venerdì 6 aprile 2007

L'INCONTRO TRA LE CULTURE - TRA CONFLITTO E MEDIAZIONE L’INTERFERENZA UTILE DEL MEDIATORE CULTURALE

Giancarlo Francini

Socio Didatta A.I.M.S. Istituto di Terapia Familiare di Siena Responsabile Settore Intercultura Istituto di Terapia Familiare di Firenze itfs@itfs.it


Le somiglianze tra le differenze
L’interferenza viene definita come: fenomeno costituito dal sovrapporsi di due elementi, forze o azioni, che si possono sommare, limitare o distruggere a vicenda con particolari effetti e risultati.
Sicuramente l’incontro tra le culture è caratterizzato dalla percezione di somiglianze e differenze (tab. I).
La somiglianza che noi percepiamo attiene al genere, al ruolo, all’esperienza di vita stessa oltreché all’universale a cui ognuno di noi si riferisce quando cerca di comprendere il mondo che lo circonda.
La differenza attiene per lo più al culturale, al somatico e di nuovo all’esperenziale.
Quando nel quotidiano della nostra percezione, le somiglianze e le differenze si sovrappongono, l’effetto che ricade su di noi e pervade la nostra sensazione conoscitiva è proprio quello dell’interferenza; essa può evolvere in paura o soltanto provocare in noi confusione.


La confusione del migrante è quella dello “stare tra” due lingue, due tempi, tra il definitivo e il transitorio, tra il qui e l’altrove, tra la stima e la vergogna, tra il fallimento ed il successo, tra la maledizione e la benedizione del denaro guadagnato.
Il migrante vive in una condizione di precarietà come colui che sta seduto tra due sedie1: non sta né qua nel paese d’accoglienza, né là nel paese d’origine, e finisce poi per sentirsi straniero sempre e comunque. La sua condizione è quella di un’ambivalenza tra lo stare definitivamente in un luogo e sentirsi invece transitoriamente ospiti in attesa di ritornare altrove.
Il migrante finisce poi per essere definitivamente emigrato pur sperando di tornare in “patria”, e al contempo definitivamente straniero, intriso com’è della sua cultura, anche se il suo stare altrove non è più (e forse non lo è mai stato), transitorio.
Le differenze e la battaglia interiore tra questo stare definitivo ma transitorio, (e transitorio ma definitivo), lo porta a sentirsi “diviso” tra questa appartenenza ed un’altra appartenenza, tra un inserimento ricercato ed una differenza vissuta come necessaria.
E’ un conflitto tra coerenze, come quello tra una cultura interna ed una acquisita, ed anche il ritorno a casa spesso non serve a ricomporre o annullare il conflitto. Anzi la cultura acquisita ha inciso irrimediabilmente le sue abitudini, i suoi ritmi, i suoi mille “tic” del quotidiano e il suo confronto con la terra dov’è nato si fa complesso e pieno di ri-adattamenti necessari; anche il paesaggio è cambiato nei suoi occhi che vanno alla ricerca dei punti di riferimento che ha acquisito, come al momento dell’arrivo nel suo nuovo paese vanno alla ricerca dei punti di riferimento precedenti, riferimenti che aveva assorbito nascendo e crescendo guardandosi intorno (il mare, i monti, gli alberi, o altro).
Già il viaggio che lo ha portato qua ha fatto di lui una “persona diversa”, sia rispetto a ciò che era prima, sia rispetto alla sua famiglia, ai suoi amici e ai compaesani. Non c’è dubbio che il viaggio, sia esso avvenuto in gruppo, da solo o con qualche altro familiare, sia un’esperienza d’autonomia, una specie di iniziazione che segna, drasticamente, il confine tra un prima ed un dopo. Al contempo, però, segna anche la prima frustrazione poiché nessuno, di quelli che rimangono a casa, potrà mai capire il suo viaggio né la sua nuova condizione.
L’arrivo rappresenta spesso un’altra delusione e frustrazione, rispetto a tutto ciò che era stato fantasticato di trovare.
Ogni suo tentativo di “adeguarsi” corrisponde ad una delusione di non accettazione vissuta;
ogni tentativo di differenziarsi rischia di diventare un rinchiudersi nel ghetto.

