venerdì 6 aprile 2007

TESTIMONIARE NELLA MEDIAZIONE - Verso un'Etica Estetica della Pratica

Sara Cobb

Direttore dell’Istituto per l’Analisi e la Soluzione
del Conflitto George Mason University; Fairfax, VA U.S.A. scobb@gmu.edu


(noi possiamo) (ri)pensare l’emancipazione nei termini di un’etica estetica in cui l’individuo ha la capacità di reinventare il proprio modo di essere, di rappresentare… una forma di trasfigurazione in cui l’individuo vede sé stesso come un’opera d’arte. (Jabri, p. 592)


Forse il professor Fiss2 aveva ragione – la mediazione fornisce alle parti il luogo in cui fuggire lo spazio normativo della legge, in cui il giudizio, attraverso il processo della lite, può “portare una realtà recalcitrante più vicina agli ideali che ci siamo scelti” (Fiss, 1984, p. 1089). Forse, la mediazione, promuovendo un movimento precipitoso (se non ostinato) verso l’accordo, inaridisce il giudizio normativo e anche l’etica, prima di avere la possibilità di crescere verso la sfera pubblica in cui può “raddrizzare” le ingiustizie. Forse la “dispartià di risorse” che preoccupa il professore Fiss può solo essere riconosciuta e riequilibrata nel ambiente formale legale, e quindi, la mediazione funziona come una perfetta (bio)cultura in cui il fungo degli squilibri di potere, prospera, e colonizza le relazioni. Come mediatore, Owen Fiss continua a punzecchiare la mia coscienza; egli siede, simile ad un’arpia, guardando da sopra le mie spalle quando esercito – per le sue ammonizioni, preveggente nel 1984 quando scrisse “Against Settlement”, ci chiama, entro il campo della mediazione, a riflettere sulle strutture normative attraverso cui possiamo valutare la pratica della mediazione. Certamente, la promessa fondamentale (e tecnica3) dell’ADR non ha fornito al campo della mediazione nient’altro che una struttura morale pragmatica, che messa alla prova, come è stato fatto da Fiss, si sgonfia4.
Ma da quando Fiss ha scritto questa ammonizione, ci sono stati sviluppi normativi nella mediazione. Forse il più degno di nota, Bush e Folger nel loro libro The Promise of Mediation (1994), offrono un’alternativa all’ethos dell’accordo – un focus sulla trasformazione nelle relazioni attraverso la promozione di rispetto e riconoscimento. Ma se questo libro è dirompente per il fatto di offrire un’etica alternativa per la pratica, attinge alla teoria psicologica per spiegare la produzione di rispetto e riconoscimento. Il risultato è, a mio parere, che mentre gli autori puntano in una buona direzione e lontano dall’accordo, la nuova teoria normativa inevitabilmente cade all’indietro verso una versione del romanticismo rousseauiano, perché la psicologia, ancorata fermamente all’Illuminismo, cerca di descrivere le relazioni nei termini di fenomeni intrapsichici come il rispetto e il riconoscimento, ma senza fare attenzione alla natura dell’interazione stessa quale processo normativo, noi siamo lasciati con l’intuizione alla pratica etica di base
5. D’altra parte, la nostra teoria normativa descrive lo stato finale normativo senza aiutarci a comprendere la pragmatica della conversazione che conduce a questo risultato. E senza una descrizione dell’etica basata sul processo, la nostra teoria deve fare affidamento sul processo della mediazione stessa – sulla presunzione che la struttura del processo condurrà inevitabilmente al rispetto e al riconoscimento.
Questo scritto tenta di fornire una base normativa per la mediazione che, se tutto va bene, complicherà la nostra comprensione etica di questa pratica. Nello specifico, elaborerò una critica del “riconoscimento”, seguendo Oliver (2000), il che mi permetterà di basarmi sull’etica della “trasformazione relazionale” alla base del modello trasformativo della mediazione, proposto da Bush e Folger. Attingendo da Oliver, argomenterò che il riconoscimento è un concetto, ancorato all’Illuminismo, che paradossalmente diminuisce piuttosto che consentirci di essere presenti agli Altri, richiedendo la loro estraneità. Differenza per poterci costituire come intero.
Al posto di questo concetto, offrirò il processo del “testimoniare” quale processo discorsivo attraverso il quale noi costituiamo la soggettività dell’altro e noi stessi nel processo. Inoltre, attingendo a Foucalt (1980) e Jabri (1998), argomenterò che l’etica del testimoniare non è pragmatica in natura, ma piuttosto estetica, perché è l’estetica che ci permette la creazione di un modello normativo per valutare la pratica narrativa. Infine, attingendo all’indagine elogiativa e alla letteratura sulle questioni circolari, fornirò una descrizione di questa etica estetica nei termini della pratica nel discorso, suggerendo che il modo di inchiesta promosso dal mediatore è etico se e quando destabilizza le narrazioni esistenti e apre all’incertezza, mentre, allo stesso tempo, stimola l’elaborazione del rovesciamento nelle traiettorie narrative. Da ultimo, il mio scopo è di elaborare una teoria normativa per la mediazione che è ancorata alla pratica del testimoniare ed evocativa di un’estetica della narrazione. Mentre questo non dissiperà lo spettro della critica che Fiss invoca, potrà fornire alcune formule magiche che possano essere usate per spostare il terreno su cui la discussione ha luogo, contribuendo entrambi alla nostra riflessione collettiva e alla nostra etica della pratica.


Il paradosso del “riconoscimento” come etica della mediazione
La teoria della soluzione del conflitto in generale, e la teoria della mediazione più nello specifico, si basa sulla nozione che i conflitti diminuiscono e le soluzioni sono create quando le parti giungono a “riconoscere” l’altro, non solo nel senso che loro conoscono l’altro, ma anche nel senso che attivamente segnalano tale conoscenza, lasciando che l’Altro sappia, nel processo, che loro stanno vedendolo o ascoltandolo. Tuttavia, come Oliver (“Beyond Recognition”) sottolinea, il “riconoscimento” è una nozione Hegeliana che è stata costruita contenendo una nozione di relazione umana che porta con sé un’etica problematica e paradossale per la mediazione:


…le teorie (del riconoscimento) descrivono il modo in cui noi vediamo noi stessi nella nostra somiglianza allo stesso modo o all’opposto di quelli che sono differenti da noi stessi. Le relazioni con gli altri sono descritte come lotte per il riconoscimento. Ma se partiamo dall’assunzione che le relazioni sono essenzialmente lotte antagonistiche per il riconoscimento, allora non meraviglia pensare a quanti teorici contemporanei impieghino tanta energia cercando di immaginare come queste lotte possano portare a relazioni personali compassionevoli, relazioni sociali etiche, o relazioni politiche democratiche. Sulla base dell’assunzione che le relazioni umane sono essenzialmente simili a guerre, come possiamo immaginarle come pacifiche? (Oliver, 2000, p.31)



