venerdì 6 aprile 2007

USO DI TECNICHE DI MEDIAZIONE NELLA CONSULENZA TECNICA DI PARTE

Alessandra Zampiron

Allieva Didatta A.I.M.S. Istituto Veneto di Terapia Familiare
Treviso, Padova, Vicenza aldomattucci@libero.it

Questa comunicazione ha l’obiettivo di mostrarvi un modo per interconnettere, nel lavoro di Consulente Tecnico di Parte, la funzione di aiuto al genitore che sta vivendo la crisi della separazione coniugale, e con lui all’intera famiglia, all’utilizzo di tecniche di mediazione, proprio in quelle situazioni che vengono definite “non mediabili” e accedono dunque alla Giustizia e al professionista nel campo della separazione e divorzio attraverso la richiesta di una Consulenza Tecnica.
L’idea guida è quella di riuscire a realizzare, nel concreto e a partire da un contesto di aspra discordia, quella protezione della co-genitorialità che viene considerata elemento critico ed indispensabile per salvaguardare il benessere emotivo dei minori.

Introduzione
La mediazione familiare, nell’ambito della separazione e del divorzio, si configura come “un percorso di aiuto alla famiglia prima, durante e dopo la separazione o il divorzio, che ha come obiettivo quello di offrire agli ex coniugi un contesto strutturato e protetto, in autonomia dall’ambiente giudiziario, dove poter raggiungere accordi concreti e duraturi su alcune decisioni, come l’affidamento e l’educazione dei minori, i periodi di visita del genitore non affidatario, la gestione del tempo libero, la divisione dei beni” (Regolamento A.I.M.S., art. 1).
La mediazione familiare sistemica “tenendo conto dell’intero sistema familiare, propone una lettura complessa della dinamica relazionale che ruota intorno al conflitto e adotta un approccio interdisciplinare, sollecitando il dialogo e la sinergia operativa tra figure professionali di ambito diverso, psicologico, giuridico e sociale” (Regolamento A.I.M.S., art. 1-1).
Come ben si coglie dalle succitate linee di indirizzo, la mediazione è un intervento che necessita di alcune precise condizioni di cornice per essere definita tale, prime fra tutte la volontarietà della scelta degli utenti e l’autonomia dall’ambiente giudiziario.
Per questi motivi parlerò di “uso di tecniche di mediazione” e di “funzione mediativa” anziché di “mediazione” in senso stretto, consapevole del fatto che “parlare di mediazione rimanda, sia nel linguaggio comune che nel gergo degli operatori, ad una competenza propria dell’operatore e all’utilizzo di un corpus di tecniche connesse al lavoro in mediazione familiare” (Mattucci e Pappalardo, 2001).
Non parlerò dunque dell’utilizzo della mediazione in senso stretto, ma ne utilizzerò i contenuti, quali strumenti di controllo del processo, modalità di gestione del conflitto e tecniche di negoziazione. Ciò che mi guida nell’approccio con il cliente è ben descritto da Busso (1998): “la mediazione si pone nel campo della crescita, anche se può essere praticata da professionisti della terapia. Le coordinate della crescita saranno quindi la programmazione degli obiettivi, la ricerca dell’incremento delle opzioni a disposizione, la scoperta di risorse personali nascoste, la ristrutturazione di risorse personali coscienti, l’apprendimento di nuove abilità” (pag. 20). Come dire che l’obiettivo ultimo è quello di aiutare gli attori della discordia ad utilizzare costruttivamente gli effetti familiari della separazione, senza cioè rimanere imprigionati negli aspetti più deleteri e distruttivi della stessa.

L’intervento sistemico-relazionale in ambito peritale
La mediazione familiare è un tipo di intervento che ha sviluppato tecniche e metodologie particolareggiate, che hanno l’intento di promuovere le negoziazioni all’interno di una coppia in via di separazione. Condizione basilare è che i due genitori “riconoscano il bisogno reciproco di coordinare azioni e idee anziché di contrapporle, per raggiungere un accordo e concordare un progetto che risulti accettabile e percorribile per le persone implicate” (Cigoli, Galimberti e Mombelli, 1988, 9). In mediazione il potere decisionale resta dunque alla coppia e il compito del mediatore è non solo quello di facilitare l’accordo, attraverso la definizione dei problemi e l’analisi delle diverse soluzioni possibili, ma anche quello di avviare la famiglia verso una nuova riorganizzazione, sottolineando che con la separazione i legami familiari non finiscono, ma necessitano di una ristrutturazione: ciò che continuerà a legare i due ex coniugi, anche dopo la separazione, è la genitorialità e l’esercizio congiunto delle funzioni genitoriali è l’auspicabile risultato di qualsiasi intervento nel campo della separazione e del divorzio.
