venerdì 6 aprile 2007

IL PROCESSO VERSO LA RICONCILIAZIONE

Carlos E. Sluzki
Professore, Scuola di Politica Pubblica e Istituto per l'Analisi e la Soluzione del Conflitto, George Mason University, Fairfax, VA U.S.A.; Professore di Psichiatria e Scienze del Comportamento, George Washington University Medical School, Washington DC, U.S.A.
csluzki@gmu.edu.

Il tortuoso sentiero “tra vendetta e perdono” (Minow, 1999), tra scontri a somma zero e collaborazioni a somma non-zero (Axelrod, 1984), può essere lastricato di buone intenzioni ma è in realtà pieno di innumerevoli ostacoli.
Per cominciare, tale processo di trasformazione è lento e frustrante, un ritmo che può scontrarsi con le pressanti speranze e necessità delle parti coinvolte, accrescendo così lo scambio di accuse di cattiva volontà nei confronti dell’altra parte e il fallimento del processo. Nei fatti, studi sul tempo reale stimato della ripresa socioeconomica successiva ad una guerra, indicano che questa “solitamente richiede minimo due decadi di intenso sforzo” (Kreimer et al., 2000, p.67).
In secondo luogo, mentre la minaccia di un rinnovato conflitto può essere più o meno presente in momenti differenti, il suo progresso è fortemente instabile. L’evoluzione di un conflitto è estremamente sensibile, se non dipendente, da variabili provenienti da fonti molteplici. Queste possono essere relazionali – originate dai cambiamenti nella “spirale delle prospettive reciproche” (Laing, Phillipson and Lee, 1966) delle parti, nei termini della percezione che ciascuno ha dell’altro, percezione dell’altrui percezione di queste, eccetera. Possono essere variabili derivate da fenomeni contestuali – fattori sopra- o extra-relazionali, siano essi “atti divini”, come un periodo di siccità nella regione, o il fallimento economico di un potenziale alleato (o, in una coppia in conflitto, la malattia di uno dei figli)1. Possono dipendere da vicissitudini interne alle parti, come il bisogno di un dato governo di galvanizzare l’opinione pubblica in modo da distrarre la popolazione dalle incongruenze interne – ne è un esempio il progetto “out-of-the-blue” della sfortunata guerra della Falkland nel 1982, ad opera della giunta militare al potere in Argentina, quando la loro popolarità era in declino, mentre l’economia del paese andava in pezzi. Terzo, la complessa natura dei sistemi umani e politici ci assicura che ci saranno alcune aree o settori specifici in cui il cambiamento, l’evoluzione e il progresso sono più praticabili che in altri, con maggiori o minori possibilità di passare da attività conflittuali ad attività basate sulla collaborazione. Ad esempio, paesi confinanti in conflitto possono essere ciò nonostante capaci di sviluppare una minima cooperazione nelle attività agricole ma non nel settore industriale (e una coppia in conflitto può essere capace di conversare in maniera civile durante la cena ma non di coinvolgersi in un tenero incontro sessuale…o viceversa).


