venerdì 6 aprile 2007

LA MEDIAZIONE CULTURALE, L'ESPERIENZA NELL’ ATTIVITÀ CONSULTORIALE

Moira Puntelli

Settore Intercultura Istituto di Terapia Familiare di Firenze


Le frasi che vi farò vedere sono frasi prese dalla strada, pronunciate spesso senza astio nella vita quotidiana, e possono essere pronunciate anche con preoccupazione rivolta verso la condizione di alcuni stranieri.
Quanti di voi, tra i presenti hanno pronunciato frasi simili a queste, o le hanno approvate durante una discussione?

“In sostanza c’è che sono diversi da noi e non possono andare d’accordo
con noi... e poi sono troppi..”
(La diversità come mostruosità)

“In realtà è che non hanno voglia di lavorare e faticare... a fare la prostituta guadagnano sicuramente di più...”
I venditori ambulanti?.....
chi...? i marocchini...?
Sei proprio uno zingaro vestito in questo modo!!!!!
(processi di categorizzazione/generalizzazione)

“D’altronde non sono a casa loro, e quindi si devono adattare alle nostre usanze, alle nostre leggi..”
“ma ora che sono qui, che necessità c’è di mettersi il velo o non mangiare carne di maiale... qui sono liberi, d’altronde si devono integrare alle nostre tradizioni..”
(il noi, il nostro contesto)

La nascita del pregiudizio deriva anche dal graduale assorbimento di luoghi comuni, dalla valutazione della propria cultura di appartenenza come superiore, più moderna, più adeguata, dalla paura di perdita delle proprie tradizioni, e quindi da un irrigidimento dei propri parametri di normalità, che non si possono confrontare con il diverso, perché l’altro è sicuramente primitivo, selvaggio, non adeguato. E’ significativo infatti l’uso di un linguaggio dicotomico tra un Noi ed un Loro, tra il nostro paese ed il loro.. tra un qui ed un là, ed un pensiero semplificato per categorie, dove spesso si identificano e mescolano più persone diverse tra loro, tradizioni differenti, popoli diversi... (i marocchini, gli albanesi, i mussulmani, gli orientali...)
Senza voler addentrarci nella discussione teorica di cosa significa integrazione, e quando questa è possibile, vorrei fare una breve riflessione sulle dimensioni emotive in cui si muove il popolo “accogliente”, e quello “accolto”, termini a larga misura utilizzati, nei laboratori teorici di studio dei processi migratori. Per comodità di esposizione utilizzerò, seppur in modo non appropriato, il termine “paese accogliente” od “ospitante”.