La confusione dell’indigeno si esprime per lo più in paure e disorientamento.
Comune è la reazione alla confusione cercando una improbabile razionalizzazione, rifugiandosi in conoscenze culturali o etniche, che altro non sono che la “cosalizzazione”2 dell’altro: nelle azioni umane non c’è niente di tipico e tutte le volte che diciamo che quel comportamento è tipico per una certa cultura, lo stiamo “cosalizzando”. Il tentativo di inquadrare e raggruppare incasellando i fenomeni complessi in categorie più semplici o comprensibili è pur sempre un’azione tesa a rassicurarci dalla paura dello sconosciuto. Il rischio però è quello di determinare l’altro come fenomeno o oggetto e non come persona.

Un’altra reazione è quella della paura del razzismo che può albergare dentro di noi, e l’incontro con questo sentimento complesso fa paura. D’altra parte la paura di ciò che è diverso è antica quanto il mondo (e non solo quello umano ma anche quello animale), quindi è sicuramente umano anche reagire con paura e rifiuto. Allora quando ci accorgiamo di temere la prossimità con l’altro e sentiamo dentro di noi ciò che viene definito comunemente (ma anche moralisticamente) come razzismo, ci difendiamo, non ci riconosciamo in esso e cerchiamo altre spiegazioni.
Di fatto l’ospitalità, l’accoglienza è necessariamente problematica ed ogni riduzionismo è banalizzazione o difesa personale.
L’indigeno si trova ad oscillare tra assimilazione dell’altro e il governo delle autonomie
In fondo questi sono i due modelli di riferimento nell’occidente: il tentativo di negare la differenza e riconoscersi tutti uguali non solo nei diritti e nei doveri ma anche nelle necessità: tutti francesi, quindi tutti secondo i ritmi e i tempi francesi, le abitudini i gusti e così via. In questo senso il migrante deve assimilarsi alla cultura ospitante.
L’altra tendenza invece è quella di tutti diversi e quindi a ciascuno secondo la sua differenza, favorendo la creazione di varie comunità locali culturalmente determinate: i cinesi con i cinesi, i senegalesi con i senegalesi. La società è multiculturale, ma ritorna in un certo senso ad essere anche coloniale
coloniali.

Anche in buona fede, o addirittura intenzionalmente, l’atteggiamento della società ospitante è quello dell’assoggettamento del più povero, del più debole, del diverso:

“Non c’è società che non abbia tentato si padroneggiare
culturalmente il mondo. Ma questa tentazione deriva non tanto dal desiderio di
conoscere ma dal bisogno di riconoscersi in questa immagine del mondo – sostituendo
alle indefinite frontiere di un universo in fuga, la sicurezza totalitaria dei
mondi chiusi”3

Più in generale l’indigeno rimane confuso dalla paura della perdita d’identita’ per l’invasione degli altri, per la rottura delle frontiere, per la perdita di confini chiari e rassicuranti

Messe a confronto le confusioni del migrante e quelle dell’indigeno, ci danno un’immagine inaspettata: nell’incontro i due si danno di spalle e non riescono ad incrociare i loro sguardi: il migrante è potenzialmente sempre rivolto al passato e ad esso tende, l’indigeno è tutto rapito dalla gestione del futuro o di un presente abbastanza futuro.

Il conflitto culturale
Nel tentativo di individuare di cosa si componga il conflitto culturale ho individuato alcune categorie:



A il bisogno di riconoscersi (nel senso di annettere) nell’altro
Non c’è società che non abbia tentato di padroneggiare intellettualmente il mondo.
Ma questa tentazione deriva non tanto dal desiderio di conoscere ma dal bisogno di riconoscersi in questa immagine del mondo. Gli uomini non desiderano tanto conoscere il mondo quanto piuttosto riconoscersi in esso.
Il fatto è che chi si riconosce nella sua azione di “conoscenza” non si accorge di appartenere ad un mondo chiuso ma si pensa invece come universale e senza riconoscimento reciproco.
In un certo senso coloro che si riconoscono negli altri, partono dalle somiglianze per negare o subordinare le differenze: sono come noi solo che sono inferiori culturalmente etc. etc.
Il conflitto qui è potenziale, ma può emergere concretamente qualora il subordinato reclami parità.
B l’altro come minaccia
Se è vero che l’individuo acquista senso nella relazione, è anche vero che questa non ha senso senza di lui. E, inversamente, l’identità non si valuta che al confine del sé e dell’altro, ma questo stesso confine è essenzialmente culturale. Traccia l’insieme dei luoghi problematici di una cultura. Questo insieme lo possiamo considerare sicuramente il confine all’interno dell’incontro, della relazione che si instaura tra l’indigeno ed il migrante.
M. Augè ha ben individuato questi luoghi dell’incontro (o non incontro) come luoghi non definiti, non pensati e non disegnati, e li ha definiti appunto i “non luoghi”. E’ lì, nei non luoghi, che l’altro, come alterità da noi, è una minaccia.
C l’altro come altro da non vedere
L’immigrato, prendendo le mosse dal suo vissuto di disequilibrio e dissonanza (che ha ben descritto Ciola) sente di poter essere solo emarginato, isolato, estraneo.
Di fatto si isola e si ritiene non in grado di dare qualcosa a questa cultura ospitante, sentendosi sempre più inutile finchè non si sente “altro”.
Oppure l’estremizzazione delle separazioni tra comunità culturali conviventi, porta alla radicalizzazione del non rapporto con conseguente escalation simmetrica e evoluzione verso il conflitto.
D Conflitto come confusione e disorientamento
Un conflitto tutto psichico, tutto interno, di colui che non appartiene più alla sua cultura d’origine e non appartiene ancora alla cultura d’appartenenza.
Il conflitto tra le due (o più) sue anime che si dibattono in lui.
E Conflitti di prossimità
Conflitti che si originano nell’esperienza di prossimità spaziale tra culture diverse, tipici della convivenza:

• Conflitti dati da rituali;

• Conflitti della vita quotidiana dati dalle differenze nelle abitudini,
nei ritmi e nelle esigenze personali;

• Conflitti nel ciclo vitale; spesso differenze di sperimentazione e vissuti
rispetto alle fasi del ciclo vitale (identiche nelle culture anche le più diverse),
provocano confusione e rigetto dalla cultura ospitante o dalla cultura del migrante
Sarebbe comunque un errore che questi conflitti siano a senso unico, rappresentino cioè solo il “sentire” dell’indigeno e non quello del migrante. Non c’è una sostanziale differenza nel disagio che entrambi queste rappresentanze sociali provano nell’incontro.
Così i sentimenti descritti possono appartenere indistintamente ad entrambi, seppure con diversa coloritura e diverse risorse o diverso potere contrattuale.


La Mediazione



Cos’è?
La creazione di un terreno comune all’interno del quale incontrarsi e riconoscersi reciprocamente, attraverso il “dare a Cesare quel che è di Cesare” (vd. Tab I) e l’analisi dell’emotività prodotta dall’incontro, con l’aiuto di un’interfaccia responsabile.
Lo specifico sistemico
L’altro lo si incontra sul confine
Le culture si incontrano sui confini, sulle molte soglie della società complessa come la nostra.
Lì i “mondi” si toccano: abbiamo la necessità di considerare ogni mondo come parte di uno stesso universo caratterizzato da interazioni, relazioni, contaminazioni e feedback
Nella misura in cui prendo in considerazione l’insieme, riuscirò a prendere in considerazione il conflitto culturale.
In fondo l’incontro permette il contatto non solo tra quegli individui e questa cultura ma anche dei mondi lontani che sono rimasti a casa. Come quei mondi lontani influenzeranno gli individui qui? Come la cultura qui influenzerà il mondo lontano e ne sarà a sua volta influenzata? Non possiamo incontrare l’altro se non ci poniamo queste domande.
Lo specifico relazionale
Esiste uno specifico legame tra la forma ed il significato della sofferenza (o malattia) e la cura specifica per quella sofferenza, in una data cultura.
Per esempio nella famosa ricerca di E. De Martino4 sul fenomeno del tarantismo in sud Italia, una crisi nevrotica (il tarantolato) veniva letta dalla comunità di appartenenza del soggetto e dal soggetto stesso, come legata ad un simbolismo culturalmente determinato (il morso della taranta); allo stesso tempo il superamento di tale stato era affidato a rituali culturalmente condizionati (la musica) ma ugualmente condivisi tra i praticanti, il soggetto e la loro comunità di appartenenza.
In un certo senso la “terapia” e la “cura” sono veicolate da sistemi di comunicazione condivisi e culturalmente caratterizzati.
Se, cioè, il sistema di cura non parla un linguaggio appartenente alla comunità alla quale è applicata, rischia di essere inefficace o anche rigettato, come un corpo estraneo o un organo trapiantato ma rifiutato dall’organismo5.
Tra l’indigeno ed il migrante avviene un confronto tra mappe (epistemologie locali) diverse, che può, se favorito, evolvere alla ricerca di una comunicazione comune, attraverso la quale conoscersi.