Dallo scontro all’integrazione: una sequenza di stadi
Una quarta, forse meno discussa se non riconosciuta, variabile è che il cammino dal conflitto aperto alla collaborazione costruttiva, piuttosto che costituire un tranquillo continuum, è caratterizzato da un insieme di distinti passi intermedi, o stadi, o stazioni. Questi stadi costituiscono una progressione o sequenza evolutiva (sebbene, come menzionato precedentemente, in ogni momento, in qualsiasi scenario complesso, ci possano essere espressioni di stadi differenti). Ogni stadio descrive – o è caratteristico di – uno specifico periodo di una data relazione entro il processo, e quindi misura l’andamento del processo di cambiamento. Dovrebbe anche essere sottolineato che molti di quelli che nella sequenza evolutiva costituiscono passi intermedi, possono divenire, comunque, un traguardo auspicabile entro il processo, e perfino il termine del percorso.
I tratti specifici che caratterizzano ciascuna di queste configurazioni sono, naturalmente, dipendenti da come si considera la natura della relazione (stiamo parlando di coppie maritali in conflitto, di vertenze sulla gestione del lavoro, di escalation inter-etnica, di due paesi in guerra?). Dipendono anche dalla natura del conflitto (riguarda responsabilità reciproche, il controllo del territorio, salvare la faccia, questioni finanziarie?), così come dalle innumerevoli variabili contestuali, siano esse culturali o circostanziali.
Quando analizziamo le difficoltà di questo percorso, la transizione tra due qualunque di questi passi appare talvolta disgiunta e talvolta tormentosamente complessa. Un acuto esempio di questa asserzione può essere rinvenuto nell’accurato resoconto, fatto dall’interno, dell’irlandese”Good Friday Agreement”, che George Mitchell ha contribuito a definire (Mitchell, 1999).
Inoltre, due passi avanti sono talvolta seguiti da uno – o più – passi indietro. Comunque, il semplice fatto che la progressione verso la collaborazione costruttiva abbia luogo un passo alla volta e con un ordine o sequenza prevedibile, indica che siamo in presenza di un processo normativo.
Questa presentazione mira a specificare la sequenza di passi distinti, o posizioni, che caratterizzano il lungo cammino da un estremo, il conflitto aperto, all’altro, la piena integrazione, e ad esplorare alcuni dei tratti più salienti di ciascuno di questi stadi. Mentre ognuno di questi stadi è stato abbondantemente descritto fino al punto di divenire conoscenza comune, quello che viene qui proposto come lente è un modello evolutivo che, in virtù della sua natura sequenziale, possa costituire la cornice per il progetto di interventi e processi valutativi. Può inoltre costituire la cornice per comprendere i fallimenti nei processi di riconciliazione: aggirare alcuni di questi passi, nella pianificazione e realizzazione dei processi di pacificazione e riconciliazione, può diminuire la probabilità di successo.
Segue la sequenza di stadi:


  1. Conflitto: questo stato implica un coinvolgimento attivo in ostilità tese a danneggiare la vita, le possibilità di sussistenza o il benessere dell’altra parte. Ogni parte presume e attribuisce intenti cattivi a qualsiasi azione dell’altra. I principi base per stabilire o mantenere un dialogo sono infranti, e la comunicazione è talvolta realizzata in maniera incerta, tramite i buoni uffici di una terza parte “neutrale”. La narrazione che domina e si ancora a questo stadio – che domina i discorsi di ciascuna parte, così come i loro portavoce o i media che controllano – può essere riassunta nell’affermazione che “L’ostilità è l’unica strada”. I correlati emozionali che dominano i partecipanti sono: esaltazione – il potenziamento dello scontro -, disprezzo – una percezione denigratoria dell’altro contendente -, e ostilità. Le regole della partecipazione a questo stadio sono precisamente quelle di un gioco a somma-zero: “La tua perdita è il mio guadagno”.

