venerdì 6 aprile 2007

PERCORSI ISTITUZIONALI E PROCESSI MEDIATIVI

Berniero Ragone

Socio Didatta A.I.M.S. Ecopsys - Napoli

Premessa
La presente relazione è una parziale e limitata riflessione sulle potenzialità attuali della mediazione nelle istituzioni, intesa come prassi tendente a valorizzare gli aspetti propositivi e di crescita dei conflitti. L’autore è uno psichiatra, psicoterapeuta e mediatore che nel corso della sua esperienza professionale ha attraversato vari tipi d’istituzioni, prevalentemente di cura. Nella mia esposizione segnalerò tre situazioni tipo: un’esperienza in un carcere a custodia attenuata per tossicodipendenti, un centro di riabilitazione per handicap psico-fisici, una casa di cura psichiatrica privata.

Il funzionamento delle istituzioni
E’risaputo che le istituzioni, per loro caratteristica e particolarità, rappresentano un terreno di coltura favorevole allo sviluppo e alla crescita di conflitti. Questo avviene perché l’istituzione raccoglie e gestisce alcune formazioni e processi tra di loro eterogenei: sociali, politici, culturali, economici e psichici. In spazi che necessariamente comunicano tra loro, interferiscono e funzionano logiche tra loro differenti. E’ questo il motivo, per il quale, nella logica sociale dell’istituzione possono mischiarsi e prevalere alcune questioni e soluzioni che rientrano nel livello e nella logica psichica. Nelle istituzioni una parte considerevole degli investimenti è destinata a far coincidere in un’unità immaginaria questi ordini logici diversi e complementari, allo scopo di far scomparire la conflittualità che essi contengono. Nel lavoro con le istituzioni siamo così posti di fronte a tale sovradeterminazione, a tale plurifunzionalità, a tale complessità. Dove l’istituzione maggiormente riesce a tenere separate, ma integrate tra di loro, queste logiche diverse, con adeguata risposta ai conflitti che naturalmente si determinano tra queste parti, l’istituzione dovrebbe essere sufficientemente in grado di assolvere i compiti che si propone. Questa prospettiva più che un dato di fatto reale è prevalentemente una tensione, uno sforzo, spesso paragonabile alla fatica di Sisifo. Frequentemente, infatti, è privilegiato un livello, a discapito degli altri, con grosse ripercussioni sul sistema organizzativo e sulle relazioni con conseguenti alti livelli di conflittualità e malessere generale. Ovviamente per le istituzioni valgono gli stessi presupposti, riguardo al conflitto, riscontrati in altri ambiti mediativi: a volte esso è palesemente espresso, con grosso scadimento della comunicazione e della funzionalità organizzativa, ma il più delle volte, dato la prevalenza delle dinamiche economiche, di interesse, di ruolo e di potere, tendenzialmente sommerso, evitato, se non spesso mistificato e negato. Gli effetti di queste dinamiche sono deleteri sulla comunicazione e sulla soddisfazione lavorativa e, inoltre, si ripercuotono su quelli che sono gli standard qualitativi e strutturali del compito che l’istituzione è chiamata a compiere. Infatti, questa conflittualità anche se non distruttiva, al punto che raramente mette l’istituzione stessa a rischio della propria sopravvivenza, incide in maniera determinante su due condizioni fondamentali: una è il benessere psicofisico delle persone che nelle istituzioni sono legate a esigenze di natura professionale, e secondo, ma non meno importante, l’effetto che questa conflittualità determina su quello che è il compito istituzionale. Sappiamo, infatti, che ogni istituzione ha un proprio mandato sociale, un proprio compito da espletare. Nel caso ad esempio di un carcere il mandato sociale è quello del controllo della sicurezza sociale e del recupero dei soggetti che commettono reati. Ora un’istituzione può, pur avendo vari compiti, assolvere solo qualcuno di questi mandati o compiti, o addirittura non assolvere affatto il compito principale che le spetterebbe, ma addirittura assumerne altri. Ad esempio, sappiamo benissimo che i manicomi, e tutte le strutture preposte all’accoglimento di malati mentali, dovevano assolvere funzioni di cura, che significa il trattamento di particolari situazioni psicopatologiche. Ora la 180 e’ venuta a denunciare il fatto che queste istituzioni avessero totalmente perso di vista il compito che dovevano espletare per assumerne altri come quelli di custodia, emarginalizzazione e controllo sul malato psichico. Si era in altre parole perso di vista completamente la dimensione curativa e di recupero sociale del