La parola immigrazione/emigrazione spesso è sinonimo di malessere, fisico e psicologico, tanto che l’identità dello straniero si costituisce e definisce con i termini della SOLITUDINE della DEPRESSIONE e della NOSTALGIA, che diventano gli elementi costitutivi e non solo compartecipanti l’identità stessa del migrante. In questo modo viene negata una parte importante della storia stessa dell’immigrato, carica di sentimenti ambivalenti legati alla speranza ed al dispiacere di lasciare la propria terra, famiglia, affetti. Agli attributi negativi (spesso ben individuabili) della storia della migrazione si contrappongono attributi positivi legati alla spinta stessa della migrazione che se da una parte spesso scaturisce da una saturazione di difficoltà incontrate nel paese di origine, altrettanto spesso contiene in sé la carica della SPERANZA di un miglioramento, del DESIDERIO di scoperta, di CURIOSITA’ verso ciò che è altro, di RICERCA di una nuova possibilità. Il migrante inoltre non parte sterile e vuoto dal proprio paese, ma porta con sè storie familiari, l’esperienza di una cultura, occhi diversi per l’osservazione dei fenomeni, una conoscenza empirica della propria terra, e questo, quando la diversità non è solo mostruosità, non può che arricchire la cultura ospitante. Voglio ricordare una ipotesi a cui io tengo molto, rispetto all’arricchimento ed alla trasformazione della società in seguito ai processi migratori, trasformazione (negativa o positiva che sia valutata) che spesso con pensiero Eurocentrico o meglio Occidentale, si considera avvenga solo nei paesi ospitanti, in realtà sono convinta che le migrazione modifichino direttamente ed indirettamente sia il paese ospitante che il paese di origine dei migranti, una trasformazione processuale, sofferta e longitudinale, che porta alla formazione di una società, che ha e mantiene le radici nella stessa terra di nascita, ed i germogli nei colori e sapori di altre terre.Una trasformazione dunque lenta, che prosegue per prove ed errori, sicuramente diversa dalle trasformazioni fino ad ora avvenute in seguito alle colonizzazioni od evangelizzazioni, diversa nella misura in cui la dignità dei popoli e della cultura di cui sono portatori, possa essere confrontata su uno stesso piano, ed attraverso una lenta poliedrica che faccia vedere di ciascun individuo la molteplicità degli elementi socio-culturali, e personali-familiari di cui è il prodotto. Per questo quando si parla di percorsi di integrazione bisogna partire dalla quotidianità, dalle piccole cose di tutti i giorni, per cercare poi di trarre da queste esperienze ipotesi teoriche su cui agire, per lavorare come gli artigiani del mosaico con pazienza a tutti i tasselli, piccoli ma fondamentali che costituiscono le persone, i popoli, le società e le loro credenze.
Quando si parla di stranieri, si è propensi a pensare di attivare strategie di aiuto per raggiungere, questa famosa e non ben definita, chimera dell’integrazione, e spesso gli operatori sociali, fondano la loro conoscenza dell’altro, e le basi della relazione di aiuto, dal momento dell’arrivo in Italia, volgendo il proprio sguardo in avanti, verso il futuro (“le cose che si devono o possono fare per aiutarti a vivere qui”), quando il migrante ancora sta guardando le cose che ha lasciato, ed elaborando il proprio distacco dal cordone ombelicale della propria terra... ecco che la relazione di aiuto fallisce, perché gli sguardi hanno verso e direzione opposta. Si delinea, dunque, sempre più importante la condivisione e la conoscenza di tutte le tappe del “viaggio” affrontato dalla persona, soffermandosi in particolare sui preparativi della “valigia”, cosa che ci permette di scoprire con quale bagaglio emotivo-psicologico-sociale ci si deve confrontare.
Il ciclo della migrazione prevede tappe non sempre facili da superare, frontiere non solo geografiche, volontà non sempre condivise, disillusione di parte delle speranze o aspettative che avevano fomentato la partenza.
Può capitare quindi che il migrante si trovi privato, durante questo “viaggio” metaforico e non, degli strumenti della cultura di origine, o delle risorse e modalità che la cultura di origine gli potrebbe offrire per dare FORMA alla sofferenza, (pensate ai diversi tipi dei rituali del lutto, ed al significato che tali rituali hanno), per dare un significato, una comprensione ed un modello di comportamento ai cambiamenti del ciclo vitale, passaggi che in alcune culture possono essere vissuti come un fatto privato, ed in altre ad esempio come un fatto sociale, ben determinato e ritualizzato (pensate ad esempio ai riti di iniziazione all’età adulta, che in alcune culture è un passaggio ben determinato nel tempo, in qualche modo verificabile, e con comportamenti ritualizzati, mentre nella cultura occidentale è un passaggio molto sfumato).
La persona quindi si trova pericolosamente in bilico tra i vecchi ed i nuovi valori, tra due modalità di attribuzione dei significati dell’esperienza vissuta, ed il rischio è che sia i nuovi che gli antichi valori siano privi, in quel momento, di un significato ed una forma veramente convincente.
Ecco che da questa lotta di significati e valori, del vecchio e del nuovo, si presentano le possibilità di insediamento nel nuovo territorio, in modo schematico vi cito solamente la nominazione attribuita ai vari “stili di attaccamento” alla cultura del paese ospitante:

ASSIMILAZIONE/GHETTO EMARGINAZIONE/INTEGRAZIONE.

