venerdì 6 aprile 2007

MEDIAZIONE FAMILIARE E AFFIDO EDUCATIVO - UN’ESPERIENZA IN AMBITO INTERCULTURALE

Alessandra Salata

Socio ordinario A.I.M.S. Logos, Genova



Quando non ero che rumore,
voi foste orecchio
E divenni parola
G. Dubreuiln


Mediazione familiare e affido educativo, un’esperienza in ambito interculturale
Vorrei portare qui il racconto della mia esperienza di educatrice affidataria formata alla mediazione familiare relazionale sistemica. Scopo fondamentale della testimonianza è offrire uno stimolo di riflessione su un ambito particolare di applicazione della mediazione familiare, o meglio delle funzioni di mediazione. L’educatore affidatario lavora presso il domicilio della famiglia su incarico del Distretto sociale, con obiettivi, generalmente, di sostegno a minori in difficoltà. L’intervento può essere richiesto dalla famiglia come aiuto nello svolgimento delle sue funzioni o deciso dal Distretto su segnalazione del Tribunale o, spesso, della scuola dove si evidenzia più frequentemente il disagio dei minori. Parlo di funzioni di mediazione dunque perché l’intervento non ha le caratteristiche di autonomia rispetto al contesto istituzionale cui ho accennato, né una funzione specifica di intervento sui conflitti familiari legati al processo di separazione.


Premessa
La famiglia (tutti i nomi sono di fantasia) con cui ho lavorato è così composta: il padre, Mohamed, egiziano, ha circa 40 anni ed è musulmano osservante. La madre, Gina, 44 anni, è di origine calabrese, cattolica. I figli, Abdullah e Josef, nati rispettivamente nell’‘84 e ‘86 in Egitto, nella stessa cittadina del padre, sono iscritti, all’inizio del mio incarico, alla terza media e alla prima superiore. I coniugi sono separati di fatto, da circa tre anni, non avendo mai raggiunto accordi di separazione per via legale. Conosciutisi in Italia alla fine degli anni ‘70, si sposano dopo circa tre anni di “amicizia”. I conflitti esplodono subito, “dal primo giorno”, racconta Mohamed. Dall’82 all’84, quando nasce Abdullah, la coppia viaggia, tra l’Italia e il nord Africa, alla ricerca di una sistemazione economica (un lavoro). Con la nascita del bimbo i coniugi si sistemano presso i nonni paterni, in Egitto. Qui nasce anche il secondogenito e subito dopo partono per l’Italia, lasciando i bambini ai nonni. Due anni più tardi il nucleo si ricongiunge in Italia, in Liguria dove Mohamed ha avviato un’attività col fratello. I conflitti continuano violenti, i bambini trascorreranno alcuni periodi in collegio da interni prima e poi semi convittori. Nel ‘94 Gina tenta di dar fuoco al marito. Il fatto va sui giornali, interviene il Tribunale dei minori che infine decide l’affidamento al padre. Nel ‘96 padre e figli partono per l’Egitto. Gina pare estromessa dal nucleo e dalle funzioni genitoriali. Mohamed racconta che “non voleva occuparsi dei figli”. In Egitto i due ragazzi restano soli, in un collegio, mentre il padre è impegnato, distante chilometri, in un attività con il fratello. Nel ‘98 muore la nonna paterna; i tre rientrano in Italia perché racconta Mohamed, i ragazzi chiedono di vedere la mamma, con cui non hanno più contatti da due anni.
Il padre chiede all’assistente sociale un aiuto per i figli, poco prima del loro rientro in Italia. La domanda è di sostegno scolastico. Il Distretto Sociale accoglie la richiesta sulla base essenzialmente di tutta la vicenda pregressa del nucleo, già conosciuto ai Servizi sociali e al Tribunale dei Minori per la lunga storia di conflitti brevemente descritta (con forti ricadute sul benessere dei figli: ripetute segnalazioni dalla scuola per il disagio manifestato dai bambini, scarso rendimento scolastico, agitazione, passività, assenza dei genitori, in particolare della madre dalla vita scolastica dei figli ecc).
Il Tribunale aveva archiviato il caso, chiedendo ai Servizi sociali di comunicare l’eventuale rientro dei ragazzi. Dunque la richiesta del padre determina una riapertura dei fascicoli, e un intervento che si riconnette alla vicenda drammatica del nucleo.
Da una analisi della domanda che tenga conto della complessità del sistema in cui è formulata e dei bisogni sottostanti, emergono i seguenti punti:




  1. Richiesta autonoma di aiuto da parte del padre, solo


  2. Risposta del Servizio in termini di sostegno alle abilità cognitivo relazionali dei ragazzi, in funzione di una buona integrazione scolastica, con la proposta di un educatore affidatario.


  3. Funzione di controllo da parte dei servizi sociali, connessa alla presenza del Tribunale nella vicenda del nucleo


  4. Assenza della madre


  5. Bisogno dei figli di ricongiungersi alla madre (rivederla)


  6. Richiesta, da parte dei servizi, di un’educatrice donna che entri nel sistema familiare


  7. storia pregressa di altissima conflittualità coniugale con intervento del Tribunale


  8. Vissuto abbandonico dei ragazzi culminato nei due anni ad Alessandria, come dato più recente di una storia complessiva di disagio denunciato dalla scuola elementare e dalle comunità alloggio in cui i bambini hanno vissuto per alcuni periodi della loro storia.




L’intervento educativo
L’intervento è deciso come segue: otto ore settimanali da suddividere in tre pomeriggi; l’obiettivo esplicitato e condiviso con il padre in sede di contratto (primo incontro) è di facilitare e sostenere l’integrazione dei due ragazzi nelle rispettive scuole, sia sul piano dell’apprendimento che su quello relazionale. La sede del mio intervento è il domicilio stesso del nucleo famigliare, dove frequentemente incontro anche il padre.
La prima fase dell’intervento educativo è caratterizzata dalla costruzione della mia relazione con Josef, Abdullah, attraverso il sostegno scolastico e con il padre attraverso colloqui in cui progressivamente porta il racconto della vicenda famigliare. Il rapporto tra padre e figli è connotato dalla forte autorità esercitata dal primo e dalla scarsità di dialogo; pare che Mohamed abbia stabilito un ordine e un patto incentrato sull’idea di dovere: il suo in quanto padre e quello dei figli (devono studiare è l’ingiunzione ricorrente e pressochè unica). Lavora e li mantiene, cucina, accudisce la casa, rivestendo perciò il ruolo lasciato vacante da Gina. Questo impegno del padre nell’accudimento ha inizio quando i tre rientrano in Italia, in coincidenza dunque con l’assunzione del mio incarico e la morte della nonna egiziana. Nel modo in cui Mohamed si prende cura dei figli c’è il ricordo di sua madre: racconta orgoglioso il piglio autoritario di quella donna che sapeva, da sola, tenere tutto sotto controllo: ma nell’efficienza di quell’ordine non circolavano carezze (nel racconto prende coscienza di come tanti suoi atti clamorosi da bambino e adolescente fossero altrettante richieste, alla madre, di conferme sul piano afettivo). Mi racconta che il profondo dolore per la perdita della madre lo ha avvicinato ai suoi figli, e al loro disagio per l’assenza di Gina. Nei colloqui ampliamo il contesto di indagine sul piano trigenerazionale e i significati trovano nuove connessioni utili sia alla comprensione del qui ed ora sia di aspetti della storia passata.
Nei primi sei mesi circa dell’intervento educativo, Gina continua ad essere assente (ma sappiamo che vive nella stessa città); lentamente trovo un modo per trattare il vuoto, con i ragazzi e con il padre. Accolgo il racconto che quest’ultimo mi offre della storia coniugale, tutto intriso di recriminazioni e svalutazione, e tento una sorta di presentificazione della moglie. Stimolo Mohamed ad assumere in qualche momento i panni della donna assente, quelli di madre, ma anche di figlia, a sua volta. Porto la sua attenzione sui figli, sul vuoto che in loro ha formato l’assenza di Gina. I ragazzi iniziano a parlare della madre quando si stabilisce tra noi un rapporto di fiducia ed alleanza. Il primo segno significativo della loro disponibilità a parlare della madre è l’album di foto che mi mostrano, spontaneamente. La maggior parte delle foto ritrae la madre con i figli piccoli.
Il tema dei bisogni dei figli diviene centrale nel dialogo tra me e il padre: egli assume, progressivamente un punto di vista meno rigido. Ne comprende meglio il vissuto, coglie con maggiore chiarezza i bisogni inespressi, i segni di disagio (frequentemente aggressività). Svolgo un ruolo che definirei di facilitatore del dialogo. Intervengo in situazioni di conflitto tra padre e figli, restituendolo nelle sue componenti anche di conflitto intergenerazionale (interventi di normalizzazione). Mohamed inizia a muoversi seguendo due obiettivi: facilitare l’accesso dei figli alla madre, tentando di isolare se non di eliminare la parte relativa al conflitto di coppia; intervenire su questo in vista di una soluzione (chiede al Servizio sociale di aiutarlo per ottenere la separazione legale).