La mediazione non risulta però proponibile a tutte le coppie che si ritrovano ad avere contrasti relativamente all’affidamento dei figli: esistono infatti coppie definite “non mediabili”, per le quali non vi è indicazione alla mediazione.
Sono coppie generalmente caratterizzate da un alto conflitto interno e da una scarsissima cooperazione e fiducia reciproca, per le quali proprio il mantenimento della lite e della discordia rappresenta spesso un incistato vincolo reciproco, che impedisce ad entrambi la separazione emotiva. Oppure si tratta di genitori che mirano ad escludere l’altro e l’altra stirpe dalla vita dei figli; oppure ancora sono coppie in cui il conflitto ha determinato il disinteresse pressoché totale di uno dei due genitori nei confronti dei minori.
In tutti questi casi la coppia non trova in sé le risorse per riuscire a traghettare la genitorialità al di là della rottura coniugale e la forte discordia, che mina pesantemente la condivisione della genitorialità, finisce per rappresentare un forte, fortissimo rischio di danno anche e soprattutto per i minori, che non possono godere di un ambiente familiare che sia in grado di supportare e sostenere la loro crescita psicologica in modo congruo ed adeguato.
Come ricordano Cigoli e Pappalardo (1997), “di fronte al divorzio le relazioni familiari vivono un vero e proprio travaglio da cui sia i genitori, sia i figli, possono uscire con il sentimento di un dolore trattato, di un lavoro compiuto e con il rilancio della speranza nella relazione, oppure con il sentimento di un dolore cieco, di un’ingiustizia profonda subita e di una disperazione sostanziale nella relazione” (pag. 6). È oramai noto che il “buon” esito di un divorzio dipende dalle modalità con cui gli ex coniugi e le famiglie d’origine trattano la storia coniugale e la sua fine e dalla modalità con cui, mentalmente, ciascun figlio tratta la rottura matrimoniale dei genitori.
Delle coppie che si separano, una parte riesce a risolvere con le proprie risorse le problematiche legate al “lutto del divorzio” (Emery, 1994), un’altra parte riesce ad accedere ad interventi di mediazione e il restante numero, quelle a più alta conflittualità, arriva alla Giustizia, delegando al Giudice, e per mano sua agli esperti, la necessaria ristrutturazione delle relazioni familiari post-separazione.
Questo è naturalmente il campo di applicazione del Consulente Tecnico, in quanto sono proprio quelle situazioni che abbiamo definito “non mediabili” che giungono alla Giustizia con una richiesta di Consulenza Tecnica, estroflettendo sul sociale, nello specifico sugli organi giuridici, un problema relativo allo scambio generazionale, che non sono in grado di affrontare con le proprie energie. Attraverso un processo di transfert sulla Giustizia la famiglia inconsapevolmente demanda dunque ad un terzo, il Giudice, la risoluzione di un conflitto che altrimenti non troverebbe possibilità di superamento (Cigoli e Pappalardo, 1997).
La Consulenza Tecnica ad orientamento sistemico-relazionale ha lo scopo di “utilizzare in senso clinico il contesto consulenziale supportando il lavoro delicato e difficile del Giudice, così come di sostenere, anche nelle situazioni di grave discordia tra ex coniugi o di abbandono del campo da parte di uno di loro, l’esercizio delle funzioni genitoriali, perché lì, come ben evidenzia l’etimo, si gioca il dilemma generatività-degeneratività” (Cigoli e Pappalardo, 1997, 8).
Attraverso l’incontro con gli ex coniugi, i loro figli e le loro famiglie d’origine, il Consulente Tecnico che lavora secondo un ottica sistemico-relazionale ricerca i temi narrativi e i nuclei affettivi, ricostruisce la storia familiare e analizza la presenza di risorse e aree di rischio, in modo da ricreare il senso complessivo e plausibile della vicenda familiare e da valutare il rapporto tra risorse e pericoli generazionali.
In sintesi, la Consulenza Tecnica ad orientamento sistemico-relazionale “sposta l’attenzione dalla diagnosi di personalità e dalla ricerca di disturbi psicopatologici nei genitori e nei figli, alla considerazione di ciò che accade, nel qui ed ora, nella relazione tra le persone che compongono la famiglia, senza però negare che ci si trova in un contesto di lite e di conflitto” (Mattucci e Pappalardo, 2001).

