ad un concetto implicito nell’attività di apprendimento che è il concetto di cambiamento.
Il modulo di apprendimento in gruppo è rispettoso di alcuni presupposti come la nozione di contesto: è in questa direzione che parliamo di “ecologia dell’apprendere” (la situazione ambientale che permette lo sviluppo dell’apprendimento, con tutta la sovrastruttura delle matrici culturali), e di affettività come motore di ricerca (in senso epistemofilico) dell’informazione.
All’apprendimento meccanico, basato sulla memorizzazione, si sostituisce l’apprendimento come produzione, che significa non solo assimilazione dell’informazione ma anche possibilità di utilizzarla. E’ quello che noi definiamo “apprendimento attivo” e che cerchiamo di concretizzare nei nostri modelli didattici, compresi quelli formativi alla mediazione.
L ’apprendimento attivo passa, nella nostra esperienza, attraverso una qualità interattiva della relazione docente-allievi che costruisce definizioni a partire da input forniti dal docente. Il didatta diventa, pertanto, una sorta di modulatore o meglio regolatore dell’apprendimento. Egli facilita, in questo senso, i processi di assimilazione di concetti da parte dell’allievo: non è mero fornitore di un sapere preconfezionato. Tale modulo sembra essere quello più consono ai contesti formativi e, soprattutto, nel caso di gruppi di formazione segnati dal registro dell’eterogeneità, risulta essere produttivo ma non scevro della presenza di una certa tipologia di conflitti. Le strategie impiegate, i ruoli in gioco, gli atteggiamenti, le concettualizzazioni sono elementi che risultano assai diffusi e indifferenziati.
E’ utile, inoltre, tracciare un quadro del processo evolutivo del gruppo in rapporto alla definizione delle diverse fasi a partire dal tentativo di osservare come si disimpegna un gruppo di recente formazione nei confronti di un compito e le vicende che, invece, attraversa durante il suo sviluppo. Rispetto alla linea di funzionamento possiamo dire che si evidenziano tre momenti o meglio tre fasi:
- Il 1° momento è quello che si può definire di indiscriminazione. Gli obiettivi del gruppo appaiono confusi, dal momento che il compito non risulta ancora chiaro, e si costituiscono quali elementi assai diffusi e indifferenziati. Il tratto distintivo del gruppo risulta essere un’incoerenza organizzativa in rapporto al compito. Le indicazioni del coordinatore-didatta devono orientarsi, in tale fase, più verso l’impostazione che verso il compito.
- La 2° fase, indicata come la fase di discriminazione o di differenziazione, è quella di chiarificazione di base dei ruoli del coordinatore e dei membri; iniziano a delinearsi il compito manifesto e quello latente, in definitiva i suoi caratteri espliciti: lo scopo dell’incontro, gli aspetti impliciti (il tipo di aspettative). Solo in questa fase è possibile osservare la presenza di elementi quali l’appartenenza al gruppo e la pertinenza rispetto al compito una volta chiariti i fattori basilari (ruolo e compito). L’emergere di determinate leadership è coerente col modo di affrontare il tema e la struttura del gruppo.
- il terzo momento, o momento di sintesi, si ha quando il gruppo comincia a compiere esperienze di integrazione dei vari sottotemi, realizzando unità di sintesi. Di qui la necessità operativa di elaborare il sistema relazionale (interpersonale) prima di passare all’approccio del tema.
Vanno chiariti alcuni aspetti quali:
- l’elaborazione di un sistema relazionale è anch’essa un apprendimento (nel caso di gruppi della formazione alla mediazione, tale registro è cassato per contratto);
- è necessario individuare e valutare tale apprendimento;
- l’apprendimento si riferisce ad un compito;
- l’informazione, lo stato emotivo e la produzione assumono caratteristiche diverse nei momenti dell’apprendimento di un compito.