Il piano della coppia e quello genitoriale si configurano progressivamente come sistemi separati; in questo modo è stato possibile diminuire le dinamiche di alleanza e triangolazione a danno dei figli (dinamiche che dal racconto pare abbiano punteggiato tutta la storia coniugale, fino all’estromissione di Gina con l’intervento del Tribunale. In assenza della donna quelle dinamiche hanno continuato a funzionare in termini di ricatto del padre nei confronti dei figli). L’assunzione del duplice ruolo, materno e paterno da parte di Mohamed si trasforma spesso nella dimostrazione ai figli dell’inettitudine di Gina (del suo abbandono, “non vi vuole” oppure “non è capace”). Assumere a tema ricorrente il disagio dei ragazzi, tra conflitto di lealtà e vuoto, e la fatica del padre, solo nell’impegno genitoriale, si è rivelato un modo efficace per richiamare in causa la madre, non più solo come causa di, ma come possibile risorsa. Lo stesso tema del bisogno dei figli si è dimostrato funzionale all’abbassamento del conflitto: portando l’attenzione di Mohamed su quel bisogno, ho stimolato in lui la rielaborazione e il progressivo abbandono dei temi più fortemente rivendicativi e accusatori. Così si è verificato una sorta di spostamento di significati. I figli, da testimonianza quotidiana di un fallimento (di coppia, esistenziale: “se non fosse per voi”) a vittime di quelle difficoltà. L’attenzione di Mohamed si è sensibilmente spostata e il timore di perdere i figli (timore legato a fatti specifici: fuga da casa, cattive compagnie, fallimento scolastico, svalutazione della figura paterna) si coniuga con una maggiore attenzione ai bisogni soggiacenti le loro azioni (in ciò è stata efficace la rilettura della sua storia di figlio, avvenuta anche nei colloqui con la psicologa del Distretto).
Dopo sei mesi dall’inizio del mio lavoro telefono a Gina per presentarmi e informarla sul lavoro di sostegno scolastico che faccio con i figli: mi pare importante che anche la “mamma “lo sappia. Parlo con lei delle difficoltà scolastiche dei ragazzi, Gina è diffidente all’inizio, poi inizia a parlare come una madre preoccupata per i figli, e pesca nella memoria episodi delle elementari. Dopo qualche giorno viene a trovare i figli. E’ l’occasione per riaccendere il conflitto coniugale. La visita ai figli diviene il pretesto per dare voce nuovamente ad antiche accuse e rivendicazioni. In casa c’è Mohamed; io non sono presente. Nel periodo che segue i ragazzi mostrano più chiaramente segni di malessere: dalla scuola arrivano segnali allarmanti, note per atteggiamenti aggressivi, plateale trasgressione delle regole, oltre ad un progressivo disimpegno. Aumenta anche la conflittualità tra i ragazzi e il padre e si affaccia la tendenza a citare la madre come figura idealizzata, vittima della stessa prepotenza che i ragazzi additano nel padre. In questo contesto si sono intensificati i colloqui tra me e Mohamed. Punto di partenza è sempre la scuola e il malessere che lì viene denunciato: ma i temi che si intrecciano a quello sono chiari e ricorrenti, trame di un ordito che produce senso e significati: l’assenza della madre, il desiderio dei figli di vederla, le paure di Mohamed e la sua rabbia; il sistema di valori che l’uomo ha interiorizzato: l’accesso dei figli alla madre pare bloccato dall’immagine che Mohamed ha della funzione materna (immagine idealizzata della madre egiziana che, mi racconta, è figlia di un Imam) e dalla sostanziale difficoltà a dissociare l’idea di madre da quella di moglie. Gina è continuamente accusata da Mohamed proprio perché incapace di adeguarsi a quel modello; permettere che ora i figli le riconoscano il ruolo gli appare una sconfitta (nella logica conflittuale che ha dominato la storia della coppia); Mohamed sembra chiedere ai figli (ma non solo, anche a me, e agli operatori dei Servizi Sociali), di essere riconosciuto come l’unico genitore giusto e degno di rispetto. Gina comunque è rientrata nelle dinamiche attuali del sistema familiare, telefona spesso ai ragazzi e loro parlano di lei.