  2. Coesistenza: sebbene le parti coesistano senza atti aperti di violenza – talvolta fianco a fianco come due paesi confinanti, o famiglie vicine, in una disputa violenta, talvolta a distanza, come una coppia in cui la donna si ripara in un rifugio, in seguito ad un abuso fisico da parte del marito - questo stadio rimane dominato da comportamenti che denotano una presunzione di cattive intenzioni per ogni azione dell’altro. Un esempio recente di tale presunzione riferita all’azione è rappresentato dalle fasi di escalation e de-escalation dell’allarmante scontro tra India e Pakistan per la contesa sul territorio del Kashmir nel giugno 2002, durante il quale si esprimeva l’interpretazione negativa e l’aperta sfiducia circa ciò che altrimenti poteva essere visto come un gesto di conciliazione manifestato da entrambe le parti. La messa in atto dell’ostilità è solo ridotta dalla presenza di una “zona neutrale”, vera o virtuale, fortemente messa sotto pressione, pattugliata o controllata da una potente parte indipendente (come la diplomazia del bastone e della carota messa in atto dagli Stati Uniti per ridurre il rischio di conflagrazione tra India e Pakistan nel 2002, o gli attuali contingenti delle Nazioni Unite a Timor Est o in Kossovo, o un’attiva separazione fisica o la presenza di un terzo membro familiare nel caso di conflitto maritale potenzialmente violento; ciascuno di questi è un esempio di funzioni di mantenimento di pace (Ury, 1999). La narrazione dominante in questo stadio sono le variazione del motto “Noi siamo pronti ad atti ostili, qualora fossero richiesti”. Le emozioni dominanti che sostengono e sono sostenute da questo stadio sono il risentimento – un risentimento caratterizzato dalla ruminazione ripetitiva di vittimizzazioni passate e di vecchi e nuovi rancori -, rabbia – mantenuta viva da quelle ruminazioni e, in uno scenario appropriato, dai media -, e la sfiducia nell’altra parte. Le regole dello scontro tra le parti continuano a seguire i principi di un gioco a somma-zero.

  3. Collaborazione: sebbene permanga come sfondo la presunzione di intenzioni negative, lo scenario cambia quando hanno inizio alcune azioni in comune, alcune collaborazioni come la coltivazione condivisa di territori di frontiera confinanti, o la ricostruzione di un ponte, o il ristabilire una strada lungo una linea di frontiera, o anche la condivisione di un fiume, quando donne provenienti dalle due parti lavano i panni, ciascun gruppo usando il margine opposto. La presenza esterna e regolatrice della terza parte diventa meno visibile, e il suo ruolo può divenire quello di testimoniare o verificare il processo, e occasionalmente comportarsi come un governatore cibernetico, per ridurre le deviazioni dai parametri dell’accordo esistente. Il proclama di avvertimento che sottolinea la narrazione che domina questo stadio recita: “L’ostilità è una possibilità cui ricorrere”, e un’ambivalenza più tranquilla comincia a ridurre le nuvole della sfiducia quale emozione dominante. Alcune regole caratteristiche dei giochi a somma-non-zero, possono iniziare ad essere osservate nel processo tra le parti – questo è lo stadio in cui il primo sentore di una società civile (ri) appare.

  4. Cooperazione: lo sviluppo di alcune pianificazioni di attività comuni (co-operazione), come il progetto di una diga per facilitare l’irrigazione in entrambi i territori, è accompagnato dal passaggio dall’assunzione dominante verso l’attribuzione di intenti neutrali all’altro (“Loro possono non essere nostri amici, ma non si comportano come nostri nemici. Anche se fanno i loro interessi, questi interessi coincidono con i nostri”). La presenza di una barriera esterna non è più necessaria, e quelle forze vengono avvertite come un ricordo quasi imbarazzante delle passate ostilità – in questo stadio agenzie di soccorso e emergenza, come UNHCR e WFP, completano il loro ritiro dal campo, venendo rimpiazzate dall’auto-aiuto. Infatti il motto soggiacente la narrazione in questo stadio sembra evolvere verso “L’ostilità potrebbe essere uno svantaggio maggiore… per entrambi. La pace è desiderabile”. Il campo relazionale muove verso l’adozione di regole a somma-non-zero di associazione, e le emozioni dominanti sembrano passare dall’ambivalenza alla possibilità di una cauta empatia.

