venerdì 6 aprile 2007

IL RICORSO AD INTERVENTI "TAMPONE" - LA STRUMENTALIZZAZIONE DELL'OPERATORE SOCIALE NEL CONFLITTO CONIUGALE

Anna Verrengia

Socia in formazione A.I.M.S.

Vera Pacilio

Socia A.I.M.S.

Maria Rosaria Menafro

Socia Didatta A.I.M.S. Istituto di Terapia Familiare di Napoli itfnap@tin.it



Il nostro intervento vuol essere una testimonianza di come sia ancora poco diffuso il ricorso, da parte della magistratura, ad interventi specialistici sul conflitto che scaturisce dalla separazione e dal divorzio.
Sono invece ancora molto frequenti le richieste di interventi “tampone”, volti cioè ad affrontare la specifica difficoltà posta in un determinato momento dal dispiegarsi del conflitto piuttosto che a ricercare e rimuovere le dinamiche psicologico-relazionali che lo hanno generato e lo mantengono.
L’esperienza operativa di uno degli autori della presente comunicazione mette in evidenza come questi interventi “tampone” si rivelino non solo inutili, ma a volte estremamente dannosi sia per la coppia che per gli operatori stessi, laddove questi non siano stati adeguatamente formati ad affrontare le specifiche dinamiche delle coppie conflittuali o almeno sensibilizzati attorno alla complessità di questo genere di conflitti. Una corretta opera di sensibilizzazione consentirebbe difatti agli operatori dei Servizi Territoriali di effettuare un invio rapido e pulito al mediatore professionista e, quindi, di non addentrarsi in territori sconosciuti del tutto ignari dei pericoli in cui possono incorrere e delle conseguenze negative che possono produrre.
Il caso che riportiamo illustra chiaramente quanto sopra esposto.


Descrizione del caso
Il Servizio Sociale Territoriale riceve dal Tribunale Ordinario la richiesta di far svolgere gli incontri tra un padre non affidatario e i figli presso i locali del Servizio, considerato che gli stessi non erano potuti avvenire in altro ambito a causa del conflitto in atto tra i due ex coniugi.




Storia della coppia che esprime il conflitto
Entrambi i membri della coppia si sposano in età post-adolescenziale. I primi 10 anni trascorrono in maniera più o meno tranquilla: il marito è spesso fuori casa per motivi di lavoro; la moglie si occupa a tempo pieno della gestione della casa e della cura dei figli.
La crisi matrimoniale inizia quando lei scopre che il marito ha una serie di relazioni extra-coniugali.
Ciò rappresenta per la donna il crollo del suo mondo, la scoperta di non essere affatto, come lei aveva sempre pensato, il centro dell’universo del marito e soprattutto di aver vissuto accanto ad un uomo completamente diverso da come lo aveva sempre creduto. Del resto, l’immagine di uomo devoto che la signora si era andata costruendo del marito era stata generata e alimentata dalla sollecitudine di questi a soddisfare ogni esigenza o desiderio di moglie e figli, dal suo lavorare duro per non far mancare mai nulla alla famiglia.
Dopo la scoperta del tradimento, il matrimonio continua ancora per qualche anno, anche per effetto dell’opera di convincimento svolta dalla famiglia d’origine di lei che non ritiene l’infedeltà un motivo valido per far cessare il matrimonio, vissuto non tanto come vincolo affettivo, quanto come istituto necessario a garantire alla donna un ruolo sociale di rispetto.
La signora, però, non riesce più a vivere serenamente la condizione coniugale, anche perché il marito continua a tradirla, non ritenendo importanti, e quindi offensive nei confronti della moglie, quelle che lui definisce solo delle “scappatelle”. Cominciano quindi le prime discussioni che scaturiscono dalla subentrata esigenza di lei di conoscere gli spostamenti del marito nonchè le persone con le quali si incontra e dal rifiuto di lui di farsi controllare.
L’esasperarsi del rapporto tra i due spinge la donna ad andarsene di casa portando con sé i figli, cosa questa che suscita nel marito un forte rancore nei suoi confronti. Egli, che si è sempre vissuto come marito e padre perfetto, non si riconosce assolutamente nell’immagine di uomo inadeguato che la moglie gli rimanda e anzi l’accusa di non avere per lui quel sentimento di gratitudine che ritiene di meritare per aver sempre garantito alla famiglia una buona posizione sociale ed economica.
Durante la separazione di fatto il marito fa numerosi tentativi di riportare la moglie a casa, ma questa, ritenendo di essere stata troppo umiliata, persiste nella sua decisione. Si arriva così alla separazione legale.
Durante questa fase, lui, disattendendo le disposizioni del giudice, si rifiuta di passare gli alimenti alla moglie e provvede solo in maniera diretta al mantenimento dei figli comprando loro tutto quello di cui hanno bisogno.
Ricorre inoltre all’Autorità Giudiziaria accusando la moglie di non permettergli di prendere con sé i bambini.
Quello che in realtà succede è che l’uomo si rifiuta di andare a prendere i figli presso l’abitazione dei nonni, dove la moglie è ritornata a vivere, e pretende che sia lei ad accompagnarli nella vecchia casa coniugale, spinto dalla speranza di riuscire a convincerla a rimanervi. La signora, d’altro canto, volendo far pagare al marito tutti i suoi atteggiamenti prepotenti, neppure può pensare di risolvere quietamente la questione facendo accompagnare i bambini presso la casa coniugale da una terza persona.
Entrambi utilizzano quindi i figli per agire il conflitto non riconoscendo affatto il loro bisogno di continuare ad avere rapporti continuativi con il padre: se lui, attraverso di loro, tenta di riappropriarsi della moglie, lei, d’altro canto, se li vive come una possibilità di rivalsa nei confronti del marito.

