venerdì 6 aprile 2007

LA MEDIAZIONE NELLE ISTITUZIONI - FORMAZIONE VERSUS CONFLITTO VERSUS MEDIAZIONE

Patrizia Leopardo

Socia Ordinaria A.I.M.S.

Sonia Rossato

Socia Ordinaria A.I.M.S.

Il contesto, setting in cui siamo entrate
Che cosa abbiamo proposto
Per arrivare dove
Cosa è capitato

L’esperienza che presentiamo ha visto coinvolti complessivamente 20 operatori della pediatria di comunità e il personale dei reparti di NPI, neonatologia e pediatria dell’asl 3 di Torino in un percorso di formazione di 20 ore.
(Una prima fase di 20 ore per tutti gli operatori, una seconda fase di 6 ore per il personale di pediatria di comunità dei distretti 1 e 2).
Il nostro committente è stato il direttore del dipartimento materno-infantile dell’asl 3.
L’esperienza si è svolta nel periodo settembre-novembre 2000.
“Potenziare la percezione e il sentimento degli operatori della pediatria di comunità e dei reparti ospedalieri sopracitati dell’essere parte di un unico sistema i cui soggetti è importante che stiano in rete. “
“Potenziare la disponibilità e la capacità degli operatori di costruire la rete e alimentarla.”


Questi erano gli obiettivi del percorso di formazione.
L’obiettivo prendeva forma dentro ad un complesso processo di riequilibrazione organizzativa in cui il sistema era ed è impegnato.
Potenziare la costruzione della rete, il fare rete significava lavorare affinché gli operatori coinvolti, appartenenti a differenti e specifici sottosistemi del dipartimento materno-infantile.

  1. guardassero un obiettivo comune (l’obiettivo del dipartimento),
  2. sviluppassero una visione più condivisa del soggetto a cui la loro azione professionale si rivolge (il bambino e la sua famiglia),
  3. si sentissero maggiormente parte di un unico e complesso sistema all’interno del quale socializzare punteggiature, differenze, specifiche professionalità ed esperienze.

Il fine era muovere verso una visione organizzativa che meglio sentisse la propria complessità e che cercasse di apprendere attraverso la condivisione, come una delle modalità che esprime la complessità.
La riflessione all’interno dell’organizzazione sulla necessità di muovere verso nuovi assetti e direzioni era già da tempo avviata.

Ora, l’espressione costruire la rete indicava per noi alcune traiettorie-direzioni di lavoro:
- L’attivazione di processi di comunicazione, scambio e confronto affinché da colleghi con specifiche individualità professionali gli operatori potessero pensarsi, immaginare colleghi-professionisti in rete
- La messa in comune di energie che attivando conoscenze e scambi stimolassero lo stare meglio connessi (rete) nell’esercizio della propria specificità professionale e nella connessione la possibilità di utilizzare meglio le proprie competenze relazionali e specifiche.
Da dove partire e come muoversi per percorrere tali direzioni?
L’idea era che ogni soggetto del sistema presente in formazione si facesse conoscere e conoscesse gli altri soggetti del sistema lì, all’interno del setting, e insieme si disegnasse la mappa che rappresenta il sistema di cui loro sono parte.
Il personale dei consultori della Pediatria di comunità, il personale infermieristico e medico dei tre reparti di NPI, pediatria e neonatologia presenti in formazione sapevano, è ovvio, dell’esistenza degli altri, ne conoscevano il posizionamento e le funzioni su una mappa almeno teorica dei servizi dell’azienda. Altro sarebbe stato, secondo noi, sperimentare, guardandosi in faccia, la narrazione del proprio sé professionale
- chi sono,
- che cosa faccio e dove lavoro
- a chi mi riferisco
- quali strumenti e quali modalità utilizzo.
Parlare di sé attraverso la propria progettualità professionale all’interno di un gruppo di colleghi e o operatori della stessa azienda ha la potenzialità di poter condurre ad una migliore definizione di sé dentro all’equipe, ad una migliore rappresentazione degli altri e alla reale possibilità di avvertire le reciprocità, di sottolineare le connessioni esistenti e di immaginare nuove connessioni possibili.
Questo è il lavoro che noi abbiamo proposto in prima seduta.
Lo stimolo della narrazione del chi sono professionalmente era inoltre e prima di tutto per noi lo strumento per delineare il setting: lì dentro, in quell’istanza formativa, ci saremmo impegnati ad attivare per le sette sedute di durata del percorso un processo di ricerca intorno alle risorse del sistema di funzionare come sistema.
Il primo incontro ci ha consentito lo scatto di una fotografia di individui in posizioni statiche, in difesa, rigidi, divisi fra loro e in piccoli gruppi ulteriormente separati.
Il giro di presentazioni ha rivelato alta tensione: troppo armati e attenti a non essere attaccati per vedersi e ascoltarsi.
La paura della punteggiatura dell’altro su sé, la diffidenza per timore che il giocare apertamente il confronto e le differenze risultasse squalificante, deprofessionalizzante agli occhi degli altri sottosistemi, dell’intero sistema, dei formatori non hanno permesso da subito di lavorare sull’individuazione degli altri come risorse.
Il secondo incontro abbiamo domandato al gruppo la costruzione di una rappresentazione grafica condivisa del contesto operativo, la costruzione della mappa insomma entro la quale ciascuno di loro, e come singolo e come parte di un sottosistema, opera
- dentro a quale cornice
- chi siamo e cosa facciamo
- chi interagisce con chi.
Chi siamo e cosa facciamo. Gli operatori hanno risposto faticosamente, poco capaci di vedersi e collocarsi, poiché la cornice, la punteggiatura da cui osservarsi e definirsi era l’intero sistema. Si sentivano poco capaci di vedere e collocare gli altri come elementi del medesimo sistema complesso. La difficoltà è stata “Da dove cominciamo? Chi rappresentiamo per primo sul grande foglio che è la mappa? Chi e in quale posizione,… il centro del foglio coincide con la centralità di ruolo, funzione e valore professionale?… A chi attribuiamo in modo condiviso tale centralità?”
Forse solo perché non lo avevano mai fatto, forse solo perché l’angolatura proposta (tutti noi siamo parti di un medesimo sistema) era nuova.
Tra i tre reparti ospedalieri e i consultori di pediatria di comunità sembrava correre indiscutibile l’implicito che la centralità spettasse all’ospedale (che lavora sull’emergenza, sull’urgenza, sulla gravità!).
Il dilemma, la difficoltà, l’empasse era: come esplicitare, trasformare, leggere la centralità dell’uno (i reparti ospedalieri), una centralità di tempo e di funzione, senza che diventasse centralità di valore professionale e senza farle assumere pertanto connotazione deprofessionalizzante per chi in ospedale non lavora (i consultori di pediatria)?