L’autrice mette in dubbio la nozione che “la soggettività sia il risultato del conflitto ostile” (p.31), e rifiuta le teorie associate dell’identità che costruiscono la soggettività come pre-formata, precedente all’impegno, alla conversazione. Inoltre critica la nozione di Taylor che il riconoscimento è “conferito” all’Altro da un soggetto giudicante che ha trovato un “valore” nell’Altro.
Questa valutazione è un’attività intellettuale per Taylor, e conduce verso ciò che Oliver chiama “un mercato di scambio (in cui) noi diamo riconoscimento in cambio di qualcosa per noi prezioso” (Oliver, 2000, p.33). Taylor non solo presume un soggetto preformato, ma anche presume, al centro dei processi intersoggettivi, che il giudizio circa il valore dell’Altro non sia di per sé contaminato dal processo dell’impegno intersoggettivo e da tutte le potenti relazioni che sono attivate in quell’incontro. In questo modo l’intersoggettività, secondo la formulazione di Taylor, non produrrà automaticamente né una struttura normativa per la valutazione dell’Altro, né noi potremo contare su di essa per produrre una trasformazione delle relazioni di quelli coinvolti. Fino a che il valore dell’Altro nasce (o meno) dal giudizio intellettuale (la valutazione del valore dell’Altro), i soggetti sono destinati a riprodurre le relazioni di potere e di cultura che mantengono invisibile l’invisibile, naturalizzando il già conosciuto. Questa non è la base per relazioni trasformative, e costituisce una base inadeguata per la struttura normativa proposta da Bush e Folger (1994).
La soluzione di Oliver si basa sul lavoro di Judith Butler
6, la quale assume che gli spazi intersoggettivi sono spazi di performance in cui la soggettività conta sui processi di esclusione e preclusione per pilotare non solo la relazione con l’Altro, ma anche la relazione con sé stesso. Così mentre Butler ci ha aiutato a focalizzarci sul processo attraverso cui la soggettività emerge, questo processo è uno in cui l’oppressione e l’esclusione dell’Altro entro il soggetto e da parte del soggetto può solo riprodurre la paura e l’odio (per sé e l’altro): “la teoria di Butler non può mai portarci fuori da una nozione “noi contro di loro” della relazione tra sé e gli altri, entro la quale noi possiamo solamente ripetere il trauma originale alla portata di mano di altri e reagire con rabbia diretta a noi stessi e agli altri” (p.39). così mentre Butler ci rende capaci di vedere che i soggetti sono formati attraverso la prestazione negli spazi/processi intersoggettivi, l’autrice non ci aiuta a creare un etica per la conversazione o la mediazione del conflitto che possa fuggire la violenza che lei identifica con la nascita della soggettività stessa.
Dal momento che sono i soggetti stessi che forniscono sistemi dilatati o contratti (o in fase di espansione o contrazione) per l’esclusione, la soggettività stessa deve essere il luogo per la trasformazione, per l’evoluzione. Una volta che il problema è tracciato fino alla soggettività, siamo costretti (a mio avviso) a tirarci indietro fino a una soluzione che risiede entro gli individui, e, abbastanza sicuramente, Oliver ci offre la nozione di “vigilanza” quale antidoto alla condizione per l’esclusione di Butler per la soggettività e l’intersoggettività. L’autrice sostiene “la vigilanza nell’elaborazione, analisi e interpretazione del processo attraverso cui noi diveniamo quello che siamo, il processo attraverso il quale diveniamo soggetti e altri da noi, vigilanza nell’interpretare la natura dialogica del sé e il nostro investimento negli altri” (p. 39). In qualche modo, se noi ci proviamo sul serio, (la vigilanza), o se siamo attenti, vigili, possiamo sfuggire la forza centrifuga del solipsismo a causa della quale usiamo la condizione dialogica entro cui viviamo per riprodurre i modelli di esclusione nucleo della riproduzione di sé e dell’altro. A mio parere, noi non possiamo basare un’etica per la pratica della mediazione sulla vigilanza. Se la condizione per la soggettività, il campo della sua creazione è l’intersoggettività e il dialogo, allora noi dobbiamo progettare una pratica etica che esista in quello spazio relazionale, e occuparci non dei processi intrapsichici o psicodinamici, ma delle condizioni che regolano la conversazione entro quello spazio relazionale
7. Nella sezione che segue, argomenterò il fatto che mentre il “riconoscimento” non può fornire le basi per una teoria normativa della pratica della mediazione, la “testimonianza” può, poiché permette di focalizzare l’attenzione sul discorso, sul processo conversazionale che costituisce il campo in cui le relazioni sono costituite e trasformate. Mentre il “riconoscimento” è un concetto che si riferisce ad un’attività cognitiva interna del soggetto, il testimoniare è un verbo, una pratica nell’interazione che si riferisce non agli individui, ma all’interazione stessa.


Testimoniare: un’Etica per la Pratica Trasformativa.
Le persone giungono alla mediazione per trovare un rimedio, non una soluzione, come Fiss (1984) ha suggerito. Vengono non solo per sistemare una disputa, ma per raccontare la loro storia
8, per essere ascoltati, per narrare la loro sofferenza e parlare dell’ingiustizia. La mediazione è potenzialmente riparativa, non solo per il problema, ma per la relazione tra le parti e per l’ordine sociale stesso. La storia della vittima che invariabilmente da inizio a una sessione di mediazione (su entrambi o più lati del conflitto) deriva la sua forza e la sua traiettoria, la sua capacità di attaccarsi, dalle ferite che vengono nominate, e le armi che vi sono associate. I conflitti hanno, alla loro base, una storia di sofferenza che, quando viene lasciata apparire, ri-centra l’attenzione sul dolore, l’esclusione, la violenza delle azioni dell’Altro (i). Poiché le storie delle vittime sono sempre una storia di sofferenza, funzionano anche come un lamento di ingiustizia e una richiesta di rimedio.
Questa visione della mediazione come insieme di storie di sofferenza rende più profonda la nostra visione del fenomeno della mediazione stessa; la mediazione, come ogni altra “conversazione”, incluse quelle negli ambienti formali legali, è un processo in cui un mondo di significati e un insieme di relazioni associate sono portati avanti attraverso e nel processo del raccontare storie. Fino al punto che ogni setting o conversazione è fonte di liberazione, è così in quanto funzione di quel processo di racconto di storie. Questo processo può contribuire a una nuova conoscenza del sé, nuovi modelli di interazione con gli altri, così come nuovi “inserimenti” istituzionalizzati per sé e l’altro negli ordini sociali e politici. Le storie che abitano e sono lanciate da una sessione di mediazione (o da un qualunque setting in cui la sofferenza viene elaborata) hanno la potenzialità di rendere il familiare strano e lo strano familiare, poiché le persone cominciano a elaborare storie differenti su di sé e l’altro. Storie di violenza
9 e di violazioni sono, come Girard (1977) ha notato, i posti in cui la storia di vittimizzazione, le sue origini, è costituita. E in questo processo, sia simbolicamente che letteralmente, le persone si raccolgono per dare un senso a chi ha fatto cosa a chi e perché. Mentre egli postula che noi siamo attratti, dal desiderio verso la vittima, al momento in cui escludiamo (o rendiamo abietta) la vittima, io preferisco bypassare la spiegazione per la quale noi ci riuniamo intorno alla vittima, e semplicemente cercare di capire cosa avviene quando le vittime appaiono – in che modo appaiono. In che modo il sistema morale, che conseguentemente emerge per giudicare e stimare la violenza, emerge, e in che modo pone le basi per altri setting sociali? In che modo questo processo da luogo sia alla comunità che alla legge stessa, come Girard sostiene che faccia? In altre parole, preferisco focalizzarmi sugli aspetti pragmatici del come delle storie delle vittime, così da poter tracciare il loro ruolo nella produzione del cambiamento sociale, così come permettere la loro trasformazione. In questo modo, spero di collegare il processo del testimoniare ai processi narrativi che sono critici nel racconto delle storie delle vittime.