L’intervento del Consulente Tecnico di Parte secondo l’ottica sistemico relazionale
I criteri guida della Consulenza Tecnica esposti nel precedente capitolo sono sostanzialmente gli stessi sia che si tratti di una Consulenza d’Ufficio, sia che si tratti di una Consulenza di Parte.
Vorrei però sottolineare una differenza: la Consulenza Tecnica d’Ufficio “lega il consulente sia al Giudice, sia alla storia familiare, mentre la Consulenza di Parte lega il consulente alla storia familiare e, in specifico, allo scambio generazionale” (Cigoli e Pappalardo, 1997). Il Consulente di parte si trova infatti a dover far fronte ad un doppio ordine di problematiche: innanzitutto, quelle relative al rapporto con il suo assistito, che attengono alla necessità di dare un senso e uno spazio ai nodi affettivi e ai dolori individuali, di fargli comprendere le motivazioni e i dolori dell’altro, di fornirgli una chiave di lettura delle dinamiche familiari nel loro complesso e di fargli “accettare” la positività insita nell’uscire da un’insana ottica di contrapposizione all’ex coniuge per raggiungere una più auspicabile collaborazione con l’altro genitore dei propri figli. In secondo luogo, quelle relative al rapporto con le altre figure professionali, nella fattispecie il legale, il Consulente d’Ufficio e il Consulente di controparte.
Purtroppo, alcuni legali inseguono la lite e la discordia e lavorano secondo un’ottica di vinti e vincitori, all’interno della quale viene spesso persa di vista la salvaguardia della condivisione della genitorialità per puntare invece al maggior vantaggio possibile per il proprio cliente, contro l’altra parte.
Purtroppo, alcuni Consulenti d’Ufficio organizzano la Consulenza secondo una chiave di lettura meramente diagnostica, focalizzando l’attenzione sulle modalità attuali di espressione del conflitto e tendendo ad individuare interventi finalizzati unicamente a “sollevare” il minore del peso psicologico della separazione coniugale, partendo generalmente da un inquadramento diagnostico dei genitori e commettendo spesso l’errore di “patologizzare” in tutti i casi il dolore comunque relativo alla separazione (de Bernart, 1998).
Purtroppo, alcuni Consulenti di parte sono come il “braccio armato” del legale e aderiscono e si invischiano negli “interessi della parte”, portando nella consulenza quella volontà di sconfiggere l’altro che danneggia il lavoro congiunto e risulta tutt’altro che protettiva della funzione genitoriale e del legame generazionale, impedendo di fatto che emergano e vengano valorizzate le risorse possibili presenti in famiglia.
Come non sostenere la necessità, per il Consulente di parte, di utilizzare la propria funzione mediativa e le tecniche di mediazione per far fronte ai molteplici “fuochi” a cui è sottoposto? Egli, d’altra parte, non può nemmeno godere della stessa “autorità” del Consulente d’Ufficio, come emanazione diretta del potere del Giudice!
Se è vero, come sostengono Cigoli e Pappalardo (1997), che “la Consulenza Tecnica d’Ufficio si situa in uno spazio ambiguo sospesa com’è tra un contesto di giudizio-valutazione e un contesto di aiuto rivolto sia al Giudice, sia alla famiglia affinché quest’ultima possa affrontare l’ostacolo di procedere al di là della fine della coniugalità o della convivenza sapendo di porre in salvo nello scambio tra le generazioni l’esercizio delle funzioni genitoriali” (pag. 17), in quale spazio ameno dovrebbe trovarsi il Consulente di parte?
Egli ha, come già posto in rilievo, quattro interlocutori.
Primo fra tutti il legale. È quasi d’obbligo fare un colloquio significativo con l’Avvocato a cui si fa riferimento prima che con il proprio assistito, allo scopo di ben definire, insieme a lui, l’ambito di lavoro, che è quello di tutelare il minore attraverso una tutela della genitorialità. Spesso la capacità di mediare è messa alla prova sin da questi primi contatti: si deve infatti mediare tra le richieste del legale, a volte poste in un ottica di “contrapposizione all’avversario”, e gli obiettivi propri della nostra funzione, che dovrebbero essere vicini alla cooperazione e al compromesso.