  5. Interdipendenza: in questo stadio la materializzazione di obiettivi comuni oscura i sospetti residui di cattive intenzioni, le parti prendono parte a progetti comuni e azioni mirate al bene collettivo. La narrazione dominante rivela un consenso: “Noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. L’ostilità sarebbe certamente assurda”, e la natura costruttiva della relazione è attentamente mantenuta e segnalata una e più volte, in una attiva manifestazione di rituali di ricordo a somma-non-zero. Le emozioni dominanti possono includere l’accettazione del passato e anche il perdono dei precedenti misfatti, con cauta fiducia e aperto attaccamento.
  6. Piena integrazione: in questo stadio finale dello spettro tutte le azioni relazionali si basano su di una implicita assunzione di buone intenzioni attribuite ad ogni azione dell’altro, come su di un attivo coinvolgimento nella pianificazione e attività verso il bene comune (piena somma non zero). Inoltre ci sono strategie/sistemi di gestione del conflitto costruite entro l’infrastruttura relazionale, così che quando sorge un problema, e succede, può essere riformulato, attribuendo intenzioni positive all’altro. In più, ognuno supporta la crescita dell’altro. La narrazione è ispirata al proclama: “Noi siamo uno. L’ostilità non sarà più presa in considerazione”. Le emozioni dominanti sono quelle di solidarietà, fiducia amichevole, e forse amore. Raggiungere questo passo – cosa che capita saltuariamente nelle relazioni interpersonali e ancor più raramente nei sistemi più grandi – comporta un cambiamento di second’ordine (a livello qualitativo) nella relazione.
    Come abbiamo già detto, questa sequenza di stadi è proposta come NORMATIVA, e cioè, si può prevedere che la maggior parte delle relazioni conflittuali passi attraverso queste configurazioni. Il processo può rimanere fermo a qualunque stadio, così come peggiorare verso stadi più conflittuali se non viene spinto nella direzione opposta dalle circostanze, migliori interessi, o da chi lo guida. Parimenti importante, esso è SEQUENZIALE, e cioè questi stadi tendono a non essere saltati, ma uno segue l’altro, ed ognuno contiene esperienze che, una volta consolidate, costituiscono le basi del successivo. Ad ogni modo, la “scalata“da uno stadio evolutivo al successivo è dura; il calo è frequente e può portare a cadere all’indietro verso lo stadio precedente. In aggiunta, la ricompensa evolutiva per gli sforzi attivi fatti per il raggiungimento della “cima “appare – come in una qualsiasi scalata di montagna durante l’ascesa – molto lontana. E - cosa che è più scoraggiante per molti partecipanti - non è possibile avere una vista di ampia portata finché non si sono raggiunte le vicinanze della sommità finale

STADIO NARRAZIONE EMOZIONE
Conflitto “L’ostilità è l’unica strada” Disprezzo, ostilità, esaltazione
Coesistenza “Siamo pronti ad atti ostili, qualora fossero richiesti” Risentimento, rabbia
Collaborazione “L’ostilità è una possibilità cui ricorrere” Ambivalenza
Cooperazione “L’ostilità potrebbe essere uno svantaggio maggiore” Cauta empatia
Interdipendenza “Abbiamo bisogno gli uni degli altri” Accettazione del passato, cauta fiducia
Integrazione “Noi siamo uno” Solidarietà, fiducia amichevole



Gli stadi come eigen-valori (autovalori)
È stato detto e dettagliato sopra che ciascuno stadio presenta dei tratti distintivi. Un’altra cosa che è importante sottolineare è che ognuno ha la sua propria inerzia. Più nello specifico, i sistemi complessi non evolvono in maniera lineare, ma per stadi, alternando cambiamenti qualitativi con stadi instabili-ma-stabili (ciò che von Foerster, nel 1976, chiamò eigen valori di un sistema), con processi complessi che tendono a mantenere il sistema operante entro specifiche soglie. Ad ogni modo, nessun sistema instabile-ma-stabile rimane indefinitamente in un dato stadio. Infatti, la natura instabile di qualunque processo complesso può portare a lungo termine ad aumentare le oscillazioni (quantitative), che possono oltrepassare le soglie stabilite. Quando questo accade – in accordo con la nozione di “punti di rovesciamento” di Gladwell (2000) – l’intero sistema passa ad un nuovo, qualitativamente differente, livello di equilibrio, un nuovo eigen-valore, in cui di nuovo il sistema si fonde…fino a nuove oscillazioni che di nuovo lo destabilizzeranno. Questo processo evolutivo di fluttuazioni che, ad un dato momento oltrepassano una soglia, oltre la quale nuovi livelli di base – nuovo valori, nuove regole del gioco – vengono stabiliti, è stato descritto come caratteristico di tutti i sistemi complessi in equilibrio instabile2.
Il valore del comprendere questi processi dal conflitto aperto alla riconciliazione in una prospettiva sistemica – e seguendo un’ottica di stadi instabili-stabili - sta nella possibilità di assumere che i cambiamenti qualitativi avvengano seguendo i processi instabili di un dato stadio. Inoltre, le basi dello stadio successivo possono essere poste a qualunque stadio, ma non possono essere imposte, poiché i sistemi complessi seguono queste dinamiche quantitative-qualitative. Allo stesso tempo, variabili contestuali casuali (nel senso di non prevedibili) introducono molteplici perturbazioni che incidono sui futuri processi/azioni del sistema, riducendo la precisione dei tempi con cui questi cambiamenti evolutivi si susseguono.