Storie di Sofferenza
Scarry (The Body in Pain, 1985) ha notato che il dolore, proprio perché resiste al linguaggio (le persone trovano difficile rendere il dolore attraverso il linguaggio), spesso si rivela nella forma di una storia di ferite e armi. La sua descrizione del modo in cui i torturati localizzano la loro attenzione /descrizione sull’arma usata per infliggere dolore e sulle ferite che ne sono risultate è istruttiva, poiché fornisce ai mediatori un metodo per ascoltare il dolore. La sofferenza è una storia su di un evento innaturale, una qualche aberrazione, causata per accidente o intenzione, dalla natura o da persone, che porta alla creazione di ferite. Quelle “ferite” possono essere raccontate come perdite finanziare, o separazioni in sospeso dai bambini per via del divorzio, o degradazione ambientale, eccetera; la narrazione crea un legame tra le ferite (il risultato) e le armi (la causa) attraverso le azioni dell’Altro. Mentre gli studi degli oncologi possono essere luoghi in cui l’arma non è una persona, ma piuttosto un tumore
10, i setting della mediazione sono posti in cui ogni parte accusa l’Altro(i) di aver causato il dolore, di aver inflitto le ferite. Scarry si riferisce a questo linguaggio del dolore, questa costruzione di ferite causate da armi, come al “linguaggio di azione” e infatti, l’azione è interamente localizzata spesso all’esterno di chi parla, nell’Altro. Questo è in particolare il caso negli scenari di conflitto; in cui ogni parte combatte per stabilire e mantenere il ruolo di vittima per sé, e il ruolo di vittimizzatore per l’Altro; le sequenze della trama sono molto spesso lineari, per il fatto che legano un insieme di eventi che portano a risultati senza connettere le proprie azioni alla produzione di questi risultati. In questo modo, le storie di sofferenza si basano sul trame lineari, come opposte a quelle circolari. I temi morali mossi per giudicare le azioni dell’Altro sono usati simultaneamente per definire chi parla come morale, come buono. Da questa prospettiva, le storie di sofferenza non dovrebbero essere viste come resoconti storici di azioni, ma come resoconti politici che mobilitano un’etica per la valutazione delle azioni. Ma anche questa visione politica delle storie di sofferenza è piuttosto una visione strumentale della narrazione, e presuppone una relazione non-problematica tra narrazione e dolore, tra l’esperienza della violazione e il suo racconto.
Questa visione della sofferenza (come narrazione politica) è molto diversa dalla prospettiva di quelli che si focalizzano sul trauma, nel fatto che quest’ultima assume che chi racconta la storia possa essere incapace di narrare gli eventi perché a) sono resistenti alla spiegazione – la normale logica della narrazione non può contenere o tenere sotto controllo la violenza estrema (Langer, 1991); o b) sono psicologicamente incapaci di tirare fuori la storia, perché l’hanno rimossa, perché rimane più grande del sé (Felman e Laub, 1992). Emerge un senso molto chiaro in questo corpo di ricerche, per esempio dalle testimonianze dell’Olocausto, che la narrazione non può penetrarle perché, paradossalmente, non può rivelare o materializzare lo stupore, il silenzio, il capovolgimento, che accompagnano la violenza. Per questa ragione, Oliver (2000), seguendo Felmen e Laub (1992), argomenta che è il processo di dare testimonianza, che si riferisce, alternativamente, alla presentazione della conoscenza, credenza, o esperienza personale, che permette alle persone di sviluppare una qualche relazione con la violenza, in modo che possano tenerla sotto controllo attraverso la narrazione di storie e l’analisi. Ed è attraverso il raccontare che si suppone che le persone ritornino dalla violenza, si riprendano, guariscano (Herman, 1997). Vorrei suggerire che questa prospettiva terapeutica offusca la nostra comprensione, perché suppone che il problema circa la narrazione della violenza stia negli effetti psicologici della violenza, piuttosto che nella relazione problematica e paradossale tra la violenza e il linguaggio.
Basandoci su quest’ultima teoria, seguendo Scarry, è possibile vedere cosa è veramente unico nella testimonianza. La sua unicità è interamente legata al fatto che nessun’altra persona può testimoniare per qualcun altro:


Qual’è il significato della testimonianza, se è l’unicità della performance di una storia che è costituita dal fatto che, come un giuramento, non può essere portata avanti da nessun’altro? (Felmen e Laub, 1992, 205-206).



Oliver nota che è la performance della testimonianza, quale atto di porre lo straordinario nel linguaggio, che la rende unica, straordinaria. Ciò che rende notevole la testimonianza non è la natura degli eventi che vengono legati tra loro, nonostante il fatto che questi possano essere straordinari, ma piuttosto la performance in sé, l’atto, il processo di portare fuori il “silenzio e la cecità, inerenti all’evento”. E dato che è impossibile portare fuori il silenzio/cecità, l’atto di dare testimonianza è l’atto di rendere quest’impossibilità visibile, di metterla in linguaggio, anche se resiste al linguaggio. C’è molto che non può essere detto, e molto che resiste al linguaggio, anche a causa della terribile natura di quegli eventi (Langer, 1991), o, come Butler ha notato, a causa della condizione del linguaggio stesso – il referente non è mai la cosa cui si riferisce – il significante non è mai il significato, la mappa non è il territorio. Oliver si chiede perché è necessario testimoniare l’impossibilità di dare testimonianza, di essere testimoni, e risponde alla propria domanda argomentando che noi abbiamo bisogno di “ascoltare alla performance oltre il significato…” (p. 39), perché qualunque sforzo di testimoniare è uno sforzo di ripetere ciò che non può neanche essere ripetuto o rappresentato. Dunque la performance riguarda meno gli eventi cui si riferisce, e più la persona che parla, chi racconta, perché è nella natura di ciò che essi rendono abietto, ciò che escludono, ciò che lasciano non detto, ciò che formulano come Altro, che noi possiamo conoscerli. Attraverso la testimonianza di loro, ai limiti della soggettività, al margine dell’identità – lì, dove lottano per rendere la realtà intellegibile - è lì che noi possiamo vedere chi sono, con i ostri occhi, e lì che loro possono conoscere sé stessi. Così è lì, nel posto in cui le persone strutturano la loro sofferenza, in cui lottano per tenere sotto controllo l’esperienza, che hanno bisogno di essere testimoni. L’atto di rendere testimonianza, quando la gente testimonia la propria esperienza, apre spazi in cui chi racconta storie può occuparsi della propria dipendenza dall’Altro (escluso), uno spazio in cui possono re-iscrivere sé stessi, nella performance, per via dell’elaborazione con l’Altro. Questo è uno spazio trasformativo, precisamente perché la performance è sempre ai margini dell’ordinario, del quotidiano, dell’aspettato.