Secondo interlocutore è, naturalmente, il Consulente d’Ufficio. Anche con questi è necessario stabilire una collaborazione e mediare sugli obiettivi e sui risultati della Consulenza Tecnica. A volte è possibile, nonché auspicabile, incontrare un Consulente d’Ufficio che ha la nostra stessa formazione o che, comunque, presta un’attenzione particolare alle dinamiche familiari e ciò, indubbiamente, rende il lavoro più facile, in quanto si condivide lo stesso progetto. Altre volte però si incontrano Consulenti d’Ufficio che hanno come obiettivo l’inquadramento diagnostico dei genitori e dei minori e che si soffermano maggiormente sulle modalità attraverso cui il conflitto si è ultimamente manifestato e continua a manifestarsi, tralasciando di ricostruire la storia della coppia e la storia familiare delle persone in conflitto. In questi casi il compito del Consulente di parte è assai più arduo, perché deve trovare il modo di introdurre nei lavori peritali quelle tematiche familiari abitualmente tralasciate, in una forma che sia il più possibile rispettosa della professionalità altrui.
Compito del Consulente di parte è, infatti, far sì che il conflitto tra le parti si riduca di intensità e per fare questo deve alle volte mediare anche con se stesso e con le proprie posizioni per evitare amplificazioni del conflitto stesso, addirittura all’interno dello staff di periti.
Altro compito del Consulente di parte è quello di funzionare da tramite tra Consulente d’Ufficio e cliente, comunicando a questi le decisioni del primo e presentando al primo le istanze del secondo. Chiaro è che, nel caso in cui tali decisioni siano condivise, il lavorò sarà di sostegno a quanto espresso dal CTU, qualora invece le conclusioni a cui quest’ultimo è giunto non siano totalmente condivisibili, si dovrà integrare ed ampliare quanto disposto dal Consulente d’Ufficio, arricchendolo di una lettura sistemico-relazionale che tenga conto anche della storia dell’individuo.
Un buon Consulente di parte dovrebbe riuscire a mediare tra le varie posizioni che contraddistinguono gli attori del conflitto e i professionisti che di questo si stanno occupando, facendo in modo che si crei un clima di fiducia sia nei propri confronti sia, se possibile, anche nei confronti dell’intero sistema peritale, cosa che permetterebbe al Consulente d’Ufficio di spostare la sua attenzione prevalentemente sulla funzione di sostegno piuttosto che su quella di controllo.
Il problema che si pone è: come riuscire ad agevolare un cambiamento in un contesto non terapeutico, nel quale la funzione istituzionale è quella del controllo? In contesti come quello della Consulenza Tecnica vi è la necessità che si compenetrino funzione di controllo e funzione di sostegno (Mazzei, 1995) ed “è chiaro che se non subentra una fiducia crescente e la riappropriazione della responsabilità da parte dei genitori, le eventuali soluzioni saranno fittizie (…) Se, viceversa, l’intervento comincerà a dare risposte concrete e soluzioni plausibili, l’aspetto del controllo andrà gradualmente a collocarsi sullo sfondo e prevarrà nettamente la funzione di sostegno” (Mattucci e Pappalardo, 2001). L’importanza di questo passaggio viene ribadita da Busso (1998) a proposito della Mediazione, ma a mio parere è estendibile anche a vantaggio della Consulenza Tecnica: “nel contesto terapeutico la responsabilità del successo è principalmente dell’esperto, nel contesto di crescita e di apprendimento le responsabilità sono distinte: all’esperto compete l’onere delle proposte, al cliente l’onere delle obiezioni e della realizzazione del progetto” (pag. 20).
Terzo interlocutore per il Consulente di parte è, naturalmente, il suo assistito. Nel colloquio preliminare con lui il Consulente contratta gli obiettivi del lavoro e ribadisce la finalità di protezione dell’esercizio genitoriale che gli compete, tanto quanto dovrebbe già essere avvenuto con il legale. Generalmente, il cliente arriva portando un’ottica antagonistica, richiedendo all’esperto, più o meno apertamente, un aiuto per riuscire a dare scacco matto all’ex coniuge, ottenendo il più possibile dalla separazione, in termini non solo economici (aspetto generalmente non preso in considerazione dai Consulenti Tecnici d’Ufficio) ma anche di rapporto con i figli.
Compito del Consulente di parte è proprio quello di spostare l’attenzione del cliente dalla rivendicazione dei propri interessi e diritti, in qualità di ex coniuge arrabbiato, alla salute dei minori, in qualità di genitore preoccupato. Colui che si presenterà di fronte al Consulente d’Ufficio nel corso dei lavori peritali non dovrà infatti essere il marito (o la moglie) ancora in lotta e in contrapposizione all’altro, ma dovrà essere il padre (o la madre) preoccupato degli effetti negativi che il clima di discordia che caratterizza la separazione sta avendo sui suoi figli.