L’escamotage che il gruppo al lavoro si è dato è stato quello di rappresentare il territorio dell’azienda proprio per come si presenta geograficamente: l’ospedale sta spazialmente al centro, i consultori dei due distretti ciascuno su un lato dell’ospedale.
Il criterio “territoriale” ha consentito di rompere lo stallo, di procedere al posizionamento reciproco sulla mappa e di dare avvio all’esplicitazione per cui la centralità non andava letta in termini di valore professionale e la periferia in termini di minor conto, di pochezza, di banalità dell’intervento.
Nel corso delle tre ore della seduta si sono scoperti piacevolmente “dentro”, si sono scoperti invianti reciproci e microsistemi a cui inviare. Hanno disegnato la continuità entro la quale si situano.
Se partiamo dal presupposto che alla rappresentazione grafica corrisponda una rappresentazione interna, la seduta ha avuto per noi (ripensando anche ai rimandi esplicitati dagli operatori) la funzione di cominciare a trasformare le lontananze, le contrapposizioni e la paura di ciò che non si conosce o si conosce molto poco in luoghi differenti per funzione, competenza, modalità di intervento, in sottosistemi specifici di una complessità che, se guarda in modo condiviso il proprio obiettivo, è altro dalla somma delle parti.
Un elemento molto interessante è stato l’emergere degli assenti, il trovare posto agli assenti (i pediatri di base, i servizi sociali, il tribunale).
Chi interagisce con chi. Con estrema difficoltà hanno cominciato a tracciare le connessioni tra i diversi nuclei operativi e, come sempre accade quando si gioca in difesa, è stato più facile cominciare dal fare emergere la non efficacia dei collegamenti in particolare con chi non era presente:
- I pediatri di base vengono definiti come non o poco collaborativi
- I direttori di distretto poco capaci
- Il direttore di dipartimento troppo vulcanico, desideroso di cambiamenti a cui non appartiene perché esterno, lontano dalla conduzione quotidiana del loro agire professionale.
Non è stato facile stimolare una punteggiatura che uscisse da una configurazione in isole, atolli (l’equipe dei due consultori di pediatria di comunità, gli operatori dei singoli reparti) impegnati in alleanze molto strette all’interno del sottosistema (frutto della collaborazione quotidiana, della identità dell’azione professionale, ma anche di una necessità difensiva dell’identità professionale del proprio nucleo) e complementarmente in contrapposizioni abbastanza evidenti già in prima seduta tra nuclei operativi.
A cosa servivano le alleanze strette e, soprattutto, a cosa servivano le contrapposizioni tra sottosistemi?
Il clima che si percepisce è pesante, come se si avesse timore ad “esporre” la propria professionalità. Per il sottosistema dei consultori di pediatria in particolare è come se temessero di essere posizionati down nella rappresentazione che gli altri hanno di loro e questo li ponesse deprofessionalizzati all’intero del macrosistema.
Il nostro committente ci aveva dato pochissime notizie sugli operatori in formazione, sulla salute del sistema, sul clima di conflitto e fatica che correva tra le parti che lì si sarebbero trovate insieme rappresentate.
Non sentiamo facile stare lì, il modo in cui i sottosistemi si delineano ci fa sentire ingovernabile la situazione, impossibile il compito: è come se ognuno domandasse di essere lasciato assolutamente per conto suo, come se dichiarasse che tutte le connessioni dotate di senso erano già state fatte, non ce ne sono altre possibili, tutto quello che non c’è, non c’è perché impossibile.
Dunque lavorare sul piano dell’auspicabile non era possibile.
Solo ora, a distanza di tempo e dopo aver lavorato nell’ultima parte dell’anno solo con l’equipe della p.di.c., ci sono più chiari i legami tra le parti, le letture reciproche, il punto di vista di chi in particolare all’interno del sistema si avverte come professionalmente più debole.