L’interpretazione configura e riconfigura i modi in cui noi concepiamo noi stessi e gli altri, e in tal modo aggiunge potere trasformativo alla mobilità del significato… (Oliver, 2000, p. 38).



Da questa prospettiva, le storie di vittimizzazione, o sofferenza, poiché emergono nella congiuntura in cui l’Altro (escluso) si rende visibile come “il cuore segreto che batte nel soggetto” (Oliver, p.37), sono esattamente il posto in cui la trasformazione è più possibile, perché la ripetizione implica riassegnazione di significati, forza i limiti dei discorso, del linguaggio, e dell’esperienza del sé-Altro. Ma questo spazio è critico per la trasformazione personale, relazionale e sociale perché è uno spazio liminale in cui il significato viene facilmente distorto, dove i legami tra sé/Altro e tra passato e futuro funzionano come soglie per il divenire, per l’evoluzione.
Le storie di sofferenza sono anche abbastanza resistenti alla trasformazione perché la loro natura liminale (in divenire) è stata significativamente ridotta attraverso il ri-raccontare e la prova. Quando le persone raccontano la storia ad amici, familiari, colleghi di lavoro, vicini, questo raccoglie certezze, e crea per sé lo status di “fatto”. Se questo è il caso, non è semplicemente sufficiente testimoniare la storia di sofferenza in modo passivo, ma piuttosto in uno estremamente attivo, non perché l’ascolto è “attivo” (infatti vorrei argomentare che l’ascolto attivo è un modo estremamente passivo che funziona per ridurre il potere trasformativo del linguaggio), ma perché testimoniare la sofferenza richiede un modo di indagine che può richiamare chi racconta la storia indietro al luogo liminale in cui la testimonianza fa uno sforzo rinnovato per mappare il mondo, e nel processo rifà quel mondo da capo. Quale tipo di ascolto, quale modo di indagine potrebbe supportare la trasformazione? Come Oliver si chiede, “Cosa è che rende la ripetizione (ri-significazione) trasformativa?” (p.38) in che modo i professionisti saprebbero la differenza tra un processo trasformativo di narrazione, e uno che semplicemente ricostituisce la preclusione (espulsione dell’Altro) che è divenuta non solo familiare, ma anche necessaria per la produzione del sé legittimo, nel contratto, il deligittimato (immorale) Altro? “Vigilanza” non è un’istruzione che produce un’intuizione profonda della pratica trasformativa; piuttosto, vorrei argomentare che la testimonianza è il processo di elaborare storie di sofferenza in modi che aprono ad una nuova estetica, una che conduce all’emancipazione di che racconta, e del testimone.
E, in vero, i testimoni hanno bisogno di essere emancipati attraverso il linguaggio, o perché loro non hanno alcuna storia e devono rivendicano l’esperienza attraverso il suo racconto, o, all’altro capo dello spettro, perché sono totalmente catturati e sedotti da una storia che è stata raccontata e ri-raccontata così che la narrazione fornisce le linee guida che usano per muoversi attraverso la loro vita. Nelle aule di tribunale i testimoni sono fatti provare, così che la loro testimonianza perde ogni relazione con la loro esperienza di violenza. Anche se è così, ci sono alcuni posti, come la testimonianza delle vittime al TRC, in cui l’esperienza oltrepassa il linguaggio – l’Altro appare così inconoscibile, oltre l’estraneo, quando guardiamo i narratori lottare per costituire sé stessi come persone. In altri luoghi, come nelle sessioni di terapia, il processo di risignificazione che le persone compiono è spesso nuovo, fresco, scarsamente organizzato, non controllato, e perfino turbolento. Giocare con il linguaggio stesso non è insolito, quando i narratori sperimentano con l’espulsione/rigetto di sé e dell’Altro. Nella mediazione, tuttavia, è presente poca freschezza; i narratori non sono al margine del linguaggio, ma invece profondamente ancorati nella loro descrizione della loro sofferenza.
Quando le parti in conflitto raccontano la loro sofferenza, come ho detto prima, invariabilmente formulano la loro legittimità o deligittimità dell’Altro; realizzano questa performance attraverso la produzione di trame lineari piuttosto che ricorsive, incorniciando sé stessi come vittime dell’Altro, e collocando una fondamento morale, un insieme di temi che marciano al passo con le loro azioni, mentre squalificano le azioni (e l’essere) dell’Altro. Dunque il sistema narrativo di una storia di sofferenza tronca la “realtà” non perché la storia è incompleta (come se la completezza o l’accuratezza potessero fornire una struttura estetica per la valutazione di storie)
11, ma perché riproduce violenza e conflitto e non rende possibile nuovi modi di conoscere il mondo. Un’estetica della narrazione potrebbe fornire una teoria per valutare storie da ciò che essi creano quando stanno eseguendo, da ciò che tollerano in termini di alterazione, dal modo in cui stimolano l’incertezza, piuttosto che la preclusione. Per funzionare in questo modo, la narrazione deve essere eseguita ai limiti della testimonianza. Dunque, portare una testimonianza è il processo di spingere le narrazioni verso il margine in cui il significato è nato, in cui nuovi modi di conoscere sé e altro sono chiamati fuori. È nel contesto e nel processo della soggettività esecutrice che una nuova relazione tra sé/Altro può essere realizzata; ed è in questo contesto che la narrazione ha la possibilità di emancipare, destabilizzare le “tecnologie del sé”12 nel contesto della pratica del testimoniare in cui le narrazioni sono aperte a nuovi significati che, alternativamente, rendono possibili nuove relazioni.