Questa lotta di valori, e tradizioni, molto evidenti nei processi di migrazione delle persone, può far sorgere il rischio di assegnare ad una persona una identità determinata dalla cultura di appartenenza, o meglio quel che più spesso accade determinata da ciò che noi pensiamo siano i valori ed i principi di questa cultura. Se così fosse sarebbe molto più facile gestire l’utente o “curare” il paziente. Questo incasellamento in parametri rigidi, ed in schemi descrittivi, oltre ad essere fittizio, e de-personalizzante, confina l’individuo in spazi e tempi immodificabili, la trasformazione ed il cambiamento intrinseco al solo fatto della migrazione, viene negata in un tentativo di cristallizzare e fermare ciò che è in processo.
Da queste considerazioni sorge l’esigenza durante la formazione sia del mediatore culturale che dell’èquipe di lavoro, di porre l’accento sulle sub-culture esistenti in una cultura, sulle specificità delle tradizioni e miti familiari, sui processi di negoziazione, che ciascun individuo (italiano o straniero) attua, sui valori e culture sconosciute, sulle esperienze fatte, cosa che rende l’individuo unico. Nel nostro modello di riferimento il mediatore culturale è una persona immigrata, che diventa attraverso una formazione teorica ed emotiva, un professionista della migrazione, partendo proprio dalla propria esperienza di “viaggio”, e dalla possibilità di riordinare ed arricchire i contenuti della propria “valigia”, per poterla aprire, mostrarla agli altri, aggiungerci nuove cose, attingervi senza paura quei vestiti che rassicurano e avvicinano all’altro per poter facilitare un ascolto, ed essere riconosciuti. Il mediatore lavora in una terra di confine, tra italiani e stranieri, è l’anello di congiunzione di due realtà diverse. Dalle considerazioni sopra fatte inoltre, uno dei requisiti chiesti per accedere al corso di formazione di mediatore culturale, è quello di avere contatti frequenti con il proprio paese, proprio perché ciò rende il mediatore in continuo contatto con le trasformazioni sociali e di pensiero della propria cultura di origine, mantenendo così un pensiero non solo di ciò che è stata, ma in particolare di ciò che è la propria cultura di origine, un pensiero reale e non anacronistico, od estremamente idealizzato.
La Formazione dell’équipe di lavoro è il passo preliminare e necessario per svolgere una attività di mediazione, sia essa nei consultori o nelle carceri, è il primo processo di integrazione che si svolge tra gli operatori ed i mediatori culturali, che dovranno ridefinire gli spazi ed i tempi, i linguaggi da utilizzare, le nuove modalità di relazione. La formazione quindi diventa un piccolo laboratorio sperimentale di ciò che potrà accadere nella relazione con l’utente, è il primo luogo di sperimentazione della mediazione che passa anche dalla conoscenza delle culture e delle persone, dalla condivisione di storie, risorse e difficoltà.
Da qui nasce l’importanza e la capacità di far emergere, accogliere altri tipi di pensiero (pensate al pensiero magico od animista preponderante in alcune culture), e di dare un significato alle altre modalità di raccontare e rappresentare i sintomi di una malattia, o di una gravidanza, od ancora di eventi critici.
Il pensiero razionale è l’unico accettato del nostro tipo di cultura, e la ricerca dell’oggettività e verificabilità scientifica sono gli strumenti utilizzati per comprendere la realtà, altri tipi di pensieri sono definiti “selvaggi”, “primitivi”, senza dignità. Un approccio di questo tipo, impedisce al paziente straniero di dar parola al proprio stato d’animo, perché quella parola è carica di significati considerati primitivi.
Il mediatore si troverà quindi ad affrontare ed utilizzare per esempio, l’ambivalenza oscillante tra la dignità di un rito o di un rituale, e la dignità del pensiero logico-razionale, si troverà a far interagire nell’immediatezza del presente i valori derivanti dal passato (cultura di origine) ed i valori del futuro (paese ospitante). Per far questo il mediatore deve saper utilizzare la propria esperienza di immigrato, per ritrovare il “codice materno”, cioè quello che è “dentro” che rappresenta la patria perduta, e ciò che è fuori, “il codice paterno”, che rappresenta la società in cui l’individuo è migrato, con le sue regole ed i suoi codici, come è già stato definito da altri autori.
In questo modo il mediatore potrà parlare sia agli utenti, sia con l’èquipe di lavoro, integrando il pensiero immaginifico ed il pensiero razionale, il codice materno e paterno. In questo senso il mediatore non può essere un semplice interprete linguistico, o solo un divulgatore di abitudini, piuttosto potremo definirlo un rielaboratore di pensieri, un decodificatore di significati ed attributi.