Confronto ed integrazione come attrattori.
Ogni estremo della sequenza proposta funziona un “potente attrattore” – i processi vicini alla loro sfera di influenza tendono ad essere tirati nella loro direzione. E, come abbiamo detto precedentemente, mentre gli stadi intermedi possono acquistare stabilità tramite pratiche regolari, questi sono comparativamente instabili. In aggiunta, la scalata verso l’interdipendenza è consumata dal tempo, e il processo è spesso vissuto dalle parti come estremamente lento e poco gratificante, diversamente dagli spostamenti verso il conflitto, che sono potenzialmente più veloci e perciò allettanti nella loro immediata gratificazione. Da ciò il pericolo di un breve giro verso il processo evolutivo e il ragionevole rischio del temuto “pendio scivoloso “.
Ad un estremo dello spettro, i fumi del conflitto hanno un effetto intossicante (“Amo l’odore del napalm al mattino. Profuma di…vittoria!”3). “La forza fa la ragione” e “La guerra è contagiosa” (Ury, 1999). Infatti, all’inizio, il conflitto
• Riafferma il Sé (“loro ci vedono, quindi esistiamo”)
• Espande il Sé (genera un senso di potenza e di legittimità)
• Crea affiliazione (promuove un senso di fratellanza: “Il fascio”)
• Da senso alla vita (crea una storia di ottimismo e protagonismo)
• Crea speranze (apre futuri alternativi)
• Promuove gli affari (genera microeconomie, mercato nero, baratto, ricostruzioni)
Tuttavia, a lungo andare, se persistente, ha effetti tossici (“L’orrore! L’orrore!”4), poiché esaurisce le risorse e promuove la disperazione, un’esperienza che annulla il processo precedente. Come osserva Mitchell (1999, p. XII), riferendosi all’opinione pubblica irlandese dopo anni di conflitto protratto, “Le persone desiderano fortemente la pace. Sono stanche della guerra, ne hanno abbastanza di ansia e paura. Continuano ad avere delle differenze, ma vogliono accordarsi attraverso un dialogo democratico “.
In alternativa, il polo dell’integrazione attrae in quanto migliora:
• prevedibilità e prospettive (la pianificazione può essere fatta con un qualche grado di certezza)
• civiltà (le regole delle relazioni interpersonali e istituzionali sono garantite dai comportamenti decretati a livello collettivo, e da agenzie che le applicano basandosi sull’accordo collettivo)
• benessere personale e relazionale (in contrasto con lo stress esaustivo che origina dalla violenza)
Se l’integrazione persiste, tuttavia, il senso di responsabilità verso la collettività, in primo piano durante la crisi, può rischiare di spostarsi sullo sfondo, a meno che una crisi esterna riattivi quel bisogno e quell’esperienza.