Ancorare le questioni più fortemente conflittuali al qui e ora, scendere sul piano della co - genitorialità possibile colmando un vuoto disfunzionale per il benessere dei ragazzi, accogliere le richieste dei figli in un contesto di dialogo aperto il più possibile all’intero sistema (utilizzando perciò anche la presentificazione e il racconto di un là e allora in funzione della riconnessione di significato in termini trigenerazionali): questi in sostanza gli elementi concreti dell’intervento educativo nel nucleo familiare (il tutto attraverso i colloqui, l’ascolto attivo, il racconto); i modelli familiari interiorizzati perdono progressivamente il carattere assoluto; Mohamed sembra in effetti accedere ad un’idea meno rigida dei ruoli. Prende contatti con Gina, le chiede di collaborare per il bene dei figli; riduce la tentazione conflittuale mantenendo l’attenzione sul qui e ora della genitorialità. Mohamed lascia che Gina entri nella sua casa e resti sola con i figli. La ripresa delle relazioni è lenta e incerta, ma sicuramente significativa. Non si può più parlare di assenza tote corde, né di vuoto. In mancanza di accordi formali, tutto appare all’insegna della casualità, e della fragilità. Il fatto stesso che Gina faccia visita ai figli nella casa del padre, è un elemento di grande criticità, ma nel tempo verrà risolto.
Quando incontro Gina, in casa dei ragazzi,, la donna sfoga la rabbia nel racconto della sua vicenda coniugale: “me ne ha fatte di tutti i colori” è la formula sintetica e ricorrente del suo vissuto di moglie; altro tema ricorrente è l’allontanamento dei figli, frutto della cattiveria di Mohamed. Utilizzo tecniche di contenimento, verbali e non, in quanto lo sfogo è convulso. Porto l’attenzione di Gina sulla sua storia familiare, mi parla del padre “padrone” da cui è scappata a 20 anni, tagliando i ponti con tutta la famiglia. Le chiedo cosa pensa di Mohamed come padre, mi dice che lo apprezza, è bravo (“un bravo padre e un gran lavoratore”); su queste riflessioni si abbassa la rabbia. Riprende il tema conflittuale con le accuse di tradimento, ma la riconduco al qui e ora del mio ruolo (educatrice affidataria, sostegno ai ragazzi) e del benessere dei figli. Durante il colloquio mi rivolgo a lei come mamma,presentificando spesso i figli (che in genere stanno in un’altra stanza quando il colloquio con i genitori non è di mediazione su questioni che li coinvolgano direttamente). Chiedo il suo parere su quanto è possibile fare perché i ragazzi stiano bene. Gina introduce il tema del suo lavoro: non può occuparsi dei figli, purtroppo, perchè il lavoro la costringe a lunghi periodi fuori città. La questione viene di nuovo riportata sul piano della coppia, al conflitto che contrappone vittima e carnefice, per cui il marito mostro è responsabile del distacco della madre dai figli. Se Mohamed le passasse degli alimenti, allora per lei sarebbe più semplice occuparsi dei figli, questo è l’argomento che Gina mi porta nel discutere il suo ruolo di madre. Con una certa frequenza Gina paragona il marito al padre da cui è fuggita.
Il riconoscimento del coniuge come buon padre segna comunque un passo verso un rapporto di co- genitorialità: nei mesi seguenti, e non è un caso, si registra un sensibile abbandono delle strategie di alleanza e coalizione a danno dei figli; i due genitori si parlano e si scambiano informazioni: la scuola, il motorino ecc.


