venerdì 6 aprile 2007

PADRI, AFFIDAMENTO E MEDIAZIONE

Livia Turco

Psicologa, Roma, Formata alla mediazione presso ITFS Psicoterapeuta in formazione ITFF

Quando ho cominciato ad osservare il fenomeno del cambiamento della relazione padre e figlio in particolare in seguito alla separazione coniugale, sono rimasta colpita dalla difficoltà di rintracciare un’uniformità nel modo di osservare, concepire, vivere, oggi, la paternità.
Il quadro non appare di semplice lettura a causa della contraddittorietà e della grande variabilità dei modelli comportamentali, affermatisi e tuttora in evoluzione, a seguito di grandi trasformazioni storiche, sociali, giuridico-istituzionali e culturali che sono intervenute a modificare ruoli antichi e consolidati.
Le famiglie, è sotto gli occhi di tutti, stanno cambiando. Non esiste più un unico e rassicurante modello di riferimento.
Sempre più spesso assistiamo alla nascita di nuove forme di vita in comune: famiglie separate, famiglie ricostituite, famiglie “allargate”, famiglie di coppie omosessuali, nuclei familiari monoparentali e unioni di fatto.
Sono mutati i rapporti tra i sessi, le donne sono entrate a far parte del mondo del lavoro; le nascite sono drasticamente diminuite, si è innalzato il livello di scolarità e si è allungato il periodo di dipendenza dei figli dalla famiglia; sono cambiate le attese nei confronti della vita di coppia e le relazioni all’interno del nucleo familiare.
La famiglia è vista sempre più come un luogo di scambio affettivo, di costruzione di sé, di coesistenza di identità individuali, di sviluppo e di realizzazione personale. Gli uomini che decidono di “metter su famiglia” si trovano sempre più coinvolti in una paternità immediata e diretta e non, come avveniva in passato, in una paternità a distanza (autoritaria e simbolica) e posticipata all’adolescenza dei figli.
Oggi delimitare la funzione paterna in termini di risposta al ruolo di bisogno di autorità e di mantenimento economico dei figli è alquanto riduttivo.
Superato il periodo di eclisse totale, si assiste ad un rinnovato interesse verso il tema del padre come evidenziano i sempre più frequenti convegni, conferenze, dibattiti, trasmissioni televisive ed anche spot pubblicitari che si occupano in qualche modo di paternità.
Si fa un gran dibattere sull’esistenza o meno di un istinto paterno per certi aspetti simile a quello che consente ad una madre di essere “sufficientemente buona” (Winnicott) per ciò che riguarda la cura e la crescita dei figli.
Diverse ricerche fatte negli Stati Uniti, dimostrano che lì dove il padre sia posto nella condizione di doversi occupare del figlio anche molto piccolo è in grado di surrogare la madre completamente. E appare del tutto legittimo opinare che un padre sia in grado, non solo e non tanto di “surrogare” la madre, ma anche, e soprattutto, di stabilire con il figlio una relazione affettiva importante del tutto peculiare al modo di essere di entrambi: una relazione che consenta al bambino di crescere e di vivere nel modo migliore possibile.
A questo proposito mi ha molto colpito la testimonianza di Raul Medina Centeno, docente in Psicologia Sociale a Madrid e ricercatore presso l’università di Cambridge, il quale riferisce che si riscontra una sensibilità del tutto nuova, da lui definita come “istinto paterno”, in quei padri che, per diverse situazioni, si sono assunti totalmente la responsabilità dei loro figli.
Pur senza voler assegnare un valore scientifico alla sua biografia, essa mi sembra comunque utile e molto significativa ai fini dell’argomento che stiamo affrontando.
La sua personale esperienza è quella di padre di due bambini piccoli, di cui si è assunto molto presto la piena responsabilità in seguito alla morte prematura della moglie.