Alcuni commenti di chiusura sulle narrazioni
Come abbiamo brevemente indicato, ogni stadio è caratterizzato da un insieme di narrazioni, dato dalle versioni che le persone raccontano della situazione (chi è “il bravo ragazzo e il cattivo ragazzo”, chi il protagonista e l’antagonista, chi quelli con nobili o ignobili intenzioni, la motivazione più profonda e gli intenti nascosti dell’altro, eccetera).
E ciascun insieme di storie tenderà a ricostruire (per rendere più solido e ancorato) il rispettivo stadio. Quindi l’intero processo verso la riconciliazione implica - e può anche focalizzarsi centralmente su – un progressivo cambiamento delle narrazioni dominanti, da storie di vittimizzazione a storie di evoluzione e potenziamento. Questo processo di cambiamento delle narrazioni dominanti (e perciò facilitante dei cambiamenti verso stadi più sviluppati) è difficile, perché le narrazioni dominanti risultano radicate nel tempo, ancorate (e ancoranti) nell’identità individuale e collettiva. Per questo motivo il passaggio attraverso i vari stadi verso la collaborazione costruttiva diventa più praticabile quando i cambiamenti vengono realizzati simultaneamente e ancorati ad azioni a livelli multipli – come nei diversi campi economico, educativo, sportivo, artistico, che contribuiscono (anche se con pesi diversi) a costruire una società civile.
Il passo successivo nello sviluppo di questo modello, può includere un’ulteriore specificazione dei tratti (“sintomi”) che caratterizzano ciascuno stadio, allo scopo di rendere possibili un’identificazione (“diagnosi”) più accurata del punto di stallo evolutivo in differenti situazioni di malessere o conflitto. Per il momento dovremo contare sulle nostre sante intuizioni per individuare con precisione, con un certo grado di approssimazione, lo stadio specifico in cui un dato processo può essersi bloccato.
Il compito di un mediatore/facilitatore/consulente consiste nel destabilizzare e trasformare la storia portata avanti dalle parti a favore di una (storia) “migliore”, e facilitare l’adozione consensuale di questa da parte di tutti i partecipanti.
Uno dei cambiamenti desiderabili nella trasformazione delle storie è il passaggio da un atteggiamento passivo ad uno attivo (da persone come recipienti impotenti di atti ricevuti da altri a persone come agenti di cambiamento). Tuttavia – e questa è la ragione per cui lo sottolineamo qui – questo cambiamento può diventare una spada a doppio taglio, in quanto la prematura assunzione di un atteggiamento attivo (cioè di persone come protagoniste attive della loro storia) entro una narrazione precedentemente caratterizzata da una vittimizzazione passiva, può spingere i partecipanti verso una vendetta violenta piuttosto che promuovere la collaborazione costruttiva (in psichiatria clinica, se la passività fisica che accompagna molte depressioni è neutralizzata con farmaci prima che sia cambiato l’umore, aumenta il rischio di suicidio!).
A questa discussione si lega un altro importante argomento: le storie vivono nello spazio interpersonale (in aggiunta allo spazio iconico dei simboli e dei rituali). Quindi l’unità minima di analisi non dovrebbe essere l’individuo ma la “rete sociale“come chiave della vita quotidiana nello spazio interpersonale – incluso ma non limitato alla famiglia, gruppi affini, organizzazioni comuni, aggregazioni legata agli stessi interessi – in cui vecchie e nuove storie circolano e vengono ricostruite, riconfermate e ancorate, o cambiate.
Inutile dire che molte reti altamente strutturate (come l’esercito, i partiti politici, i gruppi religiosi) possono essere investite di narrazioni che si auto-sostengono e che possono spingere verso il conflitto, e che può essere difficile mettere in dubbio a causa della fitta e omogenea natura della collettività.
Forse un umile obiettivo che dovrebbe soddisfarci è quello di raffinare la nostra capacità di destabilizzare le narrazioni esistenti…e sperare per il meglio. Tuttavia, alzando la posta intellettuale in gioco, la questione più stimolante che può guidarci in qualunque situazione in cui siamo impegnati come facilitatori di cambiamento è quali narrazioni che connettono – e quali pratiche che di esse fanno parte – possano essere seminate o sviluppate in accordo, così da divenire dominanti e rimpiazzare le precedenti, dando una gomitata al sistema conflittuale e facendo un passo avanti nel processo verso la riconciliazione. Se tutto va bene, la mappa qui proposta fornirà un’utile punto di orientamento per la pianificazione del percorso completo dal conflitto alla riconciliazione.


Bibliografia


  • Axelrod R. The Evolution of Cooperation.
    New York: Basic Books, 1984.

  • Conrad J. Heart of Darkness.
    (Robert Kimbrook, Ed., 3D. Edition), New York-London: Norton, 1988 (pubblicato
    per la prima volta nel 1899).

  • Foerster H. v. “Objects:
    Token for (eigen-) behaviors”. Cybernetic Forum 8 (3&4), p. 91-96,
    1976. Anche in H. v. Foester. Observing Systems. Seaside, CA: Intersystems
    Publications, 1981. L’originale in francese era incluso come capitolo
    in B. Inhelder, R. Garcia e J. Voneche, Eds. Epistemologie Genetique et
    Equilibration. Neuchatel: Delachaux et Nistle, 1978.

  • Gladwell M. The Tipping Point:
    How LIttle Thigs Can Make a Big Difference. New York: Little Brown Co.,
    2000.

  • Kreimer A., Collier P., Scott
    C. S. e Arnold M. Uganda: Post-Conflict Reconstruction. Washington, DC:
    The Wordl Bank (Country Case Study Series), 2000.

  • Laing R. D., Phillipson H. e
    Lee A. R. Interpersonal Perceptions: A theory and a Method of Research.
    London: Tavistock, 1966.

  • Minow M. Between Vengeance and
    Forgivness: Facing History after Genocide and Mass Violence. Boston, Beacon,
    1998.

  • Mitchell G. J. Making Peace.
    Berkeley: University of California Press, 1999. (nuova edizione, 2000).

  • Prigogine I. e Stengers I. Orders
    Out of Chaos: Man’s New Dialogue with Nature. New York: Bantam Books,
    1984.

  • Ury W. The Third Side (inizialmente
    pubblicato come Getting to Peace). New York, Penguin, 1999 (nuova edizione,
    2000).



Note


  1. Come gli scenari di
    conflitto variano dall’interpersonale all’intercontinentale,
    dalle relazioni tra individui alle relazioni tra gruppi di nazioni, gli
    esempi forniti talvolta si riferiscono alla coppia (come nel caso di un
    matrimonio in rovina) e talvolta ad entità socio-economiche e etno-politiche
    (come paesi in guerra, o dispute tra nazioni).

  2. Prigoyine e Stengers
    (1984) affermano l’universalità di questi processi, definendoli
    come l’essenza di tutte le dinamiche (co)evolutive. I sistemi complessi,
    essi dicono, passano attraverso periodi di stabilità o equilibrio
    entro parametri fissati ma evolvono verso fluttuazioni parametriche che
    progressivamente spingono il sistema lontano dallo stato di equilibrio
    finché, raggiunta una soglia o “punto di biforcazione”,
    vengono posti nuovi livelli di base, e il ciclo ripete sé stesso,
    ma ad uno stadio evolutivo differente.

  3. Come esclamò allegramente
    un comandante militare nel mezzo di una violenta carneficina, nel film
    di Francis Ford Coppola “Apocalypse Now” del 1979, la cui sceneggiatura è di
    John Milius e Francis Coppola.


  4. Espressione mormorata
    in disperazione dal consumato, condannato, suicida colonnello Kurtz, sempre
    in “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, inspirato alla novella “Cuore
    di Tenebra” scritta da Joseph Conrad nel 1988, in cui un personaggio
    omonimo mormora queste stesse parole (Conrad, 1988, p. 72).