La rabbia per la difficoltà in cui stavamo, per l’ingovernabilità del contesto, rischiavano di farci riprodurre lì uno schema relazionale analogo a quello che loro ci raccontavano: se ci fossimo fermate a percepirli come nemici perché non riconoscevano la possibilità delle direzioni che noi indicavamo (da mandato del resto!) avremmo confermato all’interno del setting l’impossibilità di connessioni nuove. Abbiamo provato a superare la rabbia pensando (è banale) che ogni difesa ha una ragione e ad alleare la nostra difficoltà alla loro difficoltà, ad allearci con loro.
L’ascolto dell’immobilità e dello stallo, la presa in carico dei sentimenti negativi, la delineazione sulla mappa delle regioni del conflitto hanno permesso di muovere verso immagini propositive, di costruire un clima di fiducia e collaborazione prima di tutto con noi, di spostarci (toglierci) dalla funzione di chi, mandato dal direttore di dipartimento, arriva a prescrivere con facilità e come se niente fosse il cambiamento.
Uno dei temi che emergono è la difficoltà a comprendere cosa significa “fare rete”, quale necessità ci sia e soprattutto il sentimento di impossibilità ad immaginare in termini di connessioni e scambio più di quanto già accada.
E qualora il fare rete si senta comprensibile, l’aspettativa è che il formatore dica quali sono gli strumenti e le strategie.
Come se, in modo profondamente difensivo, gli operatori immaginassero la costruzione di una competenza che passa attraverso la relazione senza lavorare mettendosi in gioco.
Pertanto nelle sedute successive sono state proposte esperienze sulla comunicazione interpersonale, sui processi di aiuto e collaborazione, sugli effetti che i diversi stili relazionali hanno sulla risoluzione di un problema e sul clima, sulle strutture organizzative e sui modelli comunicazionali.
Hanno risposto alle proposte uscendo gradualmente dallo stallo e permettendosi la comunicazione del disagio, della non conoscenza e del conflitto.
Sono state rese visibili le contrapposizioni, rileggibili e governabili in chiave di differenze, e apprezzate le diversità. A poco a poco le differenze gestite nella cattiva comunicazione e fonti possibili di conflitto cominciano a venire rilette e a generare desiderio di acquisire competenze per gestire le diversità.

E’ stato così possibile, nel corso delle sedute successive, lavorare sulla costruzione di una progettualità condivisa. Ogni equipe ha presentato la propria attività secondo gli indicatori di
- Posizione all’interno del sistema
- Competenze
- Potenziamento
- Connessioni-collegamenti
- Migliorabilità

L’obiettivo formativo che ci eravamo proposte – l’essere capaci, il diventare capaci di lavorare dentro ad una rete – l’essere buoni comunicatori e capaci di buone relazioni – lo abbiamo tradotto in
- Potenziamento della capacità di ascoltarsi ed osservarsi reciprocamente
- Potenziamento della capacità di visione dei sé-sottosistemi
- Potenziamento della capacità di immaginare altre e nuove connessioni possibili.
La traduzione è potuta avvenire percorrendo
- l’ascolto del disagio, l’accoglimento delle emozioni faticose, delle resistenze e della sofferenza
- l’esplicitazione e la definizione del conflitto.