Questo evento molto doloroso ha cambiato radicalmente il suo modo di essere padre. In seguito alla nascita dei bambini, la coppia genitoriale aveva stabilito un accordo di divisione dei compiti impostata su un modello di famiglia piuttosto tradizionale in base al quale il padre avrebbe continuato a lavorare a tempo pieno fuori casa e la madre si sarebbe presa cura dei bambini. Essendo quest’uomo anche un padre molto affettivo, guardava con occhio di ammirazione il rapporto che la madre aveva instaurato già con il primo figlio Alex: “notavo che loro condividevano un proprio mondo, che si esplicava con un linguaggio corporeo comprensibile soltanto a loro due, come quando Alex aveva fame, sete, caldo, freddo o una colica ecc. La mia spiegazione e consolazione di tale speciale condivisione, come padre, era che fosse effetto dell’istinto materno…”. In seguito era nata un’altra bambina, Nicole e, nonostante il padre si fosse assunto più compiti rispetto al primo figlio, la suddivisione dei compiti aveva continuato ad esistere.
In seguito prima alla malattia e poi alla morte della moglie l’assetto familiare aveva dovuto subire un radicale cambiamento “Quella situazione mi obbligò a prendermi cura dei figli a tempo pieno e cambiò profondamente le mie responsabilità di padre. Ogni giorno imparavo qualcosa di nuovo, cambiare i pannolini o cantare una ninna nanna. Oggi, con i miei figli, abbiamo instaurato una relazione significativa che si esprime attraverso un linguaggio comune. Ad esempio, durante la notte, anche se addormentato, riesco a sentire ogni loro movimento; capisco quando sono stanchi, ammalati, quando hanno fame o sete, quando vogliono giocare dormire o riposare. Curiosamente anche loro mi ascoltano, sono al corrente di me; ciò spiega la natura interattiva della paternità.
D’altro canto, ho anche sperimentato dei radicali cambiamenti nel modo di esprimere i miei sentimenti a loro…Tutto questo mi fa pensare a qualcosa di viscerale che è sorto in me: probabilmente un istinto paterno”.
Sicuramente non è facile per i padri farsi spazio in un mondo che è da sempre appannaggio delle donne. Le figure di riferimento per i bambini, ancora oggi, sono quasi sempre ed esclusivamente femminili: le mamme, le maestre, le baby-sitter, ecc.
Eppure, al di là di tutte le contraddizioni insite nei periodi di trasformazione, oggi i padri dimostrano di voler esserci all’interno della rete affettiva familiare. Fin dal momento della gravidanza sono più partecipi e vicini alle loro compagne. Sono entrati in sala parto e prendono parte alla vita dei figli fin da quando questi sono ancora molto piccoli: non è più così raro vedere un padre con il neonato in braccio o che lo porta a spasso nel marsupio o nella carrozzina.
Questo cambiamento sembra essere soprattutto individuale e avviene con una grande variabilità che dipende da diversi fattori: le caratteristiche e le storie personali di ciascuno, la generazione di appartenenza, il livello economico e culturale, il contesto allargato di riferimento e così via.
Concentrandosi sull’essenza delle questioni, ritengo di poter affermare che le immagini della paternità più evocate sono quelle della presenza e della partecipazione e, contemporaneamente e specularmente, quelle dell’assenza e della perifericità.
Queste due posizioni solo apparentemente si contrappongono. In effetti, la consapevolezza dell’assenza paterna e la realizzazione dei costi che questa provoca all’interno della famiglia e nei figli, nasce nel momento in cui i padri si inseriscono e acquistano una loro pregnanza all’interno della rete affettiva familiare.
Eppure, anche se l’importanza della figura paterna nella vita dei figli è ormai individualmente ed almeno in parte socialmente riconosciuta, ancora oggi si incontrano molteplici ostacoli nel vivere un rapporto, tra padre e figlio, pienamente coinvolgente ed affettivamente importante.
