venerdì 6 aprile 2007

TRA CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE LA PRASSI NELL’UFFICIO DI SERVIZIO SOCIALE PER I MINORENNI DI VENEZIA

Simona Ceccanti

Psicologa. Ufficio Servizio Sociale Minorenni Tribunale di Venezia


Nel cominciare a parlarvi di che cos’è la prassi della mediazione penale così come si va articolando da alcuni anni in Italia all’interno del sistema penale minorile del quale io faccio parte, devo fare riferimento al contesto delle norme giuridiche nel quale questa prassi va a collocarsi, che sono vincolo e risorsa. Più avanti capirete meglio perché insisto in questo caso a parlare di prassi e di come questa abbia trovato uno spazio proprio all’interno del contesto penale minorile, anche se poi farò riferimento all’esperienza specifica di Venezia, poiché altri Uffici in Italia hanno operato scelte molto diverse dalle nostre.
Innanzitutto è necessario andare a definire il significato dei termini mediazione e conciliazione. Interessante e denso di spunti in tal senso è il modo come vengono definiti questi termini dal vocabolario della lingua italiana Zingarelli.
Il verbo mediare viene definito come: “arrivare ad un’intesa con la mediazione di qualcuno.
Non esiste il corrispettivo verbo conciliare, esiste solo come sostantivo e fa riferimento al concilio vescovile!
Mediatore è definito come “intermediario che contribuisce al raggiungimento di un accordo”, mentre conciliatore è definito come “che concilia. Giudice. Chi concilia”
La parola mediazione è definita come “attività del mediatore”, mentre la parola conciliazione è definita come “raggiungimento di un accordo”.
Come è facile dunque evincere dall’approfondimento del significato di questi termini, mentre la mediazione è una attività che viene svolta da un soggetto che è per definizione terzo (intermediario) e che può avere varie e diverse finalità tra le quali “il raggiungimento di un intesa” che è comunque quella che le parti scelgono liberamente, la conciliazione si configura già come risultato (raggiungimento di un accordo) in cui il conciliatore non viene definito come intermediario ma come colui che “agisce “questo accordo (conciliatore è colui che concilia – il giudice).
Questo aspetto non è di secondaria importanza nella prassi operativa in quanto, come vedremo più avanti, a dispetto di spazi di riflessione comune
tra gli operatori del mio servizio, vi sono sicuramente differenze significative nel modo in cui viene declinato il mandato della Procura.
Questa infatti ci segnala i casi per i quale ritiene fattibile una conciliazione con questa dicitura: “si prega in particolar modo di valutare la possibilità di una conciliazione tra le parti”.
Rispetto a questa richiesta l’operatore può decidere di proporsi alle parti come conciliatoremediatore, considerando la conciliazione uno dei possibili obiettivi ma non l’unico, come del resto vedremo nel caso che porterò ad esempio. Intorno ai due estremi di un continuum ideale che va dal conciliatore al mediatore, gli operatori del mio servizio si collocano in modo differente a seconda della formazione professionale ed anche delle personali convinzioni.
ovvero come sostituto del giudice, oppure come


Il primo vincolo giuridico con il quale si scontra chi fa’ mediazione penale è uno dei principi cardine dell’ordinamento giuridico italiano:in Italia vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Questo implica che la Procura non può autonomamente decidere quali reati perseguire e quali no. Nel momento in cui riceve una notizia di reato il pubblico ministero deve avviare le indagini e questo atto introduce immediatamente il conflitto all’interno del sistema giudiziario.
Questo spiega perché, pur essendoci un grosso dibattito ormai da anni all’interno della giurisprudenza sulla opportunità di arrivare alla costituzione di uffici di mediazione penale, di fatto non si sia mai riusciti a produrre una legge che li istituisse.
In ogni caso, pur avendo presente questo vincolo forte, chi si occupa di mediazione penale deve tenere conto di un concetto fondamentale introdotto da Vittorio Cigoli: quello di transfert sulla giustizia.
Nel caso della mediazione penale in ambito minorile dobbiamo prendere in considerazione almeno due soggetti che stanno “trasferendo” qualcosa sul sistema giudiziario: il minore e la parte offesa. Un terzo soggetto sono poi i genitori del minore.
Per quanto riguarda l’adolescente noi sappiamo che l’atto deviante si configura come comportamento comunicativo forte che attiva delle risposte altrettanto forti dal punto di vista istituzionale. Mazzei a questo proposito parla dei due aspetti insiti in un messaggio: il rumore ed il contenuto. Per poter capire il senso del comportamento deviante e poterlo restituire all’adolescente è necessario partire dal rumore per leggerne il contenuto e restituirlo al minore ed ai suoi genitori.