malato psichico. Ovviamente quando ciò accade dobbiamo immaginarci che si è sviluppata una sorta di perversione istituzionale, nel senso di un’unica modalità, rigidamente strutturata ed organizzata, attraverso la quale l’istituzione può funzionare. Tale modalità di funzionamento della istituzione può addirittura boicottare il compito principale cui l’istituzione è deputata a rispondere. In fondo è ciò che Bion ha detto quando parlando del gruppo di lavoro segnalava che se prendono corpo le dinamiche interne del gruppo, nel senso di Bion di assunti di base difensivi rispetto a quello che il compito mobilita, allora è il compito stesso a essere boicottato, in quanto prevalgono le esigenze difensive organizzate dal gruppo. Per le istituzioni, dobbiamo inoltre precisare, c’è sempre stata una doppia possibilità di guardare ai fenomeni in essa presenti secondo una prospettiva di tipo psicologico o secondo una prospettiva che tenesse più conto più del funzionamento organizzativo e di potere delle logiche istituzionali. In concreto questo ha significato lavorare sulle dinamiche conscie e inconscie del gruppo istituzionale, e sulle modalità comunicative al suo interno, oppure polarizzare l’attenzione e l’intervento sulle caratteristiche organizzative e strutturali della istituzione. Infatti, nell’approccio sociologico, che rimane il modello più diffuso di intervento nelle istituzioni, l’istituzione è concepita come un corpo, dotato di organi differenziati e distinti, ognuno per sé funzionante ma riconducibile ad un unità di intenti e di compiti. Questa versione per cosi dire meccanicistica di guardare alle istituzioni non tiene assolutamente conto dell’individuo in quanto persona. E’ fondamentale invece lo studio delle norme, dei ruoli, delle funzioni, delle regole e soprattutto di come è distribuito il potere all’interno della macchina istituzionale. l’idea è che per modificare l’istituzione è sufficiente modificare una legge o crearne una nuova. Questo intervento modifica gli altri fattori e ingloba quindi dentro di sé il cambiamento. Tale approccio non tiene in conto il fatto che un istituzione, attraverso il gruppo che lo caratterizza, è soprattutto un apparato di produzione di elementi mentali ed affettivi, un insieme di esperienze collettive, che caratterizzano un processo che si svolge nel tempo. Questo modello dell’istituzione sembra valorizzare alcuni caratteri dell’istituzione stessa che divengono l’espressione più tipica, per così dire paradigmatica di essa. Un altro tipo di intervento è quello socio-analitico. Esso è il tentativo di utilizzare concetti desunti dalla psicoanalisi per applicarli alla comprensione dell’organismo istituzionale. Difatti nella storia della psicoanalisi, alcuni psicoanalisti (non senza una chiara opposizione della istituzione psicoanalitica), sono stati messi a confronto, molto presto, sul terreno delle istituzioni (di cura, di rieducazione, scolastiche, penitenziarie, ecc…) con gli effetti dell’inconscio sui soggetti delle istituzioni stesse e nello spazio loro. Tale pratica non è mai stata veramente teorizzata, forse perché screditata come ‘psicoanalisi applicata’. A tutt’oggi non esiste una teoria sistematica e relativamente completa, di stampo analitico, sulle istituzioni, e i vari contributi di psicoanalisti colgono e descrivono aspetti parziali, e non sufficientemente integrabili in una teoria unitaria, delle dinamiche inconsce che si articolano all’interno delle istituzioni. Le descrizioni di eminenti psicoanalisti: Kaes, Fornari, Bleger, Kenberg, per citarne alcuni, sono delle affascinanti descrizioni delle dinamiche inconsce che si attivano all’interfaccia tra l’inconscio soggettivo e quello gruppale. Presupposto fondamentale è, infatti, che all’interno dell’istituzione si strutturerebbe una realtà psichica, prevalentemente di natura affettivo-emotiva e fantasmatica. Questa realtà psichica si determinerebbe attraverso contributi che l’inconscio del singolo soggetto porterebbe, per il costituirsi di ciò che viene chiamato apparato psichico gruppale. Si organizzano pertanto due livelli logici che l’analisi deve prendere in considerazione e di cui bisogna tenere conto: quello della realtà psichica del singolo soggetto e quello della realtà psichica emergente come frutto del raggrupparsi. Questo doppio livello della realtà psichica istituzionale va vista sempre insieme così come si guarderebbe una figura di Giano Bifronte. Ovviamente queste concettualizzazioni sono, anche se parziali, precise descrizioni