Gli ambiti della mediazione6
In questa situazione sociale dove ognuno di noi incomincia a confrontarsi non solo con il fenomeno diffuso dell’immigrazione, ma anche con una serie di problematiche connesse con le seconde o terze generazioni della migrazione, rischiamo di ritenere la mediazione una panacea per tutte le situazioni e a ritenere la necessità della presenza di mediatori culturali ovunque e di qualsiasi tipo.
E’ allora interessante incominciare a definire una serie di ambiti specifici per un intervento di mediazione, in grado anche di differenziare le diverse tipologie di mediazioni culturale.



  1. azione di intermediario in situazioni dove non c’è conflitto (per es. i programmi di accompagnamento sociale dell’immigrato; sostegno all’inserimento etc.)


Sono interventi predisposti dai servizi, sulla base delle conoscenze dei dati statistici. In fondo sapendo che il 30% dei bambini presenti nelle scuole dell’infanzia di un comune, sono figli di famiglie straniere o miste, aspettarci che questo 30% sarà presente anche nella scuola dell’obbligo nei prossimi anni, non è assolutamente la previsione di un’emergenza ma dovrebbe essere alla base di una programmazione di servizi e di progettazione pedagogica.
Quindi quel comune dovrebbe sapere di aver bisogno anche di personale che:



A sostiene i cittadini provenienti da culture diverse a vivere in quella realtà usufruendo dei servizi messi a disposizione e a conoscere la particolarità di quella zona;
B sostiene gli operatori già in forza in quel comune a confrontarsi con culture diverse;
C ad affrontare particolari esigenze;
D ad osservare l’emergere di pericolose situazioni sociali che potrebbero sfociare in conflittualità.
E Strutturare interventi di prevenzione sanitaria e sociale.


Questi diventano luoghi all’interno dei quali interviene il mediatore culturale. Esempi già ci sono, di interventi nella scuola, nelle carceri, nei plessi sanitari e socio assistenziali, o in certi servizi ai cittadini per il lavoro, l’anagrafe, o altro ancora.
Qui possiamo parlare a tutti gli effetti di luoghi, poiché i luoghi esistono già e sono identificati per la funzione che essi svolgono; là avviene l’incontro tra persone di culture diverse per la necessità o l’obbligo che ognuno di loro ha di recarvisi;



  1. azione all’interno delle situazioni conflittuali per la loro risoluzione, tra famiglia immigrata e società o all’interno della stessa famiglia.


Quando la conflittualità è all’interno della famiglia si tratta di intervenire a livello di mediazione familiare o a livello di intervento terapeutico.
Qui il dibattito attuale è tra l’utilizzo di mediatori di madrelingua oppure mediatori culturali specificatamente formati ma non di madrelingua.
In realtà riteniamo che la differenza sia in fondo superabile in quanto nell’uno e nell’altro caso il mediatore deve essere formato a stare nella relazione e a leggere la domanda che viene posta dall’incontro tra persone o gruppi di culture diverse, con un’attenzione particolare a capire il quid culturale degli altri.
Fanno parte di questi interventi:



A mediazioni familiari con coppie miste7 o coppie di culture diverse da quella ospitante;
B interventi sulla genitorialità inerenti conflitti generazionali culturalmente determinati;
C specifiche conflittualità in quartieri particolari o in certe situazioni in cui si scatenano conflitti di prossimità.
D Interventi nelle relazioni in cui l’incomprensione linguistica culturale provoca disorientamento e conflitto (per esempio gli interventi delll’interprete –mediatore come vengono descritti dagli operatori di Appartenances)8;


Problema specifico spesso diventa, nell’ambito di alcuni di questi interventi, quello dei luoghi della mediazione poiché essi non sono né identificati né pre-costituiti. Essi assomigliano molto a quelli che Augè ha definito non luoghi.9



  1. nel processo di creazione di ambiti collaborativi tra le parti in causa, finalizzato alla risoluzione dei problemi.