Verso un’Etica estetica per l’Elaborazione delle Narrazioni.
Noi siamo le storie che raccontiamo. La natura delle storie che raccontiamo è strutturata dal contesto, dalla nostra storia, dall’interazione con gli altri, così che il discorso funziona per disciplinare e regolare la natura di quello che possiamo essere, in ogni momento. La mediazione non costituisce un’eccezione. Avendo ripetuto la loro storia, le persone giungono alla sessione di mediazione raccontando una storia che li mette in una posizione legittima e fornisce la garanzia per le loro richieste/domande. Ed il mediatore “governa” la natura delle storie raccontate, permettendo ai partecipanti di precludere o escludere l’Altro attraverso la sua deligittimazione. I mediatori trattano le storie come se fossero a) strumenti per chiudere il divario tra il reale e l’immaginario, così che fanno domande pensate per aumentare l’abilità narrativa nel rappresentare la realtà; e/o b) resoconti sacri che rappresentano stati interiori, così che non possono essere alterati senza violare la santità della persona che racconta la storia. In entrambi i casi, i mediatori suppongono che la storia rappresenti, piuttosto che una costruire, la realtà
13. La mediazione come pratica ha ereditato la sua teoria narrativa dai processi legali formali, in cui la testimonianza è una rappresentazione di storia e, quindi, l’accuratezza ne è il punto centrale. Tuttavia, separata dai suoi ormeggi legali, la mediazione ha a lungo supposto che il narratore ha il diritto di raccontare qualunque storia scelga – l’accento è sulla proprietà della storia. Ancorati al modo in cui una data storia rappresenta la realtà, i mediatori contribuiscono alla gravità di quella storia quando lavorano per proteggere la narrazione dal cambiamento, in particolare da qualunque mutamento che loro stessi potrebbero promuovere. Infatti, la stessa etica della mediazione ha come mandato l”imparzialità”14; dunque il campo dovrebbe differenziare tra domande che aumentano il modo in cui la storia rappresenta la realtà, attraverso domande che aumentano la sua capacità di mappare eventi storici. Tuttavia, la loro etica impedisce ai mediatori di partecipare al progetto della narrazione, alla formazione del suo contenuto,, della sua moralità, o di alterare la soggettività del narratore. Comunque, come Foucault e altri hanno notato, ogni narrazione e ogni genere narrativo, funzionano per limitare la natura della soggettività che può essere attivata – le nostre storie ci catturano. L’emancipazione richiederebbe alterazioni nel modo in cui la storia è raccontata, così come nel contenuto della storia stessa. In più i mediatori non sono preparati a fare domande che destabilizzino e riformulino la natura della storia narrata. Come risultato, una volta di più, i mediatori riversano il concreto sui sentieri simbolici che le persone percorrono, precisamente perché non mettono alla prova e destabilizzano le narrazioni.
Effettivamente contribuiscono ad ancorare e ri-ancorare la relazione sé/altro che attiva e perpetua il conflitto. Malgrado questa forzata disattenzione alla narrazione, i mediatori riescono con regolarità ad alterare la narrazione sotto il livello del loro proprio radar riguardo la loro partecipazione. Le parti riportano
15 alterazioni nelle loro relazioni con il sé, riportano un senso di essere rispettati dall’Altro, riportano sollievo per aver risolto il problema. Tutti questi cambiamenti richiedono uno spostamento nella natura della storia che viene raccontata, ma la ricerca sulla valutazione nella mediazione deve ancora tracciare questi cambiamenti con regolarità16. E senza tracciare queste alterazioni, i mediatori rimangono (comodamente) ciechi alla differenza che fanno, al proprio impatto sulla storia; dunque rimangono incapaci di tenere in conto la loro partecipazione.
Se dovessero cominciare a tracciare la loro partecipazione nei termini del modo in cui contribuiscono ad aprire nuove narrazioni, non sarebbero capaci di valutare la propria partecipazione eticamente, in quanto il campo della mediazione non ha linee guida etiche per l’evoluzione o la trasformazione delle narrazioni. E perciò i mediatori sono vincolati dai limiti del loro codice etico dal testimoniare la narrazione in un modo che trasforma il significato e le relazioni. Ma i limiti del codice etico sono solo un problema minore – il problema più grande è che non esiste una teoria normativa nella narrazione che possa essere usata come base per la pratica etica. Come abbiamo discusso precedentemente, questo è legato alternativamente al modo in cui la testimonianza è compresa come rappresentazione di un fatto storico, piuttosto che come atto di portare una testimonianza di ciò che non è visibile o riconoscibile da altri proprio perché riporta una conoscenza unica e personalmente specifica che per definizione non è una conoscenza generale.
Qual’è l’etica del testimoniare. Come possono i mediatori partecipare alla creazione di quest’unica conoscenza personale in una maniera che apra le parti a nuovi modi di essere, a nuove e trasformate relazioni. Qual’è una struttura normativa che potremmo usare per dare senso al nostro ruolo di partecipanti nell’evoluzione della narrazione? In che modo potremmo sapere se le narrazioni stiano evolvendo nella giusta direzione? In che modo sapere se la traiettoria del cambiamento sia etica?


“Trasfigurazione” come preclusione destabilizzante o come la soggettività è cambiata attraverso la riduzione dell’appoggio della narrazione sul rifiuto/squalificazione dell’Altro
Noi sappiamo dalla ricerca sulla narrazione che l’intervento nella narrazione altera la sua traiettoria e i modelli di interazione associati
17. Tuttavia nessuna di queste ricerche elenca una cornice etica che i professionisti possano usare per guidare la loro pratica nella trasformazione della narrazione, se non un ampio e generale impegno all’emancipazione (nel caso di White e Epston, 1990, fuggire il potere disciplinante del discorso dominante, e nel caso di Mattingly, 1998, fuggire le storie di incompetenza verso storie di competenza e azione personale). Forse il nostro focus dovrebbe essere non il risultato ma il percorso (come gli epitaffi via email dei miei studenti spesso mi ricordano); questo porterebbe l’attenzione alla direzionalità dell’evoluzione della narrazione, piuttosto che alla sua trasformazione, che implica un cambiamento di second’ordine. Invece, mi piacerebbe avanzare la nozione che la cornice etica dovrebbe essere tale da tracciare /occuparsi della traiettoria dell’evoluzione, non del suo risultato. La pragmatica non è sufficiente; i criteri funzionalisti chiedono la domanda – non è il fatto che il cambiamento avvenga ma la qualità del cambiamento che conta. Inoltre noi abbiamo bisogno di un metodo per valutare la qualità delle storie in costruzione.
La valutazione della qualità delle narrazioni richiede l’estetica – una cornice per stimare alcune narrazioni al di sopra di altre. Kristeva (Strangers to Ourselves, 1991) ha notato che il sapere/crescita o l’evoluzione richiede un “lavorare attraverso” (un termine di Oliver, preso in prestito da Butler, Bodies that Matter) il modo in cui la nostra legittimità troppo spesso richiede l’esclusione/preclusione dell’Altro. E questo perpetua il conflitto e la violenza. Tuttavia, in questo desiderio, questa speranza, questa etica implicita, è presente una fiducia nella connessione tra comprensione e trasformazione, come se saper di più sulle nostre narrazioni (condizioni) possa effettivamente rendere possibili cambiamenti nella direzione etica. Questo non è necessariamente sempre il caso. Le persone possono trasfigurare la soggettività (propria ed altrui) senza lavorare attraverso, come venendo a comprendere, il passato. Tuttavia, vorrei argomentare che le alterazioni nella soggettività richiedono uno cambiamento nelle storie stesse, nonostante le persone capiscano o meno i processi funzionali legati alle loro storie. Perciò, di nuovo vorrei dire che una cornice normativa per la mediazione è equivalente a una teoria normativa per valutare la narrazione, non una teoria per valutare cambiamenti nell’atteggiamento o un’aumentata conoscenza.
Tuttavia, non c’è tregua nella letteratura sull’estetica del linguaggio/narrazione; all’interno del criticismo letterario, è stato scritto più sulla coerenza, completezza, o anche la presenza della consapevolezza di sé nella narrazione
18. Ma tutti questi criteri sono statici, per il fatto che parlano alle caratteristiche strutturali/funzionali della narrazione senza connettere tali aspetti ad una teoria della pratica etica. In questo sta la difficoltà: la teoria etica o normativa non si rivolge ai criteri attraverso i quali potremmo valutare l’evoluzione della narrazione19, se non da una prospettiva pragmatica e funzionalista; dall’altra parte, il criticismo letterario non offre un’intuizione profonda della pratica etica quando potrebbe concernere l’evoluzione della narrazione.
Vivienne Jabri (1998), nel suo eccellente articolo, “Restyling the Subject of Responsability in International Relations”, offre un suggerimento: “...a ripensare l’emancipazione nei termini di un’etica estetica, in cui l’individuo ha la capacità di reinventare il proprio modo di essere, di mettere in atto…una forma di trasfigurazione in cui l’individuo vede sé stesso come un’opera d’arte” (p. 592). “Avere la capacità” richiede di essere posizionati nel discorso, nella narrazione lanciate dal sé e dall’Altro, in modo che l’evoluzione sia possibile. Questo “posizionamento”
20 è, alternativamente, una funzione dl modo in cui le persone raccontano la storia di sé in relazione agli altri, così che gli aspetti concreti delle storie raccontate su di sé e gli altri costituiscono il sé e l’altro. Il modo in cui questo è realizzato con più frequenza, ricostruisce le storie in cui chi racconta basa la propria soggettività sull’esclusione dell’Altro. Per far accadere questa trasfigurazione, la storia di conflitto deve evolvere nella direzione di NON escludere l’Altro. Ecco le implicazioni per la forma narrativa di questa etica estetica21:


A I ruoli dovrebbero non solo elencare le azioni dell’Altro, (il che produce una trama lineare) ma anche costruire le azioni dell’Altro come causate delle azioni del sé, costituendo una logica circolare che comincia a muovere nella direzione di una (mutua) responsabilità interiorizzata;

B Le narrazioni che sono cronologicamente semplici dovrebbero muovere nella direzione della complessità temporale, in modo che passato, presente e futuro siano non solo connessi, ma riempiti attraverso la somma di eventi.

C Poiché chi racconta spesso narra una storia che ruota intorno alla relazione sé/Altro, un’estetica dell’etica dovrebbe implicare che i narratori includano personaggi aggiuntivi nel dramma, riducendo la polarizzazione tra narratore/Altro; più personaggi riducono la possibilità che la causalità possa essere stabilita (che la colpa possa essere data).

D Poiché chi racconta attribuisce intenzioni positive alle proprie azioni e intenzioni negative all’Altro, questa pratica estetica dovrebbe muovere nella direzione di una connotazione positiva delle azioni dell’Altro(i).



Riassumendo, quella sopra è una lista di linee guida, basate sulla teoria narrativa, che dovrebbero permettere ai narratori di ricostruire la loro soggettività in nuovi modi, e, nel processo, scoprire sé stessi “come opere d’arte” non perché sono implicitamente belli, ma perché l’evoluzione narrativa, nella direzione dei cambiamenti descritti sopra, permette loro di ri-assegnarsi sul palcoscenico della loro vita, di reclamare lo spaio che era occupato dall’Altro escluso. La caratteristica principale di questa pratica di etica estetica è la destabilizzazione; i mediatori o terze parti non hanno bisogno di fornire una nuova soggettività alle persone – possono farlo da sole, ma devono essere aiutate a destabilizzare la struttura narrativa (trama, personaggi, struttura morale) che contribuisce a mantenere la loro esclusione dell’Altro.


La natura dell’indagine nell’etica estetica.
Se, come ho suggerito, l’etica estetica della mediazione (o per meglio dire di tutte le pratiche narrative?) è una funzione delle traiettorie narrative, direzioni di cambiamento, movimento verso la trasfigurazione, il processo che lancia queste traiettorie è cruciale per questa etica. La prima fase di questo lancio sarebbe necessariamente di destabilizzare la narrazione esistente, e anzi, Jabri (1998) scrive:


“La pratica estetica rende possibile una creatività che interrompe le identità date e i codici prescritti (p. 607).. non esiste spazio in questa forma di eticità per una soggettività indiscussa o un singolo modo di essere e fare. Perché questa sarebbe una pratica di certezza e, quindi, di soppressione ed esclusione (p. 609)”.



C’è, nel modello di Jabri, una connessione tra incertezza ed etica. Mentre l’incertezza totale è patologica, la pratica routinaria della destabilizzazione attraverso nuove linee di indagine sfida il potere di una data narrazione di tenere catturato chi la racconta. Perciò, quando i mediatori fanno domande destabilizzanti una dietro l’altra con domande che affermano il sé, il risultato è, per la mia esperienza, non solo la nuova traiettoria (movimento) nella narrazione, ma il movimento che comincia ad affermare il sé e l’Altro allo stesso tempo22.
L’Indagine Elogiativa
23 è un metodo per porre una serie di domande che a) pone intenzioni positive per il narratore e l’altro; b) complica le trame accentuando le dimensioni positive di un’esperienza negativa; c) confronta e oppone quadri/instanze dal passato, presente e futuro, che forniscono gli esempi da seguire in tempi difficili; d) permette la riflessione su temi morali circa ciò cui ancorare la vita/pratica.
L’indagine elogiativa costruisce il contesto per le azioni di personaggi entra un dramma, e mentre le azioni possono essere inquadrate come cattive/problematiche, è difficile mantenere una traiettoria narrativa che sia squalificante dell’Altro. E allo stesso tempo, solo l’atto di far il tipo di domande che non automaticamente riproducono il conflitto esistente crea instabilità e incertezza – condizioni che fanno maturare la possibilità della trasfigurazione.
Un altro tipo di domanda che rovescia la narrazione verso l’instabilità e complessità è chiamato “domanda circolare”
24. Queste domande chiedono al narratore di creare un confronto che produca nuove dimensioni di differenza, così che, piuttosto che ridurre le differenze, queste le aumentano. Queste domande possono richiedere/costruire un confronto nel tempo (Tempo 1 e Tempo 2) (si può pensare a un tempo quando questo problema sia non così visibile e quanto è diverso quel tempo da ora?) o possono creare un confronto tra tratti (chi nel tuo gruppo è il più triste, a tuo parere?), o, anche a un livello più complicato, richiedono il confronto chiedendo alle persone di parlare dalla prospettive dell’Altro (se io chiedessi ai tuoi colleghi di lavoro chi nel vostro gruppo è il più triste, che cosa mi direbbero?). queste domande funzionano in maniera differente perché producono informazioni relazionali che possono essere usate dai narratori non fare e rifare le loro storie del sé e dell’Altro.


Conclusione
Tornando al lamento/avvertenza di Fiss circa la risoluzione, a mio parere l’etica estetica e l’attenzione alla trasformazione nella mediazione cominciano a indirizzare una delle sue più importanti critiche, che si riferisce al modo in cui la mediazione riduce il potere di legge e stato di “portare una recalcitrante realtà più vicina ai nostri ideali” (p. 1089). Egli è interessato, io penso, all’assenza di una struttura normativa per la valutazione/giudizio che porterebbe al cambiamento sociale. ancora, all’interno di un’etica estetica, lo stato non è il luogo per l’azione portata contro la giustizia; invece, le relazioni tra individui sono i contenitori per la trasfigurazione del sé, Altro e del più ampio ordine sociale.