La varietà e l’incidenza di questi ostacoli sono particolarmente evidenti nel caso della separazione coniugale. Proprio in seguito a questo evento, infatti, la relazione padre-figlio deve fronteggiare il rischio di una sostanziale rottura, a causa del persistere di pregiudizi, convenzioni, tradizioni sociali e consuetudini giudiziarie che tuttora prevalgono nelle decisioni per l’affidamento della prole, nonostante l’evoluzione oggettiva, compiuta sul piano del sentire sociale e del diritto, in direzione di una maggiore parità genitoriale.
Nel momento in cui la famiglia si separa sembrano riproporsi, da parte del contesto sociale, culturale, giuridico all’interno della quale essa è inserita, modelli anacronistici secondo i quali alla donna spetta la cura degli affetti e all’uomo il mantenimento economico.
Quasi sempre, in caso di separazione, si verifica uno squilibrio evidente a favore dell’affidamento monogenitoriale alla madre che, il più delle volte, comporta una radicale esclusione del padre dalla vita del figlio.
Se non consideriamo i casi di madri che rinunciano all’affidamento o il cui comportamento appare particolarmente deviante o in cui si riscontrano evidenti patologie, si può concludere che, tutt’oggi, per la nostra società, per la nostra cultura, per larga parte del nostro sistema giudiziario, i figli continuano ad appartenere ancora e soprattutto alle madri.
Le statistiche dell’Istat mostrano che fino al 1998 l’affidamento ai padri ha subìto un calo progressivo: nel nostro paese i figli dei separati vengono affidati nel 90,9% dei casi alle madri, nel 4,7% ai padri, nel 3,9% ad entrambi i genitori, attraverso l’affidamento alternato o congiunto, e nello 0,5% “ad altri”. Se osserviamo le percentuali vediamo che l’affidamento dei bambini al di sotto dei sei anni, alla madre, è ancora più elevata, il 94%, mentre quella al padre è al di sotto del 3%.
Il fenomeno che appare più vistoso, comunque, è lo squilibrio esistente a favore dell’affidamento monogenitoriale (oltre il 95%). E ciò proprio perché esso appare in contrasto con i risultati delle sempre più numerose, diffuse ed autorevoli ricerche che indicano come fondamentale, per i figli dei genitori separati, il mantenimento della “bigenitorialità” e della continuità affettiva con entrambi.
Molto spesso, in sede di separazione coniugale, i padri vengono relegati, da parte delle istituzioni giudiziarie, ad un ruolo del tutto marginale: la prassi vuole che un bambino figlio di genitori separati di norma veda il padre un fine settimana sì e uno no, quindici giorni l’estate e qualche altro giorno durante le feste.
Sappiamo d’altronde che l’ansia del cambiamento e le resistenze da esso indotte possono portare ad un modo di ragionare stereotipato.
Questo è esattamente ciò che sembra avvenire nei nostri tribunali quando il giudice stabilisce le modalità di affidamento dei figli in seguito alla separazione, quasi sempre alla madre, senza ascoltare i minori, quasi mai facendo ricorso alla CTU che consentirebbe di approfondire le dinamiche e la situazione familiare.
All’interno del sistema giudiziario gli elementi della coppia in via di separazione che vengono privilegiati, in base all’abitudine di affrontare le questioni in termini di contenzioso, sono quelli conflittuali, per cui l’esito del giudizio porterà ad individuare necessariamente una parte vincente ed una perdente; l’oggetto più rilevante di questo contenzioso spesso è proprio l’affidamento dei figli.

Ancora oggi, come molte ricerche dimostrano, una parte dei giudici procedono all’affidamento in base a criteri rivolti ad evidenziare le caratteristiche della personalità dei due genitori attribuendogli, per di più, una valenza negativa in funzione dell’esclusione dell’affidamento piuttosto che della sua attribuzione. Questo non fa altro che aumentare i risentimenti, le frustrazioni, il senso di inadeguatezza di chi – prevalentemente il padre – si sente punito e tagliato fuori.