Il percorso ha consentito l’emergere di temi particolarmente interessanti che sono stati oggetto di confronto e riflessione e che il gruppo al lavoro ha così riformulato:
esistono comportamenti che influenzano positivamente la comunicazione sia tra i membri del gruppo, sia tra gruppo ed esterno
- esistono parimenti comportamenti che agiscono negativamente sul clima del gruppo
- facilmente si esprimono difficoltà o rifiuto ad abbandonare la propria posizione
- i modi di comunicare, i comportamenti del gruppo al lavoro influenzano positivamente o negativamente il processo in cui il gruppo è impegnato.
- Le caratteristiche e la fisionomia che il gruppo assume condizionano la comunicazione con l’esterno, la punteggiatura che l’esterno fa del gruppo.
- Un gruppo fortemente coeso può prediligere la qualità della relazione, il come si sta dentro al gruppo, piuttosto che la qualità degli obiettivi da raggiungere i suoi membri possono faticare ad esprimere disapprovazione e diversità
- Il gruppo tende a proiettare all’esterno i tratti sentiti come poco funzionanti e tende a connotare negativamente i contributi che dall’esterno giungono.

I temi emersi certamente rappresentano una direzione tracciata, quella direzione che ci ha permesso di percepire modificazioni di clima all’interno del setting (= contenitore di ricerca) giungendo ad un clima che consente di sentire-intravedere oltre lo stallo direzioni possibili.
Dalla rigidità, dalla tensione, dalla diffidenza, dal comportamento difensivo alla maggior conoscenza, alla valorizzazione reciproca dei nuclei operativi con conseguente immaginazione di connessioni nuove.
Ripensando al percorso fatto ed osservandolo a posteriori ci pare che strada facendo sia avvenuta una modificazione dell’assetto formativo

Il paradigma della flessibilità è stato per noi fondamentale: muoverci empaticamente con l’aula, stare in interazione con i formandi non solo come soggetti a cui si rivolge il proprio sapere d’oggetto, (non solo perchè l’aula è strutturalmente un’interazione), ma come co-costruttori di conoscenza e di altra e nuova esperienza sensibile, come soggetti che continuamente inviano al formatore segnali (feedback) sul lavoro di sedimentazione, amalgama, messa in rete soggettiva (individuale) e gruppale a cui il processo formativo li chiama, come soggetti che innestano la proposta del formatore sulla loro visione del mondo, sul loro modo di dare ordine e di governare le relazioni e la professione, sui loro schemi e modelli interni.

Abbiamo cercato di chiamare in gioco i loro modelli interni per poter muovere autenticamente verso visioni diverse, nuove, verso apprendimenti, per poter stimolare interesse al cambiamento (la conoscenza è cambiamento!)… per poterlo pensare almeno possibile.
Un tale modo di stare in aula, di lavorare con l’aula non ha risparmiato flessibilità neanche ai formandi.
Nel formando la flessibilità è lo stare nella rottura dell’attesa: la formazione è un continuo chiamare in gioco e rinviare il formando alle proprie rappresentazioni interne di sé, degli altri, del mondo ed un continuo invitare all’esplicitazione e alla connessione delle reciproche rappresentazioni.

Non crediamo di aver portato contenuti particolari, la nostra attenzione e le nostre energie sono andate alla costruzione delle interazioni, per percorre con il formando i piani molteplici delle relazioni. Abbiamo lavorato perché dentro l’aula si muovessero relazioni, comprensioni dei reciproci punti di vista, delle differenti necessità, perché ciascuna sponda del sistema dell’azienda, pur nella sua specificità, potesse percepirsi più vicina alle altre e insieme potessero pensarsi come complesso ingranaggio che fa rete, che serve al bambino e alla sua famiglia.
Questo crediamo possa essere promuovere apprendimento. Questo fa dell’apprendimento un processo che muove cambiamento.
Ora come può un approccio così descritto muovere senza assumere valenze mediatorie?
Quello che si richiede al formatore è capacità di adattamento con i partecipanti, è mediazione. Che cosa è lo stare con, il viaggiare insieme, il girare, rigirare e guardare insieme l’oggetto nuovo da mettere in esperienza sensibile se non processo e lavoro di mediazione tra il mondo del formatore e quello dei formandi, tra il modo del formatore di aver fatto esperienza sensibile e conoscenza dell’oggetto e quel modo altro di farne ulteriore esperienza all’interno del setting in questione e di dargli lì una forma nuova.
La flessibilità a cui il formatore è chiamato è la capacità di allentare il bisogno di controllo dell’aula, di abbandonare la necessità che gli altri conoscano proprio come ha conosciuto lui. Paradossalmente (stressando tale disponibilità), nulla è predefinibile in un’aula così vissuta, nessun ordine preordinato è importabile al suo interno: la flessibilità che conduce e accompagna l’incontrare produrrà la forma che sta nelle possibilità del setting in quel momento t e in quello spazio lì.