di fenomeni inconsci, raffinate ed importanti per capire come funziona la vita emotiva e fantasmatica della istituzione, più difficilmente applicabili sul versante operativo. Tendenzialmente i presupposti di fondo di tali concettualizzazioni si scontrano con le ideologie che circolano in sistemi di natura più politico ed economica ed appaiono, in definitiva, poco proponibili. Sono molto utilizzati per capire le dinamiche che si attivano all’interno di istituzioni di cura, tra sistema dei curanti e pazienti. l’approccio relazionale, invece, ha maggiormente posto l’attenzione sulla interdipendenza dei sistemi in gioco in un ecosistema, e sulla importanza degli effetti comunicativi e comportamentali di questa interdipendenza in micro e macrosistemi. Ha avuto, in Italia, un promettente inizio soprattutto con la Selvini Palazzoli, che all’inizio si interessò molto delle logiche istituzionali. E’ attualmente uno strumento di comprensione e operativo per informare e dirigere interventi. Esiste, infatti, allo stato attuale, una forte prassi tendente ad intervenire in micro e macrosistemi con una logica di tipo sistemico relazionale. La maggior parte della letteratura sistemica però, tranne sporadiche iniziative di ricerca, ha poco sviluppato il tema dell’intervento sistemico relazionale nelle organizzazioni, privilegiando l’intervento clinico nella famiglia, nella coppia e nell’individuo. La mia ipotesi è che la mediazione istituzionale, inserita all’interno del modello di lettura dei fenomeni istituzionali e sociali di stampo sistemico relazionale, parrebbe porsi nell’interfaccia tra queste varie modalità, nel senso che, pur non sottovalutando il fattore emotivo circolante all’interno del complesso circuito istituzionale, costituito principalmente da gruppi, non focalizza il suo intervento principalmente su tali aspetti. Del resto la mediazione istituzionale non costituisce neppure un mero intervento operativo e strutturale, di tipo essenzialmente ortopedico, che non tenga conto della complessa trama relazionale di un sistema organizzativo.Questo è anche possibile a mio avviso perché la mediazione istituzionale non interviene sempre su situazioni allargate, ha degli obiettivi espliciti ben precisi e molto spesso limitati. Infatti la finalità della mediazione è la diminuzione se non della conflittualità negativa in toto dell’intero sistema, di segmenti, di pezzi di conflittualità all’interno di un gruppo di lavoro, in modo che, secondo un presupposto di tipo sistemico, questo tipo di risoluzione della conflittualità possa avere ripercussioni positive su tutto il sistema istituzionale. In concreto si addiverrebbe ad un miglioramento della qualità della comunicazione, ad una migliore capacità di realizzazione del compito istituzionale, e non ultimo, alla indiretta caduta, fin dove è possibile, dei livelli di sofferenza soggettiva, sia essa psichica che somatizzata, relativa ai ben noti fenomeni del burn-out e, recentemente, del Mobbing nelle istituzioni. Dobbiamo inoltre anche tenere presente le positive ripercussioni psicologiche ed emotive che i cambiamenti in campo istituzionale comportano in quanto essi sono scelti e portati avanti dagli stessi attori istituzionali. Questo presupposto è espresso in campo mediativo attraverso il concetto di empowerment: la sensazione cioè che se non tutto, parte delle proprie vicende istituzionali è tenuta sotto il possibile controllo soggettivo. E’ risaputo che uno degli aspetti fondamentali della sofferenza isituzionale dipende dal fatto che essa ostacola e addirittura ferisce fino a mortificare dolorosamente il proprio narcisismo. Questo è valido sia quando esso sì identifica con gli aspetti di ruolo e di potere all’interno della istituzione, ma a maggior ragione quando è messa in gioco l’esigenza di mantenere una propria immagine coerente con il sé, vero o falso che sia, e quindi, in definitiva, dei propri livelli di autostima. Il percorso istituzionale può fortemente incidere su queste aree. La mediazione rappresenta in questo senso una buona possibilità di recupero di parte di rifornimento narcisistico e, soprattutto, di quella sensazione di per sé gratificante rappresentata dal fatto che, comunque vadano le cose all’interno di un campo istituzionale, ci si è sentiti in qualche modo soggetti attivi di una soluzione conflittuale. E’ la sensazione positiva che nasce da una percezione maggiore di comprensione e di controllo della realtà esterna, che sortisce inesorabilmente degli effetti anche interni.