Solo in questi ultimi anni, presso alcuni tribunali, si vanno affermando i criteri della disponibilità di accesso all’altro genitore e del rispetto della bigenitorialità.
Tutto questo al di là delle intenzioni di ciò che e scritto è prescritto dalla legge. La motivazione che deve maggiormente condizionare la scelta delle modalità di affidamento in seguito alla separazione, è quella che si basa sull’interesse del minore: ma da nessuna parte viene descritto e definito cosa sia realmente questo tanto citato interesse.
E’ come se la paternità, che sta acquisendo un suo significato e una sua forza all’interno del nucleo familiare, a livello sociale e giuridico sia caratterizzata invece da una certa debolezza e da una mancanza di riconoscimento.
Questa frattura tra contesto individuale e familiare da una parte, e contesto sociale dall’altra, può diventare fonte di una sofferenza che va ad aggiungersi a quella della separazione quando, in seguito al mancato superamento della crisi coniugale, una relazione importante e significativa tra padre e figlio viene ostacolata, impedita, interrotta.
L’analisi della documentazione e delle indagini disponibili dimostra che fortunatamente non tutte le famiglie che si separano hanno problemi per raggiungere nuovi equilibri che siano adeguati per ogni componente, e che non tutti i padri separati rivendicano la loro presenza nella vita dei figli. Ma altrettanto sicuramente dimostra che molti padri che vorrebbero mantenere una continuità affettiva con i propri figli in seguito alla separazione incontrano serie difficoltà.
I sintomi di questo disagio sono evidenziati, tra l’altro, dalla progressiva diffusione di associazioni di genitori e, in particolare, di padri separati, che sono una delle nuove e rare occasioni in cui anche gli uomini si riuniscono per affrontare problemi legati alla sfera affettiva.
I casi più estremi si concretizzano nei numerosi e spiacevoli fatti di cronaca le cui motivazioni sono spesso legate alle difficoltà ed alla sofferenza conseguenti alla separazione coniugale.
L’associazione “EX” dal 1996 ad oggi ha raccolto in un archivio più di 500 casi di morte violenta, per un totale di oltre 600 vittime, maturate nell’ambito delle separazione.
Con questo non vorrei banalizzare un problema che ha determinanti molto complesse. Il disagio e le difficoltà conseguenti alla separazione solo in alcuni casi possono funzionare da miccia per l’esplosione di una violenza smisurata e incontenibile, contro se stessi o contro coloro che si ritengono responsabili della propria sofferenza.
Tuttavia è innegabile che i genitori che si separano, nel rivolgersi all’istituzione esterna, sono alla ricerca di un contenimento e di un sostegno che raramente e difficilmente può oggi trovare soddisfazione nelle aule dei tribunali. Questo sistema, abituato a risolvere i problemi in termini di contenzioso, finisce per porre le parti in gioco su un piano di contrapposizione, alimentando e cristallizzando il conflitto, che in queste situazioni è già fisiologicamente molto elevato, oltre che altamente disfunzionale.
Sarebbe viceversa essenziale poter assicurare alla richiesta di aiuto fatta in seguito alla crisi separativa, una lettura degli eventi in termini di una maggiore complessità secondo un’ottica psicologico-relazionale che, fino ad adesso, è estranea alla formazione specifica di giudici ed avvocati.
Per cercare di ridurre lo scarto esistente tra i nuovi modi di sentire, considerare e vivere la paternità e ciò che effettivamente avviene in seguito alla separazione coniugale, bisogna probabilmente riuscire ad ampliare quelli che sono gli ambiti angusti dei tribunali e rivolgere lo sguardo anche ad altre risorse.