Un colloquio di mediazione familiare




Antefatto
Su una questione scolastica esplode violenta la rabbia del padre contro Josef, il più piccolo dei figli. Abdullah interviene per difendere il fratello, “se non fossi intervenuto io l’avrebbe ammazzato di botte”, dice. L’episodio crea una profonda frattura tra il primogenito ed il padre, tanto che il ragazzo vuole andarsene da casa, dalla madre o, piuttosto, in una comunità. Non è disposto a perdonare il padre per ciò che ha fatto, inoltre ne ha abbastanza dei suoi modi autoritari. Scappa e si rifugia nella casa della madre. Lei lo accoglie, ma gli dice subito che non potrà restare lì, perché non si può occupare di lui (il lavoro la impegna), ma fa anche riferimento al provvedimento del Tribunale per i Minori che affidava i figli al marito. Mohamed va a prendere il figlio e lo riaccompagna a casa promettendogli che avrebbe parlato con l’assistente sociale per trovargli una sistemazione in comunità. Tutta la questione mi viene riferita nei giorni stessi in cui accade (dai ragazzi e dal padre); anche Gina si mette in contatto con me e mi chiede un colloqui perché non sa come comportarsi con il figlio: “sono preoccupata”. Decido di organizzare un incontro con la famiglia Nabuccoweir, presso il domicilio del padre dove svolgo il mio lavoro di educatrice affidataria.