Se ciò che viene preso in considerazione è solo il rumore che il comportamento dell’adolescente ha prodotto, questi sarà successivamente costretto ad aumentarlo con l’intento implicito di far arrivare agli adulti quella parte del messaggio che egli voleva comunicare.
Per quanto attiene invece alla parte offesa, questa a sua volta nel momento in cui si rivolge alla giustizia attraverso la denuncia/querela, trasferisce su di essa una serie di bisogni, aspettative e richieste che debbono essere ascoltate, lette e restituite perché possa avviarsi un vero processo di mediazione.
Possiamo quindi già sintetizzare sommariamente il primo compito di chi si occupa di mediazione penale come quello di capire il tipo di transfert che viene portato sul sistema giudiziario dai diversi soggetti interessati nel conflitto.
Il processo penale minorile contiene al suo interno alcune brecce che hanno consentito di avviare una sperimentazione sulla mediazione penale nonostante il forte vincolo di cui abbiamo precedentemente parlato.
Le brecce sono costituite da alcuni articoli di legge che mostrerò brevemente attraverso i prossimi lucidi e che sono gli stessi articoli di legge sui quali si fonda il lavoro degli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni in Italia.
Gli USSM sono Uffici alle dipendenze del Ministero della Giustizia che si occupano di quei minori che entrano a qualche titolo nel sistema penale minorile in seguito a denuncia o ad arresto. Gli USSM lavorano su segnalazione della Procura e/o del Tibunale per i Minorenni, ma sono autonomi nella loro organizzazione e gestione.
Gli articoli del DPR 448/88 che regola il processo penale minorile che ci interessano per il nostro discorso sono tre:
Art. 9 (Accertamenti sulla personalità del minorenne) – “Il Pubblico Ministero e il Giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili.”
Art. 27 (Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto) – 1 - “Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il Pubblico Ministero chiede al Giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne”.
2 – “sulla richiesta il Giudice provvede in camera di consiglio sentiti il minorenne e l’esercente la potestà dei genitori, nonché la persona offesa dal reato”.
Art. 28 (Sospensione del processo e messa alla prova) – Il Giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova …. Con il medesimo provvedimento il Giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato.”
Prima che si decidesse di aprire uno spazio alla mediazione penale la prassi degli operatori del nostro Servizio era a grandi linee questa:
la procura segnalava i minorenni al nostro servizio per svolgere l’indagine psico-sociale sulla base dell’art. 9 che abbiamo visto sopra. Il servizio convocava il minorenne e la sua famiglia ed iniziava quella fase di conoscenza che poi poteva arrivare alla presentazione di un progetto di messa alla prova nel corso del processo. I tempi dell’intervento del Servizio venivano essenzialmente scanditi da:




  1. la gravità del reato e/o della situazione personale e familiare del minore


  2. i tempi processuali.