L’imprevisto non è pensato e vissuto come ciò che non deve accadere, come fastidioso disturbo, come ostacolo in itinere. Certo continua a far paura, ma viene immaginato e connotato come opportunità necessaria e come elemento strutturale di un percorso centrato sulle soggettività in relazione.
Il formatore ha un ruolo di orientamento, responsabile e flessibile, di processi aperti alla negoziazione e alla condivisione.

Il formando pertanto viene inevitabilmente chiamato ad una riflessione su di sé che lo porta anche a mettere a tema le questioni della sensibilità e della relazionalità come di un vero e proprio sapere.

Quello che un’aula così gestita richiede è lo sforzo ad essere sempre più attenti al come si è visti dagli altri, oltrechè al come ciascuno vede se stesso, esercizio che va al fondo di quel sapere della sensibilità che costituisce il principale terreno metariflessivo di ogni esperienza di costruzione di conoscenza.

Così la formazione si configura come un’esperienza di focalizzazione dei processi di relazione e di funzionamento dell’individuo e del gruppo.
Il formatore porta il formando a “fermare” il proprio funzionamento attraverso domande di processo e promuove domande di cambiamento, centrato su sé e rispondente al criterio dell’assunzione della responsabilità.

Costruire la conoscenza attraverso l’esperienza sensibile ha una forte valenza trasformativa, non perché aggiunge elementi del sapere di oggetto, ma perché mette in azione un sapere di processo: un sapere di rinuncia che diventa apertura ad un nuovo punto di vista, ad un “noi” frutto della condivisione.

Questo ci sembra configuri all’interno del setting formativo l’azione mediatoria.
Il processo mediatorio è un processo di avvicinamento, di condivisione, è un “guardare insieme”: consiste nello sviluppo di una visione contestuale attraverso la conoscenza reciproca utilizzando i paradigmi della storia e della progettualità.
- chi eravamo, da quali percorsi arriviamo, da chi ci sentiamo oppure no riconosciuti
- dichiarazione dell’intento
- dichiarazione dell’operatività
- esplicitazione delle competenze professionali.
Il processo mediatorio ha un potere trasformativo che porta alla costruzione di una mappa nuova, frutto dell’avvicinamento delle identità nel “viaggio” che permette l’incontro.

Il processo mediatorio consiste a nostro avviso nella costruzione di una cornice progettuale condivisa andando ad agire una mappa che visualizza posizionamenti, ruoli, funzioni, alleanze, ma anche contrapposizione e aree di conflitto per arrivare alla delineazione del sistema delle relazioni presenti /mancanti.

Il processo mediatorio è la riformulazione di una nuova storia condivisa nella quale tutti i formandi possano riconoscersi.
“Essere connessi l’un l’altro, essere parte di qualcosa di più grande fa sì che la crisi individuale e professionale assuma una valenza trasformativa e l’impegno personale venga magnificato”.

Il mancante, l’assente è “nodo critico”.
Il conflitto è propagazione dell’onda attraverso lo spostamento e l’esportazione di esso all’esterno.
Attraverso il processo mediatorio è possibile giungere alla lettura e alla decodifica del conflitto, passando dal paradigma dell’attribuzione di colpa a quello dell’assunzione della responsabilità.
Il conflitto genera senso di appartenenza e delimita i confini dell’operatività divenendo creatività. Il disagio quando diventa creatività è informazione per il cambiamento. La riflessione sui processi di senso può fungere da guida per operare sui processi stessi.
I soggetti presenti fisicamente nel percorso formativo-mediatorio non sono tutti i soggetti coinvolti dal processo osservato lì: non è possibile arrivare alla confezione di un menù condiviso -il contratto di mediazione -, ma si possono innescare le disponibilità per muovere processi di cambiamento percorribile.
Il formatore che assume anche la funzione di mediatore è un terzo esterno alla regione conflittuale un po’ come nella mediazione familiare, ma mentre nella mediazione familiare funzione e ruolo coincidono (gli altri hanno chiaro che il terzo entra nel sistema con ruolo e finalità mediatori), nella mediazione istituzionale il formatore- mediatore ha da non perdere il contatto con la doppia funzione e gli obiettivi che ne discendono.