Storia personale dell’operatrice che interviene sul conflitto
L’assistente sociale vive, diversi anni prima di incontrare la nostra coppia, una crisi coniugale di seria entità che la porta a prendere in considerazione l’idea di separarsi.
Bisognosa di essere aiutata a chiarire i motivi della crisi per capire se la separazione sia l’unica soluzione possibile o se esistano ancora risorse da mobilitare per recuperare il rapporto, decide di chiedere la consulenza di uno psicologo. E’ spinta a formulare questa richiesta anche dal fatto che la figlia esprime il disagio familiare attraverso una condizione depressiva di tipo reattivo.
Da buona cattolica praticante, si rivolge ad un consultorio familiare cattolico dove sostiene più colloqui con un prete-psicologo.
Questi attribuisce maggior importanza alla sfera genitoriale che non a quella coniugale rimandandole il messaggio che una donna/madre è prima madre e poi donna e deve quindi relegare in secondo piano le sue esigenze di coppia per non allontanare i figli dal padre, soprattutto quando poi il padre, come nel suo caso, si dimostri un buon genitore.
Aderendo pienamente alla visione del prete-psicologo, la nostra operatrice decide quindi per la non separazione e trova una soluzione di compromesso che consiste nel rimanere con il marito, ritagliandosi al contempo maggiori spazi di vita autonoma e indipendente rispetto a lui.

Incontro tra l’operatrice e la coppia
L’operatrice, rispondendo al mandato del Giudice, invita separatamente i due coniugi presso il Centro di Servizio Sociale per concordare con loro orari e modalità degli incontri tra padre e figli.
Nel corso del primo colloquio con l’assistente sociale il padre esplicita il suo desiderio di riappacificarsi con la moglie e le chiede di essere aiutato a realizzarlo, riuscendo a passare un’immagine di sé positiva sia come marito che come padre.
L’operatrice, sensibile al discorso dell’unione familiare, accoglie la richiesta dell’uomo e così, andando oltre il mandato del giudice, convoca i due coniugi assieme per tentare una riappacificazione che possa “salvare” il matrimonio.
L’incontro si rivela però un’ulteriore occasione di scontri accesi tra i due coniugi, scontri che lei si trova assolutamente impreparata a gestire e da cui viene anche emotivamente sopraffatta.
L’esperienza traumatica la spinge pertanto a proporre all’A.G. di inviare i coniugi presso un Centro di Mediazione Familiare dotato di figure specializzate nella gestione di coppie altamente conflittuali.