C’è un riconoscimento…che le lotte legate allo stile di vita, le decisioni fatte da individui nelle loro pratiche quotidiane, alimentano la graduale trasformazione del discorso e le continuità istituzionali che supportano l’individuo (Jabri, p. 597)



L’autrice va avanti per notare che la “reinvenzione del mondo di vita (è)…resa possibile attraverso una forma di “ingenuità poetica” (Jabri, p. 601). Questa “ingenuità” è presente nella mediazione al grado che le parti possono reinventare i propri mondi di vita; e perché le storie di conflitto hanno un’attrazione gravitazionale che tiene il narratore nella loro stretta, senza questa “ingenuità” (buone domande che mettono in atto un’etica estetica), le parti sono in realtà incapaci di rifare i propri mondi, indipendenti dal fatto che possano effettivamente raggiungere un accordo o meno. I conflitti dovrebbero essere indirizzati in modi che ci muovono verso (se non gli ideali), l’evoluzione delle nostre storie sul sé e sull’Altro. Come Fiss, vorrei argomentare che molta parte della mediazione o non lo fa (anche quando l’intento è la trasformazione della relazione), o non lo farà, a causa di qualche primordiale impegno all’imparzialità o neutralità. Come Fiss, vorrei sperare che le nostre pratiche di soluzione del conflitto, che siano in un tribunale o meno, materializzino un’etica al centro della nostra pratica che sia allo stesso tempo riconoscibile e desiderabile.


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Note


  1. Vedi Vievienne Jabri, “Restyling
    the Subject of Responsability in International Relations”, in Millennium:
    Journal of International Studies, 27, No. 3: p. 592.


  2. Vedi Owen Fiss (1984) “Against
    Settlement” in Yale Law Journal, 93: pp. 1073-1090.


  3. Vedi Habermas (1984)
    The Theory of Communicative Action per una discussione degli approcci tecnici
    alla comunicazione.


  4. Si tratta di un ampio
    corpo di letteratura sulla mediazione che argomenta che l’etica della
    mediazione sta nella sua capacità di produrre un terreno di incontro
    in cui le persone raccontano la loro storia, con le loro parole, e ideano
    una loro soluzione. Così esso ha, come base, un’etica di “partecipazione” che
    celebra l’abilità degli individui di identificare i propri
    interessi e autorizzare la propria versione della realtà come loro
    modalità di soluzione del problema. Così il “problem-solving” e
    la “partecipazione” sono le norme critiche, ma così è,
    ad un livello più ampio, l’impresa della soluzione stessa del
    conflitto – consensuale, risultati negoziati sono “migliori” del
    conflitto in cui “qualcuno deve affrontare il tradimento dei nostri
    valori più profondi e “essere preparato a mettere sottosopra
    il mondo per realizzare tali idee” (Fiss, 1984, p. 1087). Vedi per
    esempio, Moore (1986) The Mediation Process, Susskind (1999) The Consensus-Building
    Handbook o Singer (1990) Settlings Disputes, tutti fanno avanzare le norme
    della comunanza, della connessione, e del consenso attraverso il problem
    solving.

    Ci sono etiche simili che accentuano non i risultati, né i processi,
    ma la fenomenologia del processo. Vedi la discussione di Riskin (“The
    Contemplative Lawyer: On the Potential Contributions of Mindfulness Mediation
    to Law Students, Lawyers, and their Clients”, in Harvard negotiation
    Law Review, di prossima pubblicazione, Maggio 2002) sulla relazione tra meditazione
    e mediazione. Di nuovo, la struttura normativa è quella di essere
    tale che gli edifici della partecipazione e del consenso possano essere portati
    avanti. In aggiunta, dal reclamo che vorrei fare che il “consenso” è un
    concetto molto problematico, così come la nozione di “partecipazione”,
    questa struttura normativa rimane largamente non specificata al livello della
    pratica nel processo di mediazione, come quasi niente è specificato
    al livello della pragmatica comunicativa. Vedi Stone et al. (Difficult Conversations,
    1999) per un esempio di lavoro recente che cerca di fornire una struttura
    per la pragmatica comunicativa. Essi fanno così, ad ogni modo, entro
    la struttura di un paradigma funzionalista, a quindi fanno pochi progressi
    nel fornire le basi normative per il racconto di storie e la pratica conversazionale.


  5. Negli anni ha avuto
    il piacere di partecipare a gruppi, commissioni e incontri, con entrambi
    i professori Bush e Folger. Questi due uomini sono entrambi etici nelle
    loro interazioni con gli altri, a mio parere hanno un’intuizione altamente
    sviluppata di come trattare gli altri con rispetto e riconoscimento. Il
    fatto che io stia invitando allo sviluppo di una teoria normativa che ancori
    l’approccio trasformativo non è da intenderso come un modo
    per criticare indirettamente la loro abilità a relazionarsi agli
    altri in un modo trasformativo. Al contrario, potrei anche suggerire che
    la loro abilità inerente all’essere con gli altri in modo rispettoso
    possa avere “reso naturale” la loro visione del “rispetto” e
    del “riconoscimento”, oscurando la complessità delle pratiche
    associate. Io, che sono meno gentile, meno carina, e soprattutto forse
    meno rispettosa di loro, sono in una posizione migliore da cui ponderare
    queste complessità, poiché non sono “naturali” per
    me!


  6. Vedi Judith Butler,
    Bodies That Matter (1991); Gender Trouble (1991); Excitable Speech (1997);
    e “Sovereign Performatives in the Contemporary Scene of Utterance”,
    in Critical Inquiry, 23 (Inverno 1997, 1): 350-77.


  7. A mio avviso, gli sforzi
    di Riskin (2002) di incorporare la meditazione entro la pratica della mediazione
    fornisce un buon esempio del progetto di Oliver di creare una pratica etica
    attraverso la vigilanza. La meditazione aumenta la nostra capacità di
    monitorare il sé, nel momento, accrescendo la nostra abilità tracciare
    il modo in cui rispondiamo/reagiamo agli altri, così come la categoria
    dell’Altro. Similmente, in una pratica trasformativa della mediazione, è presente
    un tipo di semplice credenza che l’attenzione nell’ascoltare,
    sforzandosi di rispettare l’Altro, porterà all’evoluzione
    della relazione. Allo stesso tempo, la gente trasformativa, così come
    Rskin, tirano a riva loro stessi sulle secche delle teorie psicologiche
    che hanno al loro centro, la regolazione del sé come antidoto ai
    problemi relazionali che portano al conflitto e alla violenza. Invece io
    propongo in questo scritto che l’etica della pratica trasformativa
    ha bisogno di essere localizzata nel discorso, nella conversazione, nel
    campo in cui la soggettività stessa emerge.