Il colloquio
In primo luogo esplicito il problema che ha portato a quell’incontro: “siamo qui per cercare assieme delle soluzioni al problema di Abdullah”, al suo conflitto con il padre, alla sua decisione di andarsene da questa casa. Il fatto che tutti si fossero rivolti a me per chiedere un aiuto, anche se individualmente, è alla base del mio mandato di mediazione. Ho ritenuto utile chiarire l’oggetto dell’incontro per circoscriverlo all’ambito di funzionamento del sottosistema genitoriale, cosciente della tentazione conflittuale di quella coppia, e della possibilità di arrivare in quell’occasione ad un reciproco riconoscimento dei ruoli. Chiedo ad Abdullah di esporre il problema; con evidente fatica (disagio) mette a fuoco le questioni per lui fondamentali: i modi autoritari del padre e l’insofferenza per la scuola. L’antefatto di cui sopra ho riferito, sembra aver scatenato un malessere più antico e a lungo mascherato, una tensione che non riusciva ad essere rielaborata in un più costruttivo dialogo tra le parti. Questa è l’occasione per esplicitare le due questioni al padre. Gina coglie il tema della violenza del sistema paterno (autoritario fortemente normativo) per introdurre le sue recriminazioni di moglie ; il rischio che il focus scivoli sulla coppia e sul suo conflitto è forte. Gina tenta di attivare una coalizione con il figlio, e anche fisicamente osservo lo spostamento: Gina si avvicina al figlio e gli cinge le spalle. Intervengo a riportare la discussione entro il contesto stabilito. Chiedo ai genitori cosa possono proporre al figlio rispetto alle questioni che ha posto alla loro attenzione (le riassumo). A proposito della scuola Gina parla della sua esperienza, della fatica di trovare un lavoro decente, avendo solo la terza media; con il nonno era praticamente impossibile dialogare, le aveva negato di frequentare la scuola che avrebbe voluto, Al contrario, continua Gina, con Mohamed è possibile discutere la questione della scuola, è disponibile. Mohamed e Gina sottolineano al figlio l’utilità di proseguire gli studi. Restituisco quanto emerso sottolineando il fatto che “mamma e papà sono d’accordo nel consigliarti per il tuo bene, di terminare la scuola; entrambi sono disposti anche a cercare per te un lavoro serale che ti permetta di fare esperienza e di avere del denaro tuo da gestire autonomamente”. Chiedo ad Abdullah se ha delle alternative alla comunità, mi risponde che andrebbe volentieri dalla madre, ma si affretta ad aggiungere che non è possibile perché lei, spesso, è fuori città. Chiedo a Gina quali idee ha a proposito: mi dice che potrebbe ospitarlo comunque ogni volta che è a casa. Chiedo ai ragazzi e al padre cosa pensano della proposta; si dichiarano d’accordo. Chiedo al padre, che sembra a disagio, cosa teme possa accadere da una simile soluzione: mi dice che potrebbe succedere che i ragazzi smetterebbero di andare a scuola, oppure inizierebbero ad uscire di sera, farebbero insomma ciò che vogliono. Mi rivolgo a Gina e le chiedo se può rassicurare Mohamed; lo fa e pare sia sufficiente, almeno per il momento, a superare l’empasse. Chiudo la questione dicendo che “mamma e papà sono d’accordo sui modi per educare i figli, ne condividono i punti principali. Chiedo a Gina quando sarà libera dagli impegni di lavoro, così da poter già stabilire una prima sperimentazione dell’accordo. Le vacanze di Natale, imminenti sono il momento adatto; si accordano tra di loro e alla fine decidono che i fratelli trascorreranno le vacanze con la madre. Nel frattempo il maggiore trascorrerà già il prossimo fine settimana con lei. Mohamed si dichiara d’accordo. L’atmosfera che si è creata alla fine di quel colloqui mi fa pensare che sia stato un utile stimolo.
Dopo le vacanze di Natale, riprendendo il mio lavoro, ho raccolto con soddisfazione il racconto dei ragazzi; sono stati bene, prima a Genova con la madre, poi, assieme a lei, in Calabria dai nonni che non vedevano da anni. Il cenone di S. Silvestro ha visto riunita la famiglia allargata (14 persone), in una grande festa che ha commosso Gina, come racconta Josef, tra sorpresa e soddisfazione.