L’interagire, il regolare i comportamenti, il rendere un oggetto “comprensibile” agli altri, produce cambiamenti in ciascun membro. Il ruolo o l’attribuzione di ruoli divengono il fattore chiave ai fini dello svolgimento di un compito.
Un gruppo affronta il compito con gli strumenti in suo possesso, utilizzando, ad es., i comportamenti abituali, che, se ripetitivi e fissi, diventano degli “stereotipi”.
Durante il funzionamento del gruppo sorgono dei problemi comunemente definiti resistenze che impediscono l’apprendimento. Tali resistenze si possono manifestare attraverso due sottogruppi: uno si occupa della cospirazione ed il suo leader è il sabotatore; l’altro, il sottogruppo del progresso, si incarica di portare avanti il lavoro del gruppo, e il suo è il leader del progresso. Il coordinatore-didatta farà in modo di unificarli. Un gruppo funziona quando il ruolo di leader è sostenuto da tutti i membri. Se non c’è rotazione di leadership e queste sono fisse, ne può derivare lo scontro dei due sottogruppi. La funzione del coordinatore sarà quella di mostrare che i sottogruppi indicano aspetti del compito. Vale a dire che ciò che ciascun sottogruppo esprime, spesso attraverso i suoi leader, sono versioni sul compito. Per questa ragione è indispensabile una rotazione della leadership ma non il suo annullamento.

I processi negoziali nell’ambito dei gruppi di formazione
Accreditate definizioni del processo conflittuale concordano nel ritenere che esiste “conflitto ogniqualvolta esistano attività incompatibili”. All’interno di una visione sistemica torna efficace la definizione di conflitto in quanto contesto in cui possono avvenire procedure di riaggiustamento per ridurre e risolvere l’opposizione, mediante concessioni reciproche.
In questa ottica il concetto chiave diventa quello della cooperazione piuttosto che quella del consenso, essendo la cooperazione un processo relativo alla soluzione di un problema in termini tali da rendere possibili il permanere di differenze anche fondamentali. Essa richiede un insieme di procedure condivise e comunemente accettate, giocate essenzialmente su regole attinenti la negoziazione. La negoziazione “si basa sull’accettazione delle differenze e sul desiderio di raggiungere delle mete condivise”. La negoziazione è, inoltre, qualitativamente diversa dal compromesso, che si riferisce a posizioni in contrasto, in attesa di una decisione del tipo “meglio poco che nulla”. Uno dei problemi fondamentali nell’analisi del conflitto consiste, perciò, nell’individuare le caratteristiche, i meccanismi e i processi che rendono il conflitto positivo o negativo, nel comprendere, ai fini del funzionamento del gruppo, quali modalità consentano una “gestione produttiva delle divergenze” e se sia possibile facilitare tale processo. Il conflitto emerge anche in assenza di assoluta incompatibilità di scopi: può avvenire, cioè, sia in un contesto competitivo che in un contesto cooperativo.
La competizione o la cooperazione sono due modalità fondamentali di conduzione del conflitto, rilevanti non solo in relazione all’esito di questo (accordo o perdita-vincita), ma anche in relazione al processo che la sua gestione implica o ai fattori che possono influenzare le sue possibili soluzioni in modo soddisfacente per le parti coinvolte. Naturalmente la risoluzione positiva o negativa degli elementi conflittuali è consentita dalla complessa serie di trattative e scambi che punteggiano il corso del conflitto. Da quando, in ambito psico-sociale, si è posta attenzione ai fenomeni conflittuali, è divenuto patrimonio comune l’uso del termine “negoziato” o “negoziazione”.
E’ noto che elementi comuni a qualsiasi tipo di negoziato mediante i quali è possibile ricavare, in prospettiva, utili indicazioni per una gestione operativa del processo più efficace debbano essere i seguenti:
- che le parti riconoscano di essere in contrasto;
- che le parti riconoscano la necessità di pervenire ad una composizione del contrasto;
- che le parti si accordino sulla scelta di un luogo in cui concretizzare i loro tentativi di soluzione;
- che le parti operino con dinamismi per raggiungere degli obiettivi.