Esempio di mediazione tra assistente sociale e famiglia senegalese
L’èquipe di lavoro deve dunque trovare un linguaggio comune supportato con strumenti come schede tecniche per la raccolta di informazioni elaborate insieme.
L’interpretazione o meglio la rilettura di certi comportamenti, l’ascolto facilitato, aiutano così a formulare una corretta “diagnosi”. Un esempio di fraintendimento culturale è il seguente:
Una donna senegalese si rivolge all’assistente sociale per un sussidio economico, e per la cura e la riabilitazione del proprio figlio di 5 anni, che si è bruciato una spalla mentre la mamma cucinava.
L’assistente sociale fa la visita domiciliare e vede il seguente quadro domestico:
nell’ingresso, appoggiati per terra dei borsoni strabordanti di oggetti vari, impediscono quasi il passaggio; i divani e le sedie sono stati tutti spostati in un angolo, al posto del tavolo da cucina c’è una grande stuoia appoggiata per terra, circondata da cuscini di varia misura e forma, nell’altro angolo, poco distante, un fornelletto da campeggio appoggiato per terra, con sopra un grosso pentolone fumante, poco distante la bambina di 12 anni intenta ad impastare, seduta per terra, il pane, i fratellini a piedi nudi, seduti per terra stanno mangiando della carne, disposta su un grande piatto unico, con le mani.. Nella stanza accanto tre o quattro uomini senegalesi, chiacchierano a voce alta, seduti per terra su delle coperte di lana. Dopo un breve e faticoso colloquio, per le difficoltà linguistiche, l’assistente sociale, esce da quella casa con una sensazione di disagio, di confusione, si domanda perché una casa “decente” e “dignitosa” sia stata trasformata quasi in una capanna, senza mobiglio, dove si cucina e si mangia per terra, dove non vengono rispettate le norme igieniche, e dove i bambini non possono crescere bene, perché incustoditi, lasciati come piccoli selvaggi. Decide quindi di inserire un educatore territoriale italiano, con lo scopo di insegnare a queste persone almeno alcuni canoni di civiltà: mangiare sul tavolo, usare le forchette, cucinare sopra una cucina a gas, far “rispettare” la propria casa, cioè non aprire la porta a tutti i senegalesi (per di più uomini, senza famiglia), in qualsiasi momento, dare delle regole di comportamento adeguato ai bambini.... Inutile dire che questo progetto educativo è fallito ben presto, sviluppando una diffidenza ed un rancore tra l’assistente sociale (che dice di aver fatto di tutto per aiutarli) e la famiglia senegalese (che si è sentita invasa, giudicata e non ascoltata). Queste difficoltà iniziavano a farsi sentire anche nelle scuole dove i bambini erano inseriti, e così dalla scuola è arrivata la segnalazione e la richiesta di una mediazione. Il mediatore senegalese, che abbiamo inserito, ha lavorato dunque su tutti e due i fronti, con l’assistente sociale, per farle notare che il progetto educativo da lei elaborato, aveva dei valori tipicamente italiani, e non considerava gli usi e costumi del popolo senegalese, quale quello di mangiare in un unico piatto, con le mani, e di avere un grande senso dell’ospitalità e della vita comunitaria, non per forza identificabile con promiscuità; e con la famiglia senegalese, per far accettare loro, alcune delle richieste fatte dalla società italiana, come la frequenza scolastica, la possibilità di essere aiutati come nucleo famigliare, la possibilità di riaprire un dialogo con le istituzioni, senza la paura di essere inglobati ed “italianizzati” se avessero modificato alcuni comportamenti più funzionali alla situazione climatica e reale del paese in cui risiedono. Il mediatore ha potuto ottenere un successo, e facilitare la trasformazione dei costrutti mentali cristallizzati nei parametri dei singoli valori culturali dell’assistente sociale e della famiglia senegalese, grazie a tutto ciò che lui rappresentava,in quel momento, sia come immigrato proveniente dal Senegal, sia come professionista riconosciuto dall’équipe di lavoro.