  8. Vedi specialmente Judith
    Hermann, Trauma and Recovery (1997) e la ricerca sulla soddisfazione dopo
    la mediazione (Chau-Kiu Cheung, 1998; Xiaohua Lin, 1998; Bryce F. Sullivan,
    1997; Emery, Matthews e Kitzmann, 1994; Jones, 1999), che si riferisce
    all’avere un’opportunità di raccontare la storia, di essere
    ascoltati. In questa ricerca possiamo vedere la presenza abbozzata della
    nostra attenzione al “riconscimento” – noi presumiamo che
    le persone giungano ad avere i loro problemi, la loro visione del mondo,
    riconosciuti. La formulazione delle interviste sulla soddisfazione fatta
    come un modo per valutare il processo di mediazione riconferma l’assunzione
    del campo, e non è accidentale che gli intervistati rispecchino
    l’attenzione al riconoscimento portata dai ricercatori. Dunque la
    ricerca non conferma nient’altro che la presenza di un concetto popolare
    (“riconoscimento”) usato nella mediazione allo stesso modo da
    ricercatori e partecipanti. Questo concetto nasconde sia la complessità dei
    processi conversazionali implicati, e pone entro le nostre pratiche di
    trasformazione del conflitto le basi di una nozione del sé che deve
    escludere l’altro, per diventare sé.


  9. Vedi Cobb (1997) per
    la discussione della trasformazione domestica della violenza, non solo
    di quella che infligge dolore fisico, ma anche di quella che esclude ed
    elude la descrizione. Questa è coerente con la visione di Kristeva
    (Desire in Language, 1980) del processo di linguaggio e del ruolo che desidera
    giocare nello strutturare i limiti di ciò che siamo, e come possiamo
    andare d’accordo.


  10. La terribile realtà narrativa
    del cancro è che l’agente del dolore (le cellule del paziente) è anche
    la vittima. Il tradimento del corpo da parte dl corpo richiede alla persone
    di distanziarsi dal loro cancro. Vedi Susan Sontag, Illnes as Metaphor
    (1978).


  11. Gerard (1999) e Chatman
    (1978) argomentano che la coerenza narrativa fornisce una base per valutare
    il valore estetico.


  12. Foucault (History of
    Sexuality, 1978) discute il modo in cui il discorso si impone come regola
    quando costringe la natura della soggettività che può sorgere
    entro un dato contesto sociale. vedi Cobb (in Huspeck e Radford, 1997)
    per l’elaborazione di questo concetto entro il contesto della testimonianza
    nell’aula di tribunale nella fase penale di un processo capiltale.


  13. Basandomi sulle mie
    ricerche, condotte con Janet Rifkin nel 1990, (vedi Cobb e Rifkin, 1991), è dolorosamente
    chiaro che il mediatore contribuisce alla costruzione sociale delle storie
    di conflitto, sia che intenda farlo o meno. Questo emerge chiaramente attraverso
    le domend che vengono poste e quelle che non vengono fatte.


  14. Vedi gli standard etici
    per i mediatori a: http://www.acresolution.org


  15. vedi la ricerca sulla
    valutazione in mediaione – Pearson e Thoennes (1989) o, più rcentemente,
    Birke (2000) e Thoennes (1997).


  16. Vedi Cobb (“Domestication”,
    1997) per una descrizione dell’evoluzione e ricostruzione delle narrazioni
    della violenza nella mediazione. In altri campi, come nella terapia familiare,
    i ricercatori valutano l’evoluzione della narrazione a livello specifico.
    Vedi anche l’eccellente lavoro di Mattingly (1998) sull’evoluzione
    delle narrazioni dei pazienti in un centro di riabilitazione; l’autrice
    descrive il ruolo delle infermiere nell’alterazione di queste storie.


  17. Vedi Labov e Fanshell
    (Therapeutic Discourse), Mattingly (Healing Dramas and Clinical Plots),
    White e Epston (Narrative Means to Therapeutic Ends), Cobb (“Liminal
    spaces in narrative processes”), Sluzki (“Trasformation”).
    Questa linea di ricerca, che si estende attraverso la pratica che implica
    conversazioni generative o conversazione che sono (potenzialmente) trasformative,
    manca di un’etica per la pratica della trasformazione narrativa oltre
    il mandato pragmatico di produrre un cambiamento. White è andato
    più in là degli altri nella sua analisi, poiché argomenta
    che l’evoluzione narrativa è necessaria per una sorta cambiamento
    pragmatico che porti all’emancipazione. Mattingly fa lo stesso – l’autrice
    mostra come lo staff interagisce con i pazienti in un centro di riabilitazione
    in modi che rendono i pazienti capaci di vedere sé stessi come agenti
    delle proprie vite, piuttosto che come persone “handicappate”.
    Le trasformazioni che presenta sono molto mobili, e una testimonianza del
    potere della narrazione nel cambiamento del modo in cui noi strutturiamo
    noi stessi in relazione all’Altro. Tuttavia, come esempio di questo
    lavoro, ne White/Epston ne Mattingly forniscono un’etica che permetterebbe
    ai professionisti non solo di generare un cambiamento, ma anche di farlo
    entro una qualche cornice normativa che possa funzionare come linea guida
    per la pratica morale. E poiché nessuno di questi teorici è nel
    campo della mediazione, anche se esistono alcune linee-guida per la trasformazione
    etica delle narrazioni, non sono sicura che sarebbe applicabile alla mediazione.


  18. Per un trattamento più postmoderno,
    vedi Mikhail Bahktin, From Discourse in the Novel, in cui si concentra
    sulla narrazione, così come sulla condizione dialogica della soggettività,
    ma non sviluppa un’etica per la pratica. Da questa prospettiva, vorrei
    argomentare che la teoria normativa di Bahktin è largamente descrittiva
    in natura, e non prescrittiva. Ho provato ad usare il suo lavoro come prescrizione
    pratica; vedi Cobb (on Private pain and public spectacle) ma la sua teoria
    non considera l’evoluzione; questa critica viene rispecchiata nelle
    critica di “habitus” che anche costituisce una descrizione statica
    più che dinamica del processo sociale.


  19. Habermas (Thory of Communicative
    Action) offre una cornice per la valutazione del discorso rispetto alla
    sua incapacità di emancipare. Tuttavia, la sua struttura non si
    concentra sulla narrzione, e infatti, riproduce la credenza nell’”ideale” (situazione
    discorsiva) e nel processo ci fa tornare, in un’inversione a u, indietro
    fino a una specie di lacuna analitica del ruolo del linguaggio. “si
    avvicina all’ideale” è una domanda simile a “in che
    modo di avvicina (rappresenta) il reale”. A mio avviso, Habermas offre
    un importante contributo all’analisi del discorso, ma fa poco per
    rendere possibile una valutazione critica delle traiettorie narrative.


  20. Vedi il lavoro sulla
    teoria della posizione che è stato fatto da Harre e LagenHove (1999).


  21. Qui mi sto basando profondamente
    sul lavoro non pubblicato di Carlos Sluzki, “The better-formed Story”.


  22. Questa è una
    visione molto differente da quelle che implicano che noi possiamo conoscere
    l’Altro attraverso la vigilanza, attraverso l’ascolto attento. È una
    visione radicale che conoscere l’Altro sia realmente la pratica di
    destabilizzare le nostre proprie storie sull’Altro, mentre affermiamo
    sé e Altro.


  23. Vedi la crescente letteratura
    sull’indagine elogiativa, incluso Cooperrider et al. (1990) e Cooperrider
    e Dutton (1999).


  24. Vedi Cobb, Rifkin e
    Millen (Mediation Quarterly, 1991). Vedi anche Tomm (Family Process, 1987).