Tutta questa vicenda ha aperto una nuova fase nella riorganizzazione delle relazioni dei Nabuccoweir; la madre, pur restia ad assumere impegni definiti, ha iniziato a mantenere con i figli un contatto più frequente. Telefona e di tanto in tanto li invita a casa sua. I ragazzi hanno imparato a rivolgersi a lei per questioni che non vogliono discutere con il padre, appaiono più sereni. Le tensioni si sono sensibilmente allentate, su tutti i piani (genitori, coppia, intergenerazionale). Seguiranno altri episodi in cui sarà in questione di nuovo il benessere dei ragazzi: gli ex coniugi collaboreranno spontaneamente al fronteggiamento della crisi ; ciò mi fa pensare che il sistema familiare si sia riorganizzato in termini di maggiore funzionalità ed equilibrio.
L’esperienza di Natale, mostrando ad entrambi i genitori che nulla di ciò che temevano si è verificato (perdita del controllo genitoriale da parte del padre e paura ad assumersi impegni da parte della madre) ha sciolto il nodo che teneva avvinghiati il piano genitoriale con quello coniugale, restituendo entrambi ad una maggiore chiarezza di contenuti e funzioni. Ha stimolato, quella stessa esperienza, una riconnessione, sul piano trigenerazionale, con la famiglia materna. I racconti dei ragazzi, per la prima volta, si sono arricchiti dei ricordi dei nonni materni, con cui da piccoli hanno trascorso qualche periodo. Accanto alla mitologia della famiglia egiziana, con i suoi riti, riferimenti culturali e religiosi, si affaccia da questo momento in avanti il tema dell’italianità. Nella storia dei due ragazzi il tema dell’appartenenza razziale è estremamente vivo e complesso per i significati che veicola; non è certo questa la sede per aprirne l’analisi, ma ritengo opportuno accennare ad un fatto. Nei tempo in cui ho lavorato con la famiglia Nabuccoweir, ho assistito al passaggio di Josef (il più giovane dei fratelli) attraverso tre fasi; una prima di adattamento passivo alla cultura araba, una seconda di aperta ribellione a questa cui contrapponeva il primato della sua italianità (con aspetti di forte svalutazione del padre), infine una sorta di revisione delle due componenti che pare il prerequisito per un equilibrio e una personale sintesi. In questi passaggi la connessione con le vicende familiari è evidente. Le tre fasi coincidono con:

  1. la convivenza con il padre, che ha (ri)assunto da poco la sua funzione, e l’assenza della madre;
  2. il rientro della madre nelle vicende familiari, tra tentazione conflittuale e ricerca di un dialogo;
  3. nuovo equilibrio relazionale, co-genitorialità e tentativi di separazione legale sul piano coniugale


Lo scenario multiculturale
L’aspetto multiculturale è evidentemente un aspetto imprescindibile del mio intervento. I significati famigliari infatti si intrecciano qui strettamente con quelli culturali.
Nell’analisi del racconto della storia familiare, la posizione di migrante del padre appare inscindibile sia dall’incastro di coppia sia dal suo ruolo genitoriale; basti accennare al fatto che l’uomo sposa Gina per ottenere la cittadinanza italiana, in un momento in cui rischia l’estradizione; il rito, civile, non compone le differenze culturali, semmai le esaspera. L’uomo poi continuerà a imporre il primato della sua cultura, come coniuge e come padre. Molta parte del conflitto coniugale si sviluppa come scontro tra attribuzione di ruoli secondo il genere, derivati in gran misura dalla cultura di appartenenza. Lo spazio domestico, nella cultura araba è lo spazio della donna; l’accudimento dei figli, della casa, sono le mansioni attribuite al ruolo di moglie. La donna non deve mettersi in mostra e se lo fa questo provoca un effetto destabilizzante sull’identità di ruolo nell’uomo (questo risulta dal racconto del padre). La donna che questo egiziano sceglie come moglie è una calabrese non così lontana dalla sua cultura, almeno per ciò che attiene genere e ruoli. Ma ai temi culturali si annodano gli insoluti conflitti delle rispettive storie familiari.
Lui è scappato da una famiglia dell’Egitto del sud, tradizionalista e chiusa; sceglie di andare in Italia a cercare una dimensione di libertà. Lo fa ottenendo un mandato familiare preciso, quello di cercare un fratello che non dava più notizie da tempo. Parte a 17 anni felice di lasciare quella realtà soffocante. Ma si porta appresso il peso di un legame forte con la cultura di appartenenza, sino a riproporne schemi e dogmi con la stessa forza dei padri. Gina è scappata dalla sua famiglia perché soffocata da una cultura restrittiva. Il padre le nega qualsiasi libertà. Recide i legami e va a lavorare al Nord come entreneuse. I due si incastrano nell’illusorietà del mito libertario, migranti, entrambi figli mai separatisi. Poi confliggono con violenza in uno scenario che si illumina di significati trigenerazionali e culturali.