Questo, alla luce anche del carico di lavoro notevole del Servizio stava a significare che i tempi della presa in carico delle situazioni meno problematiche oppure per i reati più lievi, venivano essenzialmente scanditi dall’iter processuale. Tanto per dare un es. nel nostro Trib. Possono passare anche due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio del PM alla fissazione dell’Udienza preliminare.
Pertanto questi minorenni attendevano in un limbo senza alcuna possibilità di dare un senso all’agito deviante. D’altro canto la parte offesa vedeva comunque lese le sue richieste ed i suoi bisogni che aveva proiettato sulla Autorità giudiziaria in una generica attesa di “giustizia”, poiché al suo atto (la denuncia) non faceva apparentemente seguito niente.
Nel 1996 il dott. Gustavo Sergio, procuratore presso la procura minorile di Venezia, presentò ad un convegno una relazione dal titolo “La criminalità minorile in veneto – concrete ipotesi di mediazione”.
Successivamente vi fu un incontro tra il nostro ufficio e la Procura nel quale venne concordata una ipotesi di prassi diversa che avesse alla sua base dei principi comuni ispirati al DPR 448/88. Tali principi possono essere così sintetizzati:


- importanza di una rapida uscita del minore dal circuito penale;
- dare voce alle esigenze ed ai bisogni della parte offesa che spesso rimane nell’ombra nel corso del procedimento penale;
- rendere il minore protagonista del proprio percorso educativo;
- dare un significato diverso alla rilevanza sociale del fatto che, attraverso la ricomposizione del conflitto, viene ad essere attenuata;
- evitare la delega totale al penale di conflitti che potrebbero essere gestiti all’interno del tessuto sociale delle parti.


Con la Procura si è quindi avviato un confronto che ha riguardato:




  1. la tipologia dei reati da segnalare;


  2. la modalità attraverso la quale questi reati debbono essere segnalati al Servizio;


  3. di quali informazioni necessita il Servizio per poter intervenire.




A questi incontri ha fatto seguito la messa a punto di una prassi di mediazione penale che è il frutto di diversi momenti di riflessione e condivisione all’interno dell’Ufficio. Tali momenti hanno però riguardato più “che cosa si fa” piuttosto che il “come si fa” e sicuramente è mancata una seria definizione al nostro interno relativamente ai ruoli di “mediatore” o di “conciliatore”.
Ho sottolineato precedentemente che la Procura segnala al servizio la possibilità di tentare una “conciliazione” tra le parti. I reati che generalmente vengono segnalati sono di gravità medio-lieve, con alcune eccezioni che vedremo. Per i reati lievi il PM può già chiedere autonomamente un proscioglimento sulla base dell’art. 27 (irrilevanza del fatto).
Il principio giuridico in cui si è inserita la possibilità di conciliazione all’interno del penale minorile è quello di considerare che laddove vi sia stata una ricomposizione del conflitto che ha dato origine all’azione penale, la rilevanza sociale del fatto viene ad attenuarsi.
Prende corpo quindi l’idea che è il contesto sociale che fattivamente si assume la responsabilità di decidere quali azioni sono o non sono rilevanti (e non il giudice in sé sulla base di principi astratti) ma soprattutto si apre uno spazio affinché le parti possano riprendersi e riconoscere quei bisogni che avevano trasferito sulla giustizia.