Conclusioni
Il caso appena esposto dimostra quanto sia importante creare una rete di Centri di Mediazione Familiare diffusi sull’intero territorio dove operatori specializzati nel campo della conflittualità possano svolgere interventi volti alla sua risoluzione, piuttosto che a “tamponare” le emergenze che da essa scaturiscono.
Una rete capillare di servizi siffatti consentirebbe di ridurre efficacemente il disagio di genitori e figli, nonché di prevenire quello degli operatori sociali che attualmente si trovano a gestire i conflitti senza esservi minimamente preparati.
Difatti - come testimonia il nostro caso - se il rischio per la coppia è di vedere ulteriormente amplificato il livello di conflittualità preesistente, quello per l’operatore è di venire strumentalizzato alla stessa stregua dei figli.
Si rende pertanto necessario, per tutelare famiglie e operatori, che siano chiamate ad intervenire sul conflitto familiare figure professionali con una formazione specifica. Questa, a nostro avviso, va intesa non solo come apprendimento di teorie e metodi operativi, ma anche come momento di presa di coscienza dei propri pregiudizi e miti familiari, i quali potrebbero minacciare il mantenimento di una posizione imparziale tra le parti in contesa.
Ritornando al nostro caso, e’ evidente come proprio la credenza forte che una coppia unita sia condizione necessaria per una serena crescita dei figli abbia reso l’operatrice facilmente reclutabile dall’uomo come preziosa alleata per il raggiungimento dei suoi scopi.
Ci appare allora indispensabile che il mediatore professionista sappia come la sua storia personale ha influenzato i suoi pregiudizi e può, quindi, influenzare il suo operato.
La nostra operatrice aveva, come atto di fede, fatti propri i pregiudizi del prete-psicologo considerandoli non come costruzioni di una particolare dottrina ed etica religiosa, ma come verità assolute e astratte alla quali ogni individuo dovrebbe informare la propria vita.
Un operatore sociale siffatto può essere paragonato ad un “centro trasfusionale”, ad un ente attrezzato cioè per incamerare, conservare e distribuire, a seconda delle necessità, verità e certezze; un ente che etichetterà magari come strani o disturbati coloro che, pur versando in condizioni di grave malessere, non accetteranno di essere trasfusi del “siero” che risana.
Se ridefiniamo il conflitto interpersonale come scontro tra idee, convinzioni, visioni del mondo diverse, allora pensiamo al mediatore professionista come ad un operatore sociale capace di mediare tra i pregiudizi che portano le parti in conflitto, ma, prima ancora, di mediare tra i suoi pregiudizi e quelli degli altri.
Solo così difatti ci potrà essere un intervento di mediazione tra due sistemi di pregiudizi- quelli delle due parti in contesa – piuttosto che l’intervento nel conflitto di un terzo sistema di pregiudizi- quello dell’operatore – che, andandosi a scontrare con uno o entrambi, determinerà, inevitabilmente, l’inasprimento del conflitto stesso.
Non è sicuramente richiesto al mediatore, come lo è invece al terapeuta, di conoscere e utilizzare le reazioni emotive suscitate dall’incontro con l’altro. Ci appare però necessario che egli abbia almeno un buon livello di conoscenza della propria concezione del matrimonio e del divorzio, così come si è formata nel corso della propria storia personale, sulla scorta delle esperienze vissute in seno alla famiglia d’origine e a quella di nuova costituzione, nonché in base ai valori della cultura e religione di appartenenza.
Se è inevitabile che i pregiudizi intervengano, allora è necessario che questi vengano riconosciuti e utilizzati, non imposti a mò di crociata salvifica. Il rispetto che il mediatore mostrerà per i punti di vista di ciascuna delle due parti, pur non nascondendo di avere pregiudizi comuni ad una sola di loro o diversi da entrambe, sarà per le persone in conflitto un valido modello che potrà elicitare in ognuna di loro lo stesso atteggiamento rispettoso per il modo di pensare e di vivere dell’altro.


Bibliografia


  • ANDOLFI M., ANGELO C., Tempo e mito nella psicoterapia familiare, Bollati
    Boringhieri, Torino; 1987.

  • BASSOLI F., MARIOTTI M., FRISON R., Mediazione Sistemica, Edizioni Sapere,
    Padova; 1999.

  • CECCHIN G., LANE G., RAY W. A., Verità e pregiudizi, Raffaello
    Cortina Editore, Milano; 1997.

  • HAYNES J., BUZZI I., Introduzione alla mediazione familiare, Giuffrè,
    Milano; 1996.

  • RUGGIERO G., Il conflitto familiare: dalla valutazione al processo di
    mediazione, Animazione Sociale; Maggio 1997.