La mediazione in carcere
Un comportamento molto diffuso tra i detenuti, è l’autolesionismo. L’autolesionismo così come il suicidio ed il tentato suicidio in carcere hanno una percentuale molto più alta, rispetto al mondo “fuori”, di questa percentuale, il numero dei detenuti stranieri che cade in questi comportamenti è ogni anno più alto.
Alla domanda perché ti tagli, (da un indagine condotta in un percorso di ricerca interuniversitaria finanziata dal Murst) alcuni detenuti hanno risposto:
“perché è l’unico modo per sentirmi vivo”
“io lo facevo quando mi sentivo disperato... mi tagliavo, sentivo il dolore.. e mi calmavo”
“a volte lo facevo per sentire che esistevo... quando ti senti come se non esistessi, il dolore fisico ti fa sentire di nuovo come se fossi vivo”.
“il dolore, il sangue le urla, l’infermiera... per un po’ sei al centro dell’attenzione..”
La mediazione in carcere, in una ottica di prevenzione all’autolesionismo, si può articolare:

  1. mediazione come possibilità di dare un nome alla propria sofferenza, raccontandola e condividendola con qualcuno che parla la stessa lingua, ed o ha un retaggio culturale e tradizionale conosciuto, una storia di migrazione...
  2. mediazione come possibilità di avere una rete esterna (volontari della stessa etnia e non) che possano veicolare e facilitare affetti ed emozioni, tra chi sta dentro e tutto ciò che c’è fuori...per ridurre isolamento

Data la peculiarità del carcere, dove spesso il pregiudizio e la paura si acuiscono, l’inserimento del mediatore nell’èquipe di lavoro richiede una particolare attenzione. La forma relazionale privilegiata tra il detenuto e l’istituzione penitenziaria, è regolata da un rapporto di dominio, dove i ruoli sono chiari, rigidi e preordinati. Quindi il mediatore carcerario deve, prima di tutto definire il proprio ruolo, con regole e spazi ben delineati e condivisi da tutta l’équipe di lavoro, e saper muoversi in un clima che non sempre è collaborativo, spesso è svalutante ed escludente, saper respirare un’aria di sofferenza, mista alla violenza e all’impotenza, alla rabbia, alla paura ed alla speranza...
Resta comunque un luogo, con norme e regole molto più rigide, con realtà diverse, lealtà silenziose, ed in cui la sofferenza e la disperazione sono molto frequenti.
Per questo il mediatore deve essere ancora più attento al lavoro di èquipe, e deve prima di tutto mediare e costantemente mediare con l’èquipe di lavoro.