I reati segnalati dalla Procura si suddividono pressappoco al 50% tra reati procedibili d’ufficio e reati procedibili su querela.
Questo dato si è rivelato molto importante rispetto al significato che può avere l’avvenuta ricomposizione o meno del conflitto tra le parti. Infatti, se nel caso di un reato procedibile su querela, l’avvenuta conciliazione può portare il querelante a rimettere la querela, “costringendo” il giudice a prendere atto e a non procedere oltre nell’iter penale, nel caso di reati procedibili d’ufficio, il servizio trasmette alla Procura relazione sull’avvenuta conciliazione, fornendo tutti i dati necessari relativi agli accordi delle parti, dopo di che è il PM prima ed il giudice dopo che decide se ratificare o meno tale accordo, in che modo ed in che sede (con il proscioglimento per irrilevanza del fatto in sede d’indagini preliminari o con la concessione del perdono giudiziale in sede di Udienza Preliminare).
Il mediatore penale, pertanto, deve sempre tenere presente che opera all’interno di un contesto giudiziario e che qualsiasi sua scelta o mossa può andare o non andare ad incidere sulle scelte ultime del giudice. Vi è una sostanziale differenza con l’ambito civile, per es. nei casi di separazione e divorzio, nel quale i coniugi che scelgono di rivolgersi al mediatore gli chiedono di operare in un ambito extragiudiziale; qui siamo già completamente all’interno del sistema giudiziario e di fatto le parti della mediazione sono tre e non due (non parte offesa – reo, ma parte offesa – reo e autorità giudiziaria, oltre che naturalmente Servizio Sociale).
Se dovessimo pertanto fare un’analogia tra la mediazione penale ed altri interventi che coinvolgono in qualche modo la giustizia, la mediazione penale ha molte più similitudini con l’intervento nell’ambito della CTU che non con la mediazione civile vera e propria.
Le fasi dell’intervento di mediazione vero e proprio sono:
- segnalazione della Procura1; Alla richiesta la procura allega il modulo con la notizia di reato.
- Assegnazione ai singoli operatori (o a più figure professionali, es. assistente sociale-psicologo);
- Primo contatto con le parti (per lettera o telefonicamente) e convocazione del minore e dei suoi genitori;
- Uno o più colloqui con minore e genitori;
- Uno o più colloqui con la parte lesa;
- Incontro congiunto di mediazione ed eventuale stipula dell’accordo.
In tutte queste fasi la nostra attenzione è orientata a capire quali bisogni portano le parti, a consentirgli di esprimerli ed ha decodificare in termini di significato le eventuali richieste reciproche (es. di risarcimento economico).
Con il minore in particolare fin dal primo colloquio, pur premettendo che il nostro compito non è quello di valutare la veridicità dei fatti, cerchiamo di capire se egli riconosce la propria responsabilità rispetto ai fatti attribuitigli ed in che misura. Infatti, per poter procedere nella mediazione è necessario, per ovvi motivi, che egli riconosca almeno in parte la propria responsabilità, anche se non necessariamente negli stessi termini che gli viene attribuita dalla parte offesa.
Il colloquio con il minore è inoltre orientato fin dall’inizio al tentativo di inserire il reato nel contesto più ampio della fase di vita che egli sta attraversando, oltre che a capire che tipo di relazioni c’erano o ci sono tuttora con la parte offesa.
La mediazione penale minorile a mio avviso, pur se con le debite differenze deve poter mantenere al suo interno quegli aspetti educativi a cui si ispira tutto il DPR 448/88. La nostra funzione rimane quindi quella di comprendere il significato del reato ed a partire da questo fare delle proposte che vadano nella direzione del sostegno e del controllo. La mediazione, quindi, non deve essere per l’adolescente un modo per sfuggire ad una punizione supposta ma deve aiutarlo a divenire protagonista delle sue azioni, attraverso un percorso di comprensione e di riflessione a posteriori del suo comportamento.
In questo senso l’incontro per la mediazione può divenire il preludio a successive forme di intervento più mirato sulle singole situazioni e lo spazio di ascolto concesso può finalmente mettere la famiglia nella condizione di poter chiedere aiuto rispetto ad un momento di difficoltà in questa fase del ciclo vitale.
Ho tralasciato di parlare in questo intervento di quelle mediazioni che hanno per oggetto un conflitto tra minori e istituzioni od organizzazioni (che divengono parte offesa), perché merita un discorso a parte. Anche in questo caso, comunque, è utile utilizzare il concetto di transfert sulla giustizia, per es. per leggere il tipo di difficoltà che spingono alcune istituzioni, come ad esempio quella scolastica, a fare ricorso ad un’autorità esterna (il giudice) per far fronte a conflitti con la propria utenza (l’adolescente), dopo aver fallito tutte le altre risorse educative.