Ricordo, a questo proposito, quanto già evidenziato in precedenza: accedono alla via giudiziaria quelle coppie che non sono riuscite a trovare al loro interno lo spazio e le risorse necessari a dare risoluzione ad un conflitto di considerevole intensità e che, per tale motivo, non raggiungono i criteri per essere definite “mediabili”. Dire questo non significa assolutamente sostenere che si tratta di coppie disinteressate al benessere dei minori: la delega alla Giustizia è altresì inconsapevolmente motivata proprio dalla percezione di non sentirsi (e/o non sentire l’altro) un genitore adeguato ad aiutare i propri figli nel crescere, superando il momento di crisi. Come dire che la preoccupazione nei loro confronti ha raggiunto livelli e caratteristiche tali da non poter trovare risposta e conforto, se non ad alti ed “autorevoli” livelli (il Giudice, i professionisti).
Ciò significa che il Consulente di parte, ancor più del Consulente d’Ufficio, si troverà nella difficile posizione di chi deve raccogliere sia un’inconsapevole richiesta di aiuto a livello di una genitorialità sbigottita sia, contemporaneamente, una fin troppo consapevole richiesta di attacco e sconfitta dell’altro a livello di una coniugalità ferita e delusa, che chiede giustizia. Proprio per questo motivo il Consulente di parte corre il rischio di essere parte attiva in quello che Cigoli e Pappalardo (1997) chiamano transfert di superficie, finendo per amplificare i meccanismi di divisione all’interno della coppia genitoriale e tentando di convincere il Giudice delle ragioni esclusive del proprio assistito.
Quanto più trovano spazio, in sede peritale, i temi relativi alla storia personale, di coppia e familiare degli ex coniugi, tanto meno sarà il Consulente di parte a doverli trattare nel rapporto duale, funzionando per il suo cliente da agente propulsore di comprensione e accettazione dei propri dolori e delle ragioni dell’altro. A questo proposito, mi sento di sostenere che la maggiore difficoltà, soprattutto se egli è un esperto in terapia, sta nel riuscire a mediare tra il bisogno del cliente di sciogliere fino in fondo i propri nodi problematici nel rapporto inter e intrapersonale e la funzione di counseling non terapeutico che attiene al contesto peritale. Difatti, non appena viene a crearsi, nel rapporto a due, quel clima di fiducia che ci permette di ben lavorare per modulare tra gli interessi della parte e gli interessi dei minori, spesso si crea nell’individuo anche il bisogno di approfondire certe tematiche e di ricercare l’origine di alcuni vissuti.
Chiaro è che il Consulente di parte non può dare inizio ad un processo terapeutico con il proprio cliente, almeno fintantoché è in corso il processo di valutazione peritale. Altrettanto chiaro è che il Consulente di parte non può nemmeno delegare ad altri il trattamento del proprio cliente, nella misura in cui non è proficuo l’inserimento di un’ulteriore figura professionale in un momento così difficile e delicato: il Consulente di parte dovrà allora riuscire a trovare il giusto ed equilibrato modo per fornire all’individuo l’aiuto che chiede, senza addentrarsi troppo in pezzi di storia emotiva che lo conducano distante dalla rottura coniugale e dalla genitorialità e senza farsi invischiare nella più superficiale richiesta di compattarsi contro l’altra parte.
Il criterio di base, che deve guidare la relazione con il cliente, è e rimane quello dell’accesso, vale a dire “la disponibilità accertata nel presente delle relazioni di assicurare al figlio l’accesso all’altro genitore e, con lui, alla sua stirpe-storia” (Cigoli e Pappalardo, 1997, 9). Qualora il proprio cliente riesca ad uscire da una posizione di contrapposizione e ad abbracciare quella di collaborazione, tenendo presente che la genitorialità condivisa non può morire con la morte dell’unione maritale, il Consulente di parte saprà di aver svolto un buon lavoro e di aver rispettato gli obiettivi originariamente assunti.
Quarto interlocutore per il Consulente di parte è il Consulente di controparte. Anche qui si tratta di “fortuna”: alle volte si ha l’occasione di lavorare con professionisti attenti alle tematiche familiari e distanti dalla datata e inconcludente ottica diagnostica; altre volte, invece, ci si “imbatte” in una controparte che assume posizione rigide e che si attiene “fedelmente” alla logica antagonistica e di attacco e sconfitta dell’altro. In questo caso, fin dalle prime battute ci si potrà rendere conto delle difficoltà che si incontreranno nel proseguimento della C.T.U., nonché della buona dose di pazienza e di “arte del negoziato” che si dovrà mettere in campo al fine di ricercare la collaborazione e di prevenire, quale professionista con un retroterra e una formazione sistemico-relazionale, un’amplificazione rischiosa del conflitto, estendendolo all’intero sistema peritale.