La percezione di questa necessità non è intuibile unicamente dal punto di vista psicologico, ma è sentita anche all’interno dello stesso ambito giuridico: varie proposte di legge, tuttora in discussione, attestano della volontà diffusa del legislatore di favorire l’evoluzione di una cultura giuridica diversa rispetto al passato, e più consona alle nuove sensibilità individuali e sociali, in materia di separazione. In queste proposte viene contemplata, in varie forme e modalità, la possibilità di offrire alla famiglia dei percorsi paralleli a quello giudiziario, per aiutarla in una fase altamente delicata del suo ciclo vitale.
La mediazione familiare, oltre che rivelarsi uno strumento utile per trovare e formulare degli accordi adeguati, si presenta come possibilità di ascolto in una situazione di crisi e cambiamento. I padri, come le madri, come pure i figli, possono riuscire in questo contesto, privo di elementi di pregiudizio ma anche di giudizio, ad avere uno spazio dove bisogni ed esigenze possano essere riconosciuti in funzione del raggiungimento di nuovi equilibri.
In questo senso mi sembra che la mediazione possa essere considerata uno strumento particolarmente utile per riuscire ad accorciare il divario che esiste tra situazione separativa e nuovi modi di vivere la paternità.
La ricerca compiuta da R. Emery, nello Stato della Virginia, negli anni 1999/2000 è un esempio di come, la mediazione familiare, possa essere un utile strumento protettivo delle relazioni, in particolare della relazione padre-figlio in seguito alla separazione coniugale.
Questo risultato risulta essere ancora più significativo dal momento in cui lo scopo di questa ricerca, riportata nel Journal of Consulting and Clinical Psychology, era unicamente quello di indagare gli effetti a lungo termine della mediazione familiare nei casi di separazione giudiziale, senza che questo avesse un collegamento specifico con i cambiamenti all’interno della relazione padre-figlio.
Alla ricerca hanno partecipato 71 famiglie che avevano fatto richiesta di un’udienza per l’affidamento dei figli in seguito alla separazione, nel periodo 1983-1986. A 35 di queste famiglie, scelte a caso, era stato proposto un percorso di mediazione familiare; le altre 36 avevano seguito il normale iter giudiziario.
Le caratteristiche principali dei soggetti che hanno partecipato alla ricerca (età, numero dei figli, ceto sociale, livello d’istruzione, razza, religione, ecc.) sono simili all’interno dei due gruppi.
In sintesi, secondo i risultati di questa ricerca, tra le famiglie che si erano rivolte al giudice per ottenere la separazione, quelle che hanno seguito un percorso di mediazione presentano, a distanza di anni, una partecipazione diversa dei padri alla vita dei propri figli rispetto a quanto si verifica nel caso delle famiglie che non l’hanno fatta: i padri sono molto più coinvolti nelle decisioni da prendere sui figli, hanno contatti con loro più frequenti e meno rigidamente stabiliti.
Allo stesso tempo la coppia genitoriale è caratterizzata da una certa dose di collaborazione e di diminuzione del conflitto, riesce a comunicare meglio e presenta un maggior grado di soddisfazione rispetto agli accordi raggiunti: spesso un figlio inizialmente affidato alla madre, è potuto andare, per esempio durante il periodo adolescenziale, a vivere con il padre.
Il livello di conflittualità tra i genitori che hanno fatto mediazione è più basso rispetto a coloro che non l’hanno fatta, nonostante i contatti siano più frequenti.
La ricerca dimostra infine come la mediazione favorisca il raggiungimento di accordi duraturi tra ex-coniugi: soltanto 4 dei 35 casi che hanno partecipato alla mediazione hanno contestato in seguito quanto stabilito dal tribunale, contro i 26 casi su 36 del gruppo che ha percorso unicamente la via giudiziaria.
Nonostante non fosse tra gli obiettivi dichiarati della ricerca è emersa una significativa differenza di genere nel livello di soddisfazione riguardante gli accordi raggiunti: mentre per le madri dei due gruppi risulta essere sostanzialmente uguale, per i padri che hanno fatto mediazione si registra una soddisfazione maggiore rispetto a quelli che non l’hanno fatta.