Un esempio “anomalo” di mediazione penale.
Il caso che ho deciso di illustrarvi si presenta come un po’ anomalo, per vari aspetti, in riferimento alle consuete segnalazioni per la conciliazione. La prima anomalia è il tipo di reato segnalato, piuttosto grave “atti di libidine violenta” compiuti da un gruppo di sette minorenni ai danni di una coetanea; la seconda riguarda le modalità della segnalazione ed infine la terza anomalia è relativa alla modalità con la quale abbiamo deciso di intervenire.




Il fatto
E’ avvenuto circa un anno e mezzo fa, in una sera d’estate, nella piazza del paese di un piccolo comune del Veneto. In quell’occasione un gruppo di sette minorenni costringe con la forza una ragazza del paese, quattordicenne (che chiameremo Martina) ad appartarsi in una zona buia della piazza, la collocano su un muretto e iniziano una serie di atti violenti, tra cui palpeggiamenti, penetrazione di dita nella vagina e nell’ano. Qualcuno la tiene ferma, altri le tengono la bocca chiusa, altri ancora si limitano ad assistere alla scena. Dell’episodio sembrano accorgersi un amico e un amica della ragazza che però non intervengono, sostengono, per paura.
Un’altra ragazza viceversa, che si rende conto di quanto sta accadendo, intima ai giovani di lasciare Martina ed il fatto si interrompe. M. rientra sconvolta al Bar del paese. Poco dopo le si avvicina uno dei ragazzi protagonisti della vicenda che lei conosceva e, vista la ragazza sola e disperata insiste per riaccompagnarla a casa.
M. non racconta niente ai genitori per alcuni giorni. Il giorno successivo al fatto, lo stesso ragazzo che l’ha riaccompagnata a casa (che chiameremo Luca) le si avvicina chiedendole scusa. Si dice sconvolto per quanto ha fatto e dice di non riuscire a capire neanche lui come ha potuto commettere un gesto del genere. E’ l’unico dei sette ragazzi che nell’anno e mezzo successivo ha fatto un gesto di riconoscimento nei confronti di M., così come i suoi genitori che, una volta venuti a conoscenza dell’accaduto si sono spontaneamente recati a casa di M. con il figlio per esprimere il loro grande rammarico per il suo comportamento ed hanno poi preso dei provvedimenti educativi nei confronti dello stesso.
Gli altri ragazzi (in particolare uno) nei giorni successivi avevano raccontato il fatto nel bar del paese come una prodezza, descrivendo la vittima come consenziente.

La denuncia
Una volta venuti a conoscenza dell’episodio i genitori di M. decidono di sporgere denuncia con l’intento dicono “che ai ragazzi arrivasse un segnale forte dal Tribunale che li costringesse a riflettere sull’accaduto”.
Dopo circa una settimana dalla denuncia, vedendo che l’atteso segnale non arrivava e di fronte alla figlia che stava sempre più male, era spaventata, non usciva più di casa, si rivolgono nuovamente ai CC con l’intento di ritirare la querela perché non intendevano sottoporre la figlia ad ulteriori stress che un eventuale processo avrebbe comportato. Resi edotti dell’impossibilità del ritiro, in quanto reato procedibile d’ufficio, d’accordo con il Maresciallo, decidono di far aggiungere una postilla alla denuncia in cui dichiarano le loro intenzioni ed in cui ne precisano le motivazioni non perché il fatto non sia avvenuto ma per non provare ancora di più la figlia.
M. frattanto acconsente di essere vista da una psicologa privatamente per essere aiutata a superare il momento di forte disagio. Farà complessivamente dodici sedute a cadenza settimanale.

La segnalazione
Il Procuratore chiede al nostro Ufficio, ad un anno e mezzo dal fatto, la disponibilità a convocare la ragazza ed i suoi genitori per capire quali sono attualmente le loro idee rispetto al procedimento penale, come sta la ragazza e se vi è lo spazio per tentare una conciliazione tra le parti.