Se alla parola “parti” si sostituisce il termine “sottogruppo” possiamo provare ad individuare quali strategie utilizzano i sottogruppi, nell’ambito dei contesti di apprendimento, per la gestione degli inevitabili conflitti che vi si generano.
Vanno, a tale riguardo, menzionati alcuni criteri di orientamento che rendono più agevoli le strategie di concordato tra i sottogruppi. I fattori che, ad esempio, riducono le condotte competitive propiziano il ricorso a strategie di mediazione; così come le condizioni di “impasse” sollecitano le disponibilità delle parti a condurre negoziati.
Se questi presupposti li caliamo nella realtà dei gruppi in apprendimento possiamo, allora, ipotizzare che “mediare una accordo sulle varie versioni di una definizione che possono venir fuori nell’ambito di un processo di apprendimento, significa affidare ad un coordinatore-didatta una posizione meta che consenta lo scambio dialogico, al fine di favorire un comportamento collaborativi fra le parti in disaccordo”.
Si può produrre un’esemplificazione a partire da un episodio concreto.
Durante un incontro di esercitazione didattica, è stato registrato uno scarto nelle abilità allo sviluppo del compito tra i due sottogruppi di lavoro. Il registro esperienziale mostra la diversa efficacia nello sviluppo del compito. Lo stile di svolgimento, concretizzatosi con modalità differenti nell’ambito di ciascun sottogruppo, si è rivelato maggiormente proficuo nel sottogruppo caratterizzato dalla presenza di dinamiche competitive rispetto all’altro sottogruppo, apparentemente privo di relazioni conflittuali. La dinamica competitiva ha, infatti, organizzato, all’interno delle relazioni, regole e strategie di concessioni reciproche, che si sono rivelate proficue per un’operazione produttiva delle nozioni. Nell’altro l’assenza apparente di un regime competitivo, la persistenza di una dimensione di a-conflittualità, l’orientamento verticale nello svolgimento del compito si è rivelato meno efficace.
Si può concludere, dunque, che un processo negoziale nell’ambito di un gruppo in formazione appartiene, in parte, alla dinamica relazionale che la configurazione di ciascun sottogruppo mette in essere per lo svolgimento del compito ed, in parte, alla direttività del didatta che concilia e media le diverse posizioni rispetto ai significati, utilizzando accorgimenti strategici mediati dal registro relazionale. Il negoziato è, anche in questi contesti, qualche cosa di più di un semplice baratto: è un delicato processo di raccolta e di organizzazione delle informazioni che, opportunamente pilotato, può operare una trasformazione del conflitto da paralizzante a potenzialmente efficace e, quindi, costruttivo per l’apprendimento. Tale trasformazione risulta, alla fine, rispettosa della nozione, oramai universalmente acquisita, che il conflitto sia un’esperienza fondamentale in qualsiasi rapporto d’interazione, essendo, per le sue emergenze fortemente catalitiche, un potente attivatore di rapporti.

Bibliografia



  • Bauleo A. J. (1978), Ideologia, gruppo e famiglia: controistituzione e gruppi, Feltrinelli Editore, Milano
  • Bion W.R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando Editore,Roma 1971
  • Bion W.R. (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Editore, Roma 1973
  • Bleger J. (1992), Simbiosi e ambiguità, Lauretana Editore, Loreto
  • Ossicini A.(1981), Kurt Lewin e la Psicologia Moderna, Armando Editore, Roma
  • Lo Verso (1985), La gruppoanalisi tra istituzione interna ed esterna: un modello clinico ed ermeneutica, Quaderni di Psicoterapia di gruppo, n°4 Borla Editore, Roma
  • Pichòn- Rivière E.(1977), Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Lauretana Editore. Loreto 1985