Gli autori attribuiscono questo risultato ad una minore soddisfazione degli uomini, nei confronti di un percorso esclusivamente giudiziario, piuttosto che ad una minore soddisfazione delle donne nei confronti della mediazione.
E’ mia opinione che l’importanza di questa maggiore soddisfazione riguardo agli accordi raggiunti non risieda tanto negli accresciuti livelli di rispetto per l’ex coniuge, o di correttezza nelle reciproche interrelazioni, o nell’abbassamento del livello di conflittualità, ma che essa sia piuttosto e soprattutto da rintracciare nella capacità di queste famiglie di ridisegnare le relazioni e stabilire dei chiari confini che permettano di ritrovare efficacemente dei nuovi equilibri.
L’idea che si sta facendo strada adesso è che non è possibile separare la dinamica genitoriale dalla dinamica della coppia. Non si può e non si riesce a fare i genitori se non si è in qualche modo elaborato il distacco emotivo necessario alla separazione. Un distacco che deve compiersi non attraverso una recisione totale del legame ma piuttosto attraverso lo stabilirsi della giusta distanza.
Si è visto che tra le coppie separate, quelle che riescono a funzionare meglio come genitori, sono proprio quelle in cui ancora esiste un certo grado di coinvolgimento affettivo tra gli ex-partner.
In particolare mi sembra che i modelli di mediazione che non si occupano esclusivamente di tecniche e di metodologie ma riflettono soprattutto sui contenuti offrano lo spazio elaborativo necessario in direzione del cambiamento.
Tra i più rappresentativi il modello simbolico-trigenerazionale, che ha preso vita, è andato definendosi e strutturandosi nella esperienza clinica e didattica dei terapeuti dell’Istituto di Terapia familiare di Siena e di Firenze dal 1990 ad oggi.
I precedenti modelli di mediazione familiare operavano una sorta di taglio emotivo, simile a quello compiuto dalla coppia per riuscire a separarsi, rispetto a tutti quegli elementi che necessitavano di elaborazione.
In questo modello, molta importanza viene data ai vissuti, connessi, da una parte, con l’esperienza di perdita, dolore, taglio che la separazione comporta e, dall’altra, con l’esperienza di congiunzione necessaria alla sopravvivenza del sottosistema genitoriale e al senso del legame con la propria storia personale e familiare. La considerazione per quelli che sono gli aspetti di continuità e di ricongiunzione nasce dal fatto che ricollegarsi con le storie familiari e mantenere un certo livello di coinvolgimento a livello genitoriale, sono elementi importanti per il benessere delle generazioni future (i figli).
Lo sguardo al passato aiuta i genitori a dare un senso diverso agli oggetti del contendere, nel tentativo di trovare uno spazio di collaborazione per generare risposte efficaci alla risoluzione dei problemi.
Per concludere mi sembra che la mediazione familiare e in particolare il modello simbolico-trigenerazionale, fornisca un suo specifico, originale e significativo contributo alla creazione di situazioni più favorevoli al mantenimento ed allo sviluppo di relazioni genitoriali e, in particolare, di rapporti padri-figlio più consoni ai nuovi modi di vivere la paternità. Costituisce inoltre un mezzo per aiutare i sempre più numerosi “figli del divorzio”, a crescere nel rispetto dei loro diritti, tra i quali certo non ultimo la continuità affettiva con i genitori: entrambi i genitori, madre e padre.
Vorrei a questo punto chiudere citando lo psicologo Henry Biller, che da oltre trent’anni si occupa di paternità: “…è sempre maggiore il numero dei bambini che crescono con la metà di ciò di cui hanno bisogno. E’ probabile che essi saranno solo la metà di ciò che dovrebbero essere”.

Bibliografia

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