Esempi di funzionamento istituzionale
Fatta questa premessa generale entriamo maggiormente nel vivo della questione della mediabilità in campo istituzionale. Parlerò della mia esperienza all’interno di istituzioni come psichiatra proponendo una serie di spunti riflessivi. Ovviamente mi riferisco ad istituzioni che hanno tra altri compiti fondamentalmente quello di cura e recupero sociale di soggetti sofferenti sul piano psicologico. Come primo esempio consideriamo una struttura carceraria per il recupero di soggetti ex tossicodipendenti a custodia attenuata che hanno commesso reati collegati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Qui ci troviamo all’interno di un’istituzione caratterizzata da una forte componente storica ed ideologica di tipo restrittivo e punitivo, con poche possibilità reali di un recupero durante la pena carceraria, e con finalità esclusiva di controllo sociale. Tutta la nuova organizzazione carceraria, tesa a favorire l’immissione di maggiori possibilità di attenzione, ascolto e recupero delle problematiche personali e sociali del detenuto ex-tossico dipendente ha creato inesorabilmente molti aspetti di conflittualità, determinando una suddivisione in gruppi tra le varie figure professionali, con una tacita ma ostile tolleranza delle diverse parti istituzionali, nelle diverse iniziative, volte a favorire l’impegno e l’attività di recupero dei detenuti ex tossicodipendenti. Un certo tentativo di avvicinamento c’ è stato quando il ministero di Grazia e Giustizia ha proposto dei corsi al cui interno erano strutturate delle potenzialità culturali di apprendimento di nuove modalità di gestione del detenuto tossicodipendente. In definitiva questi corsi effettuati in strutture carcerarie di questo tipo ed anche in ospedali psichiatrici giudiziari hanno attivato un certo interesse, ma sostanzialmente hanno poco inciso su reali e propositivi cambiamenti dell’assetto mentale operante all’interno di tali contesti istituzionali. Ovviamente qui mi riferisco ad iniziative che nulla hanno a che fare con interventi francamente mediativi. La considerazione che da questo tipo di esperienza ho tratto è che in istituzioni con caratteristiche di questo tipo è molto difficile potere configurare una possibilità di lavoro mediativo strutturato, proprio perché le logiche che sottendono questo tipo di istituzioni sono caratterizzate da una lunga storia, con modelli ideologici rigidi e difficilmente modificabili. Il tentativo di modificare il contesto attraverso questo tipo di esperienza, pure se utile appare insufficiente, poiché le modalità attraverso cui questo tipo di esperienza è stata portata avanti sono di tipo prevalentemente informativo e poco esperienziali. Questi interventi, nulla togliendo alla serietà con cui vengono proposti, peccano di parzialità e mostrano forti limiti di efficacia. In definitiva anche se questo tipo di iniziativa può fare molto rumore e muovere molta polvere, di fatto poco tocca le premesse di fondo sulle quali questo tipo di istituzione poggia, rischiando anche di irrigidire maggiormente le diverse parti conflittuali in gioco. Ci troviamo a fare qui una prima considerazione: in istituzioni caratterizzate da una lunga storia, modelli concettuali ed operativi fortemente radicati e compenetrati nel tessuto istituzionale, la mediazione diventa difficilmente proponibile, perché, così come evidente per ogni tipo di intervento si scontra con grossi livelli difensivi e di resistenza collettiva caratterizzate dal fatto che in strutture di questo tipo, fortemente irrigidite in schemi comportamentali e in prassi operative sclerotizzate, vi è un forte senso di minaccia e di preoccupazione per quelli che possono essere i cambiamenti possibili. Valgono per strutture di questo tipo quello che Eliot Jaques ha descritto verificarsi in situazioni destrutturate di cambiamento: l’attivazione di angosce profonde depressive e paranoidee. Potremmo concludere in definitiva che in situazioni così irrigidite il fattore emotivo è talmente forte da non permettere l’attivazione di funzioni mediative, nel senso che è prevalente un clima di sospetto, di angoscia, di persecuzione che può avere effetti molto paralizzanti.