Il progetto prevede

  1. formazione di tutta l’equipe di lavoro, per la condivisione degli obiettivi, e la riformulazione dei tempi e delle modalità di intervento del mediatore, partendo dalla specificità del clima di quel carcere;
  2. facilitazione linguistica, traduzione di cartelli informativi, collaborazione durante i colloqui...
  3. gruppi di lavoro strutturati ad esempio: visione e discussione di una commedia teatrale marocchina, traduzione della stessa, divulgazione al gruppo di detenuti italiani e non, dell’attività teatrale (il mediatore in questa fase lavora con l’insegnante di teatro), messa in scena della commedia;

  4. formazione di una rete esterna di volontariato, per i colloqui con parenti ed amici, o per lo scambio epistolare.

    Il mediatore quindi lavora anche all’interno del carcere per facilitare una integrazione, perché spesso i detenuti stranieri diventano degli “emarginati nell’emarginazione”, raggruppandosi in gruppi chiusi, di difficile gestione, inoltre, anche per gli istituti penitenziari. Ridar voce, riconoscere l’identità, rispettarne le differenze, e promuovere percorsi di integrazione all’interno del gruppo di detenuti, è un passo verso la possibilità di una riabilitazione sociale, e di far del periodo di detenzione non una espiazione sottomessa dei propri peccati, ma una rielaborazione dei reati, un luogo anche di apprendimento di nuove abilità,
    e strumenti, per potersi permettere un cambiamento.


Il caso
L’importanza del lavoro d’èquipe lo posso riportare in questo banale ma importante episodio.
Il mediatore marocchino, stava effettuando in carcere dei colloqui individuali in collaborazione con l’educatore, fungendo almeno fino a quel momento da interprete. Si presenta un detenuto italiano, e l’educatore gli presenta il mediatore e gli chiede se ha nulla in contrario se quest’ultimo presenzia al colloquio. Il detenuto, coglie subito l’occasione per porgere le sue lamentele del compagno di cella, straniero, marocchino e puzzolente, proprio perché non si lava. Con lui ha avuto molte discussioni ed ora chiede un trasferimento, ma non vuole stare più con i marocchini perché puzzano. Il mediatore chiede al detenuto da quale zona del Marocco proviene il compagno di cella, e da quale città. Il mediatore racconta un po’ come sono quei paesini, gli racconta la vita di quel paese ancora senza luce elettrica e senza l’acqua, dove l’acqua deve essere usata con parsimonia, ed è un bene prezioso. Il detenuto si chiede se è per quello che il suo compagno di cella è così reticente a lavarsi...
Il mediatore e l’educatore, rinforzano l’aspetto positivo di questa condivisione, che ha potuto scemare di molto l’aggressività iniziale, e viene detto al detenuto che questa informazione da lui riportata è stata molto importante, e che da queste necessità rilevate, il mediatore e l’educatore parleranno con il compagno di cella per stimolare un comportamento più pulito.
Questo è un piccolo esempio, di difficoltà quotidiane, che acuite sfociano in comportamenti xenofobi ed aggressivi. L’educatore si è sentito molto supportato dall’intervento del mediatore, e per il detenuto aver conosciuto uno straniero “diverso” dal compagno di cella, ed aver recuperato una dimensione più umana, e non culturale generica, delle difficoltà relazionali con il vicino di letto, ha aiutato, con un piccolo passo, l’integrazione e la convivenza.
La mediazione culturale, come avete notato dagli esempi riportanti, agisce sulle piccole cose quotidiane, il mediatore dà molta importanza alle difficoltà reali incontrate nella quotidianità agli stereotipi banali, alle incomprensioni nate dalla vicinanza, giorno dopo giorno, e agisce su queste.
Ringrazio pertanto l’associazione El Kandil, che mi ha dato la possibilità di sperimentare la ricchezza e la fatica di un lavoro interdisciplinare (con assistenti sociali, insegnanti, avvocati, medici...) ed interculturale (grazie alla collaborazione di stranieri provenienti dal tutto il mondo, dall’Albania, dal Marocco, dal Senegal, dalla Russia, dal Perù, dall’Equador, dalla Siria, dalla Cina…)