Nel mio intervento ho utilizzato anche colloqui di mediazione su questioni culturali, tra il padre e i figli. I ragazzi
mostravano un bisogno evidente di integrazione tra le due culture; avvinghiati alla legge del padre musulmano, trasgredivano quotidianamente quei precetti. Tra sensi di colpa, sotterfugi, fughe, silenzi e si annidiava un malessere connesso all’incoerenza del loro stato. Anche in questo scenario la distinzione dei piani, genitoriale e di coppia è stato un fattore essenziale, un prerequisito per allentare le tensioni tra padre e figli su temi culturali e religiosi. Al controllo è succeduto il dialogo e la comprensione. Il dialogo ha stimolato in Mohamed la comprensione degli elementi di differenza, fattori importanti al fine dell’integrazione dei ragazzi nel loro contesto di vita e crescita. Ancora una volta gli elementi culturali sono strutturali nella storia familiare e da leggere in questa: il primato della cultura musulmana è in quella famiglia il primato del padre sulla madre, assente, indegna, pazza. Il lento riconoscimento degli aspetti, diciamo, occidentali della vita quotidiana dei ragazzi (abbassamento della guardia rispetto all’osservanza del digiuno, delle preghiere, la frequentazione della moschea, dell’astensione dall’alcol) è andato di pari passo con il riconoscimento della madre nel suo ruolo.
Nel percorso qui descritto il Distretto ha partecipato al lavoro avvallando il mio intervento e rileggendo il contesto familiare in questione alla luce degli sviluppi di cui riferivo. La buona collaborazione sul piano della rielaborazione del materiale derivato dalle rispettive osservazioni e valutazioni ha permesso di svolgere il lavoro di sostegno alla famiglia, senza che pregiudizi di sorta (in prima linea l’incapacità genitoriale) intervenissero a rallentarne il corso. Mi riferisco anche al rischio di conflitti di competenza tra operatori (l’educatrice, la psicologa, l’assistente sociale) o relativi al contenuto del progetto (sostegno ai minori come categoria scollegata se non contrapposta al sostegno alla famiglia e alla genitorialità, e, ancora, svalutazione dei fattori culturali come non pertinenti l’intervento psico-sociale). Il progetto iniziale è stato così progressivamente ricontrattato e rivisto; la psicologa ha raccolto alcuni stimoli per iniziare dei colloqui con il padre (con importanti insight) e i ragazzi, separatamente, mentre l’assistente sociale ha svolto la sua funzione di controllo sull’andamento del progetto riconoscendone la validità. Dunque io ho potuto impegnare le competenze tecniche e teoriche derivate dalla mediazione sistemico relazionale senza che ciò determinasse incongruenze formali o di contenuto, rispetto al ruolo di educatrice.

Note

  • Ciola A., Stare qui stando là (Star seduto tra due sedie, o... la condizione del migrante) in Terapia Familiare n. 54, Luglio 1997.
  • C. Gallo Barbisio, a cura di (1994), IIl bambino diviso, Ed.Tirrenia Stampatori, Torino.
  • Mazzei D., La mediazione familiare sistemica. L’approccio simbolico trigenerazionale, in corso di pubblicazione.
  • M. Pia Gardini. M. Tessari (1993), L’assistenza domiciliare per i minori, Ed. La nuova Italia scientifica, Roma.
  • E. Scabini, (1995) Psicologia sociale della famiglia, Ed. Bollati Boringhieri, Torino.
  • Vergellin G., Tra veli e turbanti, (2000) Marsilio Editori.