Un’altra situazione tipo la abbiamo in quelle strutture in cui prevalgono dinamiche di potere. L’esempio che riporto è di una struttura riabilitativa per handicap-psicofisici, convenzionata con il SSN. Sullo statuto essa è una cooperativa costituita da un alto numero di soci, tutti apparentemente allo stesso livello decisionale. Essi dovrebbero eleggere un presidente e altri rappresentanti nella gestione della amministrazione liberamente e democraticamente. Di fatto il tutto è gestito, per infiltrazioni anche politiche, da un’unica persona che è diventato una specie di padre padrone, con un controllo cinico e persecutorio del proprio potere personale. Una struttura di questo tipo corrisponde a quel tipo di istituzioni che sempre Eliot Jaques ha definito organizzazioni paranogene. Sono cioè quelle istituzioni che risvegliano sospetto, rivalità, ostilità ed aggressività, ansia, frenano i rapporti sociali, riducono notevolmente la ricerca di un bene comune, e portano tendenzialmente le persone a comportamenti passivi collegati al timore persecutorio di rappresaglie. In situazioni di questo tipo, dove il clima istituzionale è fortemente intriso di atmosfere potremmo dire psicotiche, non è possibile neanche una mediabilità naturale all’interno dei rapporti tra le persone, in quanto prevale da parte del gruppo di potere un costante atteggiamento di cesariana memoria del dividi et impera. Sono sempre presenti in questo tipo di istituzioni coalizioni, attacchi indiretti, tendenza ad accattivarsi i piaceri del “padrone”da questi ad arte elargiti, fatti paventare o rifiutati. Sono altissimi i livelli di sofferenza, stress personale e collettivo e i fenomeni di Burn-out e del Mobbing istituzionale. Ovviamente in questo tipo di istituzione la teoria sistemica ci insegna che le reazioni paranoidi del gruppo dipendono e a loro volta rafforzano i comportamenti psicotici di una amministrazione non sana, al cui interno prevalgono le componenti narcisistiche di controllo paranoico della realtà esterna, di manipolazione, di uso e abuso degli altri. Anche in questo tipo di situazioni la mediazione è allo stato attuale un intervento poco proponibile, in quanto per così dire tende a non varcare la soglia istituzionale.
Un’altro modello istituzionale che propongo è quello nel quale prevalgono interessi di tipo economico. Si tratta di clinica per il trattamento di patologie psichiatriche di tipo privato. In contesti di questo tipo, dove prevalgono interessi di natura economica, la mediazione parrebbe più proponibile. Questa clinica privata è una società per azioni, addivenuta, attraverso successive divisioni della eredità tra i soci ad un cospicuo numero di azionisti. In una situazione meno compatta della precedente, quando era gestita da due fratelli che insieme detenevano la maggioranza ed in seguito alla rottura della alleanza tra questi due fratelli, la conflittualità si è esasperata, con varie amministrazioni succedutesi velocemente che hanno creato forti sentimenti di insicurezza e precarietà nel personale. La conflittualità tra i vari azionisti è talmente degenerata da configurare situazioni di rischio legale con la minaccia di commissariamento della struttura da parte del tribunale ordinario. Spinti dalla necessità di ridurre i danni che una siffatta conflittualità poteva sortire sulla occupazione di un cospicuo numero di famiglie, una parte di operatori si è attivata, facendo quello che in gergo mediativo è chiamata mediazione a navetta. Ci si è mossi alternativamente all’interno di questo complesso tessuto societario nel tentativo di rendere meno rigide le posizioni reciproche. Segnalo che in tale situazione, anche se il fattore economico era in primo piano, molta conflittualità era caricata da vissuti emotivi negativi collegabili al fatto che le tre famiglie societarie nel tempo avevano accumulato vari motivi di rancore e di dissidio, in una come precedentemente detto all’interno della stessa famiglia, con grossi livelli di rottura emotiva e relazionale. Ovviamente non vorrei banalizzare tutta la faccenda affermando che questi interventi hanno risolto le difficoltà societarie, ne che il tipo di intervento ha inciso sulle complicate faccende societarie di natura economica e tenute in piedi da controversie legali con tanto di avvocati e carte bollate. Posso affermare però che la possibilità di portare delle preoccupazioni realistiche, una valutazione delle problematiche più distaccata e interessata alla sopravvivenza della struttura, una dose di buon senso, ha almeno permesso che certi toni di guerra fossero abbassati con la possibilità di una più lucida constatazione realistica dell’enorme responsabilità che tale società avesse su tante persone e famiglie. Ovviamente le figure impegnate in questo tipo di situazione non erano tutti mediatori, tranne il sottoscritto. Erano presenti comunque persone con una formazione di tipo psicoterapeutico e con ruoli di autorevolezza all’interno della struttura. In questa situazione è stato facile condividere posizioni di base della mediazione, che del resto avvenivano in un contesto naturale.