E’ questo l’ambito di interventi concordati, dove si va a stimolare la presa di coscienza, la conoscenza nella reciprocità e la collaborazione su progetti concordati.
L’intento è quello anche di sollecitare il migrante in un processo dinamico attivo per raggiungere la dimensione esistenziale in cui egli non senta solo di prendere qualcosa dalla società ospitante ma anche di essere in grado di dare ad essa qualcosa.
Rientrano in questa tipologia:



A gli interventi gruppali descritti da Edelstein10 su ciclo di vita, migrazione, cooperazione;
B gli interventi grippali descritti dal Centro Appartenances di Losanna sull’esperienza migratoria;
C interventi educativi in particolari situazioni11;
D strutturazione di collaborazioni sul piano culturale e divulgativo, con le comunità culturali presenti sul territorio12.
In questo tipo di interventi il luogo viene concordato e in un certo senso costruito insieme, e solo per questa opera concordata quel luogo assume un significato particolare per i partecipanti a quell’esperienza.


Il Mediatore Culturale ovvero l’interfaccia
Il dizionario di informatica Mondadori dà questa definizione di interfaccia: l’interfaccia è “la facciata che due entità offrono l’un l’altra nelle reciproche interazioni”.
Il dizionario Zingarelli recita invece:

“l’insieme dei punti di due superfici, che permettono il contatto in
presenza di una qualsiasi differenza”.
Per Bateson13 l’interfaccia indica “confini di sistemi definiti da scambi di informazione e da cambiamenti di codifica, piuttosto che indicare delimitazioni come la pelle. Perciò interfaccia diventa il termine per indicare il luogo dell’interazione sistemica”. Per Bateson l’interfaccia permette la comunicazione tra Pleroma (il mondo materiale, caratterizzato dalla regolarità descritte dalle scienze fisiche) e Creatura (il mondo della comunicazione). Seguendo la suggestione di Bateson, allora, l’incontro tra il migrante e l’ospite potrebbe essere visto come un sistema di scatole cinesi in cui più volte si ha l’incontro di Pleroma e Creatura, dove le diverse culture, le diverse ritualità e le diverse disposizioni individuali, costituiscono la difficoltà della relazione.
L’interfaccia va a cercare di connettere Pleroma e Creatura tentando di far dialogare le differenze: ogni incontro però provoca necessariamente una trasformazione che poi equivale ad una differenza.

Ma non si tratta solo di assumere una epistemologia: il mediatore è esso stesso “l’interfaccia”; è esso stesso attraversato da una serie di informazioni provenienti da una parte, che entrano in risonanza dentro di lui e vengono filtrate per poi essere di nuovo trasmesse all’altra parte, inevitabilmente masticate, elaborate: più l’interfaccia è parte costituente del territorio collaborativo, del territorio specifico di quella relazione e più sarà obbiettivo; più l’interfaccia riesce a metacomunicare su di sé e più la sua azione sarà oggettiva, o meglio, consapevolmente soggettiva.
In questo senso è condivisibile la definizione di Bateson come “confini che contengono sistemi definiti da scambi di informazione e da cambiamenti di codifica”.

Il mediatore culturale non è mai neutrale, anche se di fatto rimane interfaccia che permette lo scambio, poiché si tuffa nella cultura del migrante e spesso anche sua, ma appartiene anche alla cultura ospitante che in qualche modo rappresenta per l’opera stessa che sta svolgendo (e non può certo tirarsi indietro). In questo senso la sua posizione può dirsi semmai responsabile.
Possiamo inoltre dire che il mediatore ha imparato a star seduto bene ora su una sedia ora sull’altra.

Il mediatore Culturale di approccio sistemico relazionale, cerca di far comunicare, funzionando lui stesso come interfaccia, il sistema del migrante col sistema dell’ospite, sta nella relazione tra la cultura dell’uno e quella dell’altro ma anche nella specifica relazione tra quella persona e l’altra.