I colloqui con Martina e i genitori
Nei colloqui avvenuti con M. ed i suoi genitori (M. è figlia unica) oltre ad informarli della richiesta della Procura, si è cercato di ricostruire la modalità con la quale hanno affrontato all’interno della famiglia tutta la situazione che è seguita all’episodio: i loro sentimenti, quelli di M.; come hanno supportato la figlia a superare il momento difficile, i sentimenti nei confronti dei ragazzi e delle loro famiglie.
Si è inoltre cercato di capire prima con i genitori e M. poi solo con la ragazza il senso del loro chiedere la chiusura di tutto.
Sono emersi in primo luogo i sentimenti di paura:
delle ritorsioni dei ragazzi con l’idea che, imputandola responsabile di un eventuale processo a loro carico, avrebbero ricominciato a sparlare di lei. Inoltre la paura, fortissima, di dover raccontare nuovamente i fatti in un aula di tribunale, davanti a molte persone ed ancora un grande timore di soffrire nuovamente adesso che aveva ritrovato una certa serenità.
Tutto questo la spinge a dire che non le importa che i ragazzi vengano condannati o meno, tantomeno le interessa il tipo di punizione tanto lei rimane convinta che questi ragazzi non saranno mai in grado di pensare al danno che le hanno provocato.
Gli obiettivi del lavoro con M. saranno quindi quelli di:
- aiutarla a far emergere la rabbia che sembra congelata dal sentimento di paura in relazione con una immagine interiorizzata dei ragazzi molto potente e pericolosa;
- una volta emersi ed espressi i sentimenti di rabbia, consentirle di accettare quello che in terapia familiare si chiama “confine generazionale”, attraverso il suo potersi affidare ad un tribunale che giudicherà i ragazzi “non in nome suo” (vendetta) ma “in nome del popolo italiano”.
- Permetterle comunque di avere un ruolo attivo nell’iter penale, esplicitandole il fatto che parallelamente all’attività di sostegno con lei, il Servizio (nella persona di una educatrice e di uno psicologo) avvierà un intervento con i ragazzi e le loro famiglie sul cui esito informerà la Procura. La ragazza viene inoltre informata del fatto che io parteciperò alle équipe con i colleghi che seguiranno i ragazzi e che le équipe saranno il luogo dove si tenterà di ragionare insieme sui reciproci vissuti, aspettative, preoccupazioni ecc.
Aiutarla a connettere le percezioni relative ai ragazzi avute nel corso di quest’ultimo anno e mezzo (alcuni di loro abbassano lo sguardo quando la vedono come se si vergognassero, altri hanno tentato di salutarla, altri ancora conosciuti per le loro difficoltà ed insicurezze) con un immagine interna statica di soggetti immutabilmente potenti e pericolosi. Attraverso una “riconciliazione” ed un ridimensionamento di questa immagine interna potrà infatti diminuire quel vissuto di ansia e di paura che comunque l’accompagna.

Colloqui con i minori e con i loro genitori
Non mi dilungherò sui colloqui avuti dai colleghi con i minori e le loro famiglie i cui obiettivi erano essenzialmente:
- l’atteggiamento dei ragazzi rispetto al reato contestatoli (riconoscimento o meno della responsabilità individuale ed in quale misura);
- se vi erano stati, nel tempo, dei mutamenti rispetto all’atteggiamento nei confronti del reato;
- i sentimenti espressi nei confronti della vittima;
- se e che tipo di risposta educativa era stata data dai genitori alla notizia dell’episodio;
- se avevano mai pensato o cercato di contattare la vittima o i genitori della vittima e se no perché.
Le famiglie erano informate dei colloqui che in parallelo avvenivano con la parte offesa e con i suoi genitori ed anche dell’aspettativa principale che li aveva spinti a far ricorso alla giustizia: “non per ottenere vendetta ma per dare un segnale forte ai ragazzi che li permettesse di riflettere sul loro comportamento”.

Risposta alla Procura
La conclusione di questi colloqui preliminari con le parti ci ha spinti a valutare che:
- il desiderio della ragazza e dei suoi genitori di non procedere nell’iter penale era dettato da sentimenti di paura (espressi) e da una rabbia molto forte (non espressa). Tale rabbia, che se resa esplicita avrebbe potuto lasciar trasparire desideri di vendetta, li aveva portati a confondere vendetta e giustizia, come se da loro esclusivamente dipendesse la sorte dei minori (da qui di nuovo il timore di ritorsioni). Era pertanto importante che l’Autorità Giudiziaria si definisse ed operasse delle scelte tenendo conto dei bisogni della parte offesa ma senza confermare l’idea che necessitasse della sua “autorizzazione a fare giustizia”.
- Un eventuale percorso riparativo indiretto dei ragazzi avrebbe potuto aiutare anche la vittima a ridimensionare l’immagine introiettata dei minori vissuti in modo onnipotente (proprio perché l’avevano ridotta all’impotenza).
- Tale percorso riparativo andava però collocato in un contesto Istituzionale formale (l’Udienza Preliminare) nel corso del quale i minori riconoscessero formalmente le loro responsabilità e si assumessero degli impegni davanti all’autorità Giudiziaria.
- Non escludevamo a priori la possibilità di un incontro conciliativo vero e proprio tra i ragazzi e la ragazza ma solo dopo che questi avessero fatto un percorso di significazione del reato e se e quando la ragazza, attraverso un percorso parallelo di elaborazione, fosse stata pronta ad affrontare tale incontro.



Conclusioni
Si è trattato questo di un caso di mediazione penale? Io credo di sì, poiché fin da subito si sono prese in considerazione entrambe le parti del conflitto e si è cercato con loro di lavorare avendo in mente anche l’altra parte.
La preoccupazione di uno sbilanciamento verso la vittima nel caso di un reato così forte mi ha spinto a chiedere aiuto ai due colleghi ed ha trasformato il mediatore in un équipe di mediazione che ha tenuto conto del lavoro reciproco ed ha lavorato passando all’utenza quest’idea di un percorso di tessitura dei diversi punti di vista in incontri congiunti tra i professionisti che stavano conducendo l’intervento.
C’è stata un’opera di rilettura in itinere della richiesta iniziale della Procura che ci ha portato ad effettuare proposte diverse ma condivisibili con l’Autorità Giudiziaria che, crediamo, le consentiranno di muovere delle scelte più legate ai reali bisogni delle parti.
Una eventuale messa alla prova che dovesse essere concessa ai ragazzi nel corso di una udienza preliminare, consentirà loro di assumersi concretamente delle responsabilità, di attribuire un senso al comportamento deviante all’interno della loro storia e di consentirgli fattivamente di operare una riparazione (seppur indiretta) rispetto al danno prodotto.
Nell’ultimo colloquio con Martina, quando le è stato spiegato il tipo di proposta che l’équipe intendeva fare alla Procura (compresa la disponibilità dei ragazzi e delle famiglie ad una eventuale messa alla prova), ella si è finalmente potuta permettere di dire “avessi dovuto decidere io non so che tipo di punizione gli avrei dato, comunque so che qualsiasi cosa non sarebbe stata abbastanza per farmi stare meglio”.
Martina rimane giustamente perplessa del reale “pentimento” dei ragazzi (o almeno di alcuni di essi) ma si è sentita sollevata del peso che i suoi sentimenti di rabbia, mai veramente espressi, le inducevano: rimanere immobile per non agirli, sentirsi responsabile di tutto, anche della sorte di chi le aveva fatto male, confondere un legittimo desiderio di giustizia con il desiderio di vendetta che non poteva essere placato.
Questo è il primo passo, a mio avviso, perché ella possa elaborare i sentimenti depressivi connessi con la violenza subita (forse la riparazione dentro di me è possibile), in una fase delicata della vita com’è l’adolescenza.

Note


  1. Il PM può solo segnalare al Servizio di prendere in considerazione
    questa opportunità (la conciliazione), ma non può imporla.
    La valutazione ultima relativamente alla fattibilità spetta al servizio.