Conclusioni
Da tutte queste esperienze personali la riflessione è che ovviamente la mediazione è un intervento utile, ed è auspicabile che esso entri maggiormente all’interno dei percorsi istituzionali. La domanda però è: in quale tipologia d’istituzione la mediazione ha possibilità di essere presa in considerazione e che cosa sarebbe possibile fare affinché essa guadagni maggiormente spazio all’interno di contesti istituzionali? Le varie istituzioni che ho segnalato, e che ovviamente non le rappresentano tutte sono quelle che io nella mia personale esperienza ho attraversato. Esse sembrano segnalare il rischio di un’esclusione assoluta della mediazione come intervento possibile richiesto dall’esterno, stante la necessità da parte del mediatore di essere investito di una certa autorevolezza. Vanno però segnalati e valorizzati, in questo tipo di situazioni, processi mediativi non strutturati, attivati all’interno dell’istituzione stessa. Questa considerazione preliminare apre due importanti punti di riflessione: il primo è che molti processi mediativi possono naturalmente comparire all’interno di sistemi istituzionali, questo è un dato sia storico sia strutturale che non va sottovalutato. E’ stato largamente espresso per la prima volta da P.C. Racamier quando parlando delle istituzioni psichiatriche di cura faceva riferimento ai circuiti mediati, cioè a situazioni dove operatori, per le loro caratteristiche di umanità e per il riconoscimento del gruppo di aspetti positividella personalità, erano in grado di depotenziare conflitti altrimenti disastrosi per il personale e per i pazienti in trattamento. In questo senso la dimensione naturale, interna dei processi mediativi, potrebbe essere potenziata e amplificata attraverso la possibilità di immettere la “filosofia della mediazione”, con un certo bagaglio di tecniche operative all’interno delle istituzioni, rendendo in questo modo gli operatori stessi in grado di gestire situazioni di impasse e trovare soluzioni alternative. C’ è da tenere però presente un punto fondamentale: nella possibile gestione di conflitti paralizzanti all’interno di contesti istituzionali viene ad essere messo in discussione il concetto di neutralità, nel senso che se un operatore esterno ha notevoli difficoltà, quando investito da un mandato istituzionale, a mantenere una posizione esterna, risulta ancora più difficile per chi fa parte di un determinato sistema, potersi muovere all’interno mantenendo una distanza equilibrata tra le parti in conflitto. Del resto in situazioni di questo tipo c’ è una sfida estrema alla possibilità di strutturare setting precisi e tecniche ad hoc, da utilizzare in situazioni e momenti differenti, per cui è necessaria una notevole flessibilità mentale e capacità di mantenere assetti mentali mediativi, di relativa neutralità, con una certa capacità creativa di trovare soluzioni valide per quella situazione specifica. Una tale possibilità potrebbe essere potenziata attraverso l’esposizione di personale istituzionale scelto a esperienze formative di mediazione. Tutto ciò potrebbe da un lato potenziare quei fenomeni naturali di mediabilità istituzionale, dall’altro permetterebbe la crescita di quella cultura della mediazione che innescherebbe processi attraverso i quali l’istituzione stessa possa in futuro chiedere dall’esterno un aiuto più strutturato di tipo mediativo. Infatti, è necessario ribadire che, come in altri ambiti di intervento della mediazione, è necessaria un’espansione culturale della mediazione affinchè essa possa entrare nella mentalità istituzionale.

Bibliografia

  • J. Bleger, R.Kaes el.al., l’istituzione e le istituzioni, Ed. Borla, Roma, 1991.
  • Didier Anzieu, Il gruppo e l’inconscio, Ed. Borla, Roma, 1990.
  • Dario Di Martis, Michele Bezoari (a cura di), Istituzione, Famiglia, Equipe curante, Feltrinelli 1978.
  • Paul-Claude Racamier, Lo psicoanalista senza divano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982
  • Stefano Castelli, La mediazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.
  • Fabio Bossoli,Mauro Mariotti, Roberta Frison, Mediazione Sistemica, Sapere,Padova,1999.