Lo specifico dell’incontro: la complessità dell’interfaccia
In campo antropologico, il concetto di identità è impossibile coglierlo una volta per tutte o in maniera universale, è quindi da considerarsi “mutevole e fluttuante e quindi indeterminabile se non attraverso le sue specifiche attualizzazioni, contestuali e temporalmente delimitate”14.
Comunque anche nella contestualizzazione dobbiamo entrare nella relazione tra individuo e le diverse collettività a cui egli appartiene (fratria, lignaggio,età, clan, villaggi etc.etc.) ed anche nel rapporto tra individuo e altri individui15 Già Mauss16 aveva descritto tutta la difficoltà ad isolare un concetto come quello di persona o “io”, e aveva affrontato il problema cercando di darne le varie sfaccettature e le varie componenti, rimandando quindi all’intreccio per cui, all’interno di una persona, si va formando l’idea di identità

Da un punto di vista psicologico, d’altronde, l’identità è una conquista che avviene nel tempo e nella formazione e che quindi di nuovo subisce variazioni nel tempo.
Ah a che fare con la propria storia, con le esperienze che facciamo nel rapporto col contesto e con gli altri, subisce l’influsso dei propri vissuti emotivi e produce a sua volta vissuti che acquistano significato e significatività. Nasce nell’interazione fondamentale col contesto familiare, con i “miti” e le abitudini familiari, ed è figlia del passato nel senso della cultura familiare (e non solo) almeno trigenerazionale Anche se contemporaneamente si confronta col presente e si immagina nel futuro.

Sappiamo, che ci sono varie parti del sé attive contemporaneamente e che sono appunto attivate dalle relazioni di cui viviamo. Sappiamo inoltre che il sé si forma in relazioni (almeno triadiche)17 e si nutre delle rappresentazioni di queste relazioni nello scambio interattivo con l’altro.
C. Edelstein recentemente18 ha segnalato vari livelli del sé:



  • Il sé universale: lo specifico umano (filosofia; etologia);
  • Il sé locale: lo specifico culturale (nel senso di Bateson19 – l’epistemologia locale); l’etnopsichiatria ci ha insegnato che c’è uno specifico culturale che non è assolutamente assimilabili universalmente a costo di ridurre la personalità;
  • Il sé individuale: l’unicità dell’esperienza e del vissuto di quella persona;
  • Il sé relazionale: la specifica relazione che costituisce fondamento per la personalità; il terreno all’interno del quale si formano significati e nessi.Da questo punto di vista anche il sé individuale può essere letto come il luogo della co-presenza.20


Tentando una difficile sintesi tra queste due discipline possiamo dire (ed è mia intenzione dire), che esiste un territorio condiviso21, che spesso è rappresentato dallo spazio dell’incontro, che acquista uno specifico significato per via dei “linguaggi” e dei significati elaborati e condivisi tra i partecipanti a quella relazione.

In mediazione culturale abbiamo molte identità che si incontrano, compresa quella del mediatore-interfaccia; perché quell’incontro possa favorire lo scambio, necessitiamo di mettere in discussione la nostra identità nel senso di confrontarla con l’altro.
Per questo l’ascolto in gruppo della propria e dell’altrui esperienza migratoria assume un altro significato in grado di veicolare la conoscenza ma anche il riconoscersi, il sentirsi appartenente alla propria cultura ma anche alla cultura specifica di quell’incontro e quindi di una parte di società che si è incontrata e che è in quell’incontro rappresentata.
In fondo, se il passare dallo stare scomodamente seduto tra due sedie alla dimensione di riuscire a stare comodo su entrambe le sedie, (come dice Ciola) è dato dal sentire di aver qualcosa da dire e dare alla società ospitante e dal riconoscere l’avere da prendere e apprendere qualcosa dal migrante, allora ogni lavoro che permetta questa elaborazione sull’identità nella sua evoluzione (e complessità) favorisce questo passaggio.

Questa impostazione della mediazione culturale implica una maggiore attenzione alla relazione che si instaura con l’altro, rispetto ad un approccio alla mediazione che privilegia invece gli aspetti meramente linguistici e quelli culturalmente determinati.
Diverso è anche l’atteggiamento del mediatore e soprattutto diversa è la necessità di una sua rielaborazione interna della relazione con gli utenti. Compito primario del mediatore è quello di sapersi tuffare nella molteplicità del sé, suo e dell’altro, di avere una curiosità empatica ed una capacità d’ascolto, tali da far sentire gli altri (indigeni o migranti) a casa propria.
Là dove dovesse scattare il giudizio, lo schieramento ideologico, il riduzionismo antropologico, il mediatore culturale perderebbe la sua funzione. Devereux fondatore riconosciuto dell’etnopsichiatria, affermava appunto che lo specifico dello psichiatra fosse appunto l’ermeneutica dell’incontro, e più specificatamente nell’ambito dell’incontro tra culture diverse riteneva che indispensabile fosse l’atteggiamento etnologico di chi non cerca conferme alle proprie tesi culturali ma di chi va alla ricerca del confronto e delle eterogeneità e incomprensioni che da esso sorgono. Questo vale anche per la mediazione culturale, là dove essa dovesse assurgere a teoria in grado di spiegare o peggio giustificare fenomeni sociali complessi, allora perderebbe il suo specifico valore di interfaccia tra domande reciproche, tra lingue e significati che se non sostenuti nell’incontro, finiscono per darsi di spalle.
In questo senso il mediatore sta nella relazione con l’altro è esso stesso interfaccia viva, e quindi, necessita dell’osservazione del suo stare nella relazione con l’altro; anche l’analisi della domanda, fondamentale (come per ogni altro incontro umano e come per ogni altro tipo di mediazione), per poter cogliere lo specifico del disagio e della difficoltà insita nell’incontro tra persone o gruppi di culture diverse, è al contempo lettura del contesto ma anche lettura delle proprie reazioni e interazioni con l’altro di fronte a noi.


Note

  1. A. Ciola “Stare
    qui stando là” in Terapia Familiare n°54, 1997, APF Roma,
    1997; A. Ciola “Comment etre bien assis entre deux chaises” in
    InterDialogos 95-2, 1995


  2. L’espressione
    è di Pietro Clemente: seminario presso l’ITF di Firenze, Gennaio
    2002


  3. Marc Augè
    “Il senso degli altri” Anabasi, Milano, 1995)


  4. E. De Martino
    “La terra del rimorso” Il saggiatore, Milano, 1961


  5. G. Francini “Strumenti
    e relazioni. Ricerca ed intreccio in De Martino” in Ossimori 9/10,
    Protagon Editori Toscani, Siena, 1997


  6. Anna Belpiede
    “La professione di mediatore culturale in ambito sociale” (Torino)
    in Prosp. Soc. San. N°2/1999 Milano


  7. C. Edelstein “Le
    coppie miste” in E. Cassoni Dedicato alla coppia ; Quaderni di Psicologia,
    analisi transazionale e Scienze Umane, n°31; Edizioni La vita Felice,
    2000


  8. J.C. Metraux;
    F.Fleury “L’interprete mediatore (…) mette in comunicazione
    due parti,permettendo loro di capirsi, tramite domande che elgi comep responsabile
    fa ad entrambe le parti”


  9. M. Augè
    “Nonluoghi” Eleuthera, Milano, 1993


  10. C. Edelstein “Il
    pozzo: uno spazio di incontri” in Connessioni, n°6, Centro Milanese
    di Terapia Familiare; Milano, 2000

    C. Edelstein “Il ciclo di vita: progetto di sensibilizzazione e conoscenza
    tra donne italiane e immigrate” in Convenzione Donne di Bergamo “Donne
    Migranti” Quaderni della Porta; Fondazione Serughetti La Porta, Bergamo,
    2000


  11. G. Francini “L’affido
    di adolescenti immigrati” in AA.VV “Il minore affidato”;
    Centro Documentazione OASI, Firenze, 1998


  12. Interessante a
    questo scopo il Progetto della Regione Toscana “Porto Franco”.


  13. Bateson G. e Bateson
    M.C. “Dove gli angeli esitano” Adelphi, Milano, 1989


  14. Giordano Meneghini
    ‘Identità e tossicodipendenza’, tesi di Laurea, Università
    di Siena, Dipartimento di Demo Antropologia, Rel. Prof. Pietro Clemente.


  15. Marc Augè
    “Il senso degli altri” Anabasi, Milano, 1995


  16. M. Mauss, “Teoria
    generale della magia ed altri saggi”, Einaudi, Torino, 1965


  17. E. Fivaz-Depeursinge;
    A.Corboz-Warnery “Il triangolo primario”, Raffaello Cortina Editore,
    Milano, 2000


  18. C. Edelstein “La
    costruzione del sé nella comunicazione interculturale” (in press)


  19. G. ; M.C. Batesono
    “Dove gli angeli esitano”; Adelphi, Milano, 1989


  20. U. Telfener;A.Ancora
    “La consulenza con gli extracomunitari” in Psicobbiettivo, volXX
    n°1; Cedis, Roma, 2000


  21. G. Francini; B.Taddei
    “Il giroscopio” in Ecologia della mente, n°1/99, Pensiero
    